“DIECI OTTOBRE, DIECI DIECI, 10 10”. MICROFILM E LA SCRITTURA DEL TRAUMA
LA LETTERA SIMBOLICA
di Alberto Russo Previtali
Microfilm[1] è uno dei momenti dell’itinerario zanzottiano in cui la scrittura si misura con il trauma nel modo più oltranzistico e intenso, e in cui il trauma sembra trovare un referente oggettivo. Questo referente è la strage del Vajont. Lo si legge in italiano nel testo: “26 ottobre 1963 sotto il Vajont”; una data esibita che, come spiega Graziella Spampinato, pone il testo in una posizione di sfasamento cronologico:
La data, 26 ottobre 1963, col riferimento al crollo del monte nel lago formato dal Vajont, dichiara il suo sfasamento cronologico rispetto a Pasque, che raccoglie “versi composti tra il 1968 e il gennaio 1973”: del libro costituisce però il centro esatto. Questa scelta compositiva basta da sola a smentire ogni eventuale avvicinamento con le facili poetiche ‘visive’ di quegli anni.[2]
Riportiamo per comodità e completezza il testo e la nota dell’autore:
Autografo di Andrea Zanzotto
Non invenzione (e tanto meno ‘poesia’): ma semplice trascrizione (ammesso che sia possibile) di un sogno, in cui era compreso anche il commento e probabilmente molto di più della pochezza e casualità che qui ne appare. Aggiunta solo la data.[3]
Il commento in lingua francese è dunque parte integrante del testo del sogno, mentre la data in italiano è stata aggiunta a posteriori. Questa nota è della massima importanza, perché mostra come la scelta della lingua francese per il commento sia da situare a livello inconscio, a livello del lavoro onirico, nel quale, secondo la nota formula di Freud, è in atto la realizzazione di un desiderio.
In Una poesia, una visione onirica? Zanzotto ci offre una narrazione del sogno. A proposito del commento scrive: “subito cominciarono a formarsi anche dei commenti che balzarono fuori in francese, con vocaboli anche di altre lingue, sempre in sogno. Sembrava voler fiorire tutta una nube di commenti, di chiose”[4]. La locuzione verbale ‘balzar fuori’ esprime bene il non-sapere del soggetto rispetto a questa scelta. Zanzotto associa la funzione del francese del commento all’interpretazione che egli dà delle manifestazioni del significante del testo perimetrato dal triangolo (diciamo del ‘testo onirico’, lasciando al commento la definizione di ‘paratesto onirico’, e al titolo e alla data quella di ‘paratesto’): “valenza del linguaggio che mirava, esprimendosi, a superare la barriera della lingua sia dalla parte di un ‘prima’ sia da quella di un ‘dopo’; in ogni caso si evidenziava una spinta a ‘uscire dall’italiano’”[5]. Più avanti nella sua narrazione, l’autore ritorna a considerare il francese del commento, dicendo che esso “aveva soprattutto la funzione di far ricordare che ‘quello’ non doveva essere italiano, ma più che italiano, qualcosa che mirava a entrare, cioè, in un ordine di simboli immediati, pentecostali, universalmente leggibili vi propria”[6]. Nel racconto del sogno l’autore si concentra dunque in modo particolare sul testo onirico, estendendo le proprie interpretazioni al paratesto onirico, il quale si sarebbe quindi prodotto in francese proprio per non vanificare il desiderio di comunicazione totale che tentava di realizzarsi nel primo testo. Continua a leggere→
Preliminarmente, occorre porre attenzione alla citazione in esergo, che apre la raccolta. “Non essere limitato da ciò che è grande, essere contenuto da ciò che è minimo, questo è divino“.
Essa è tratta dall’”Iperione” di Hölderlin, il quale a sua volta la mette in esergo al suo romanzo, riportandola nell’originale latino “Non coerceri maximo, contineri minimo, divinum est“.
Pertanto, questo motto è la citazione di una citazione, e già questo ci pone in un orizzonte di slittamenti, stratificazioni, ma soprattutto di sprofondamenti: poiché è Luigia Sorrentino che cita Hölderlin, il quale cita un epitaffio, per l’esattezza l’epitaffio inciso sulla tomba di un santo, Sant’Ignazio di Loyola.
È dunque da una tomba che esala e sale la parola che anticipa tutte le altre. È l’epitaffio, ovvero la parola ultima e definitiva, che qui invece si fa parola inaugurale. Un cenno etimologico: epi, significa sopra; tàphos, significa tomba, ovvero ciò che sta sotto, il sottoterra. L’epitaffio è in sé la simultaneità, il con-stare di due opposti: il sopra e il sotto. Nel caso particolare del messaggio veicolato da questo epitaffio, gli opposti si divaricano a dismisura, diventano maximo e minimo, l’infinito e il finito, l’uno e il tutto. Ed è divino, divinum est, stare, con-stare, esserci in entrambi, situandosi in questa divergenza, in questa divaricazione.
Ora, in “Olimpia” è all’opera la febbricitante e fredda presa in carico di questa situazione, laddove si assuma la parola situazione non nella sua funzione di sostantivo, come realtà data, bensì come azione nel suo darsi, come la tensione, l’operazione instancabile del situarsi.
Luigia Sorrentino – e qui l’aggettivo febbricitante assorbe una valenza quasi puerperale – mette al mondo, plasma, architetta un luogo e un logos: un luogo in cui quella divaricazione, quella difformità, quegli opposti possano corrispondersi, possano divenire tutt’uno e non più collisioni dell’essere. E se mai questo sarà possibile, lo sarà in virtù di un logos, di una parola pensata, hölderlinianamente, nella sua potenzialità demonica, ovvero della parola numinosa e perciò demiurgica e fondativa. Stiamo parlando della parola poetica, per come la intendeva Hölderlin, o meglio, per come la intendeva Heidegger esegeta di Hölderlin: la poesia è il nominare che istituisce l’essere e l’essenza di tutte le cose.
In altre parole, la parola poetica è quell’energia primeva, quell’Ur-Sprache, la protolingua che sta sotto, tombata nel profondo delle lingue storiche, da riattingere affinché l’epitaffio, da parola sepolcrale diventi inizio, avvento, evento, nascita di ogni discorso umano, ridiventi, per dirla ancora con Heidegger, voce del popolo. E però, nel dire popolo, non può non risuonare l’esclamazione corsivata della quart’ultima poesia della raccolta di Sorrentino, che sembra quasi gridare, spopolato!
“ciò che crediamo perduto possiamo
riaverlo, te l’ho già detto, spopolato!”
Ora – posto che assumiamo la poesia come istituzione dell’essere e dell’essenza di tutte le cose – in che modo accade questa istituzione, nel proprio, nello specifico della poetica di Luigia Sorrentino? In che modo, dall’epitaffio iniziale fino a questa esclamazione e poco oltre, vengono al mondo e vanno in scena tutte le cosmogonie e le agonie di “Olimpia”, ricapitolando il sottoterra ctonio e il cielo, il passato mitico e il destino, le rovine e le fondamenta, in una mai pacificata ma sempre febbricitante scommessa su una nuovissima alleanza tra divino e uomo?
Di nuovo, è solo il testo che fa testo.
Partiamo dunque dal titolo. Il titolo è trimorfico: Olimpia è la poesia, Olimpia è la divinità che la incarna, Olimpia è una città.
Affinché la poesia, intesa come mistica del Logos originario, come Ur-Sprache autenticamente rivelativo dell’intima essenza dell’essere, possa nascere occorre preliminarmente constatare, o forse confessare, l’inautenticità del mondo, vederne l’insignificanza e il nulla, ammettere che le sue proporzioni, simmetrie, magnificenze, i suoi palazzi e altari, non sono che ruderi, relitti, monconi: vedere, come scrive Luigia, su quelle rovine ciò che di noi viene disperso. Solo azzerando questo orizzonte saturo di vestigia storiche e culturali oramai afone, si farà spazio e prenderà corpo sottoterra, annidata come una radice nel grembo stesso di questa agonia e afonia, il soffio incorrotto, la voce pura, bianca, assoluta, ab-soluta poiché sciolta dalle scorie della condizione umana e proprio per questo capace di ripensare la condizione umana, di rinominarla, di ricomprenderla non più nella dispersione e nello sperpero di sé, ma in una forma altissima.
Questa è l’Olimpia dall’incarnato bianco, dalle pupille bianche, dal sorriso chiaro, che nasce nell’antro: il volto sbiancato nell’intangibile nulla. Immagine di assoluta innocenza, di assoluta epifania, ma anche talmente generativa da compendiare in sé non soltanto la nascita, ma la gestazione stessa: lei è la nascitura, la neonata e la gravida, è il frutto e la radice al tempo stesso, lei stessa madre e grembo, ma, attenzione, grembo che si prepara a ritornare estraneo ad ogni flutto. Poniamo molta attenzione a questo verso, a questo estraneo. Qui si insinua un pericolo. Vedremo perché.
Ma torniamo al titolo e all’Olimpia città: la città di Olimpia è figura massima di questo transito, di questo passaggio, di questa trasposizione (per inciso, sappiamo che Luigia sottintende un gemellaggio tra Olimpia e Napoli, morfologicamente, potremmo dire, omozigote): dagli albori della storia ad oggi, in lei sprofondano e concrescono rovine di templi, statue gigantesche, corone di alloro, eppure in lei si accendeva e si accende il fuoco sacro; ciclicamente dentro di lei si appicca la scintilla dei giochi cari agli dèi.
La morte e la poesia: Olimpia di Luigia Sorrentino
di Giorgio Galli
Al centro di Olimpia di Luigia Sorrentino (Interlinea, 2013) vi è un après-midi, un oltre. Tutta l’opera è calata nella dimensione di ciò che è già accaduto; persino il tempo è svanito ed è entrato, dopo la terribile lotta tra forze arcaiche e primordiali, in uno spazio assoluto. Il centro di questa poesia è lo svanire, il dissolversi della dimensione umana. E proprio la persistenza di ciò che è irrimediabilmente perduto stabilisce un cardine tra la poesia di Luigia Sorrentino e il mito fondatore della poesia, quello di Orfeo. Perché cos’è la poesia se non quella volontà di riportare in vita Euridice, quella fede in una forza del canto che trascenda il limite delle parole? Milo De Angelis definisce questa poesia “orfica”, una poesia che si muove oltre la vita e al di là di essa, in un continuo richiamare ombre, per cristallizzarle o per sottrarle al tempo: o che trasforma in ombre altre creature ancor piene di vita, per fissarle o per mutare un loro istante in eternità, per poi poterlo cantare.
Se da una parte la poesia di Luigia Sorrentino intrattiene un rapporto privilegiato con la morte, è anche vero che essa stabilisce un rapporto, altrettanto forte, con la vita, con il canto attivo e vitale: ciò che è passato attraverso la morte viene rilanciato in una vita nuova. Riecheggia nell’opera la rivisitazione rilkiana del mito di Orfeo, abitatore “dei due regni” -dei vivi e quello dei morti- il quale dall’unità di queste esperienze matura che il compito del poeta è nel lodare. La poesia di Olimpia, dunque, intona l’epicedio e lo trasforma in inno. Proviamo ad andare alle origini, all’aurora della poesia. Omero cantava. La parola era un suono magico e rituale come la musica, un suono che passa e si sfa: la parola sfuggente, la chiamava con uno dei suoi epiteti formulari. A quel tempo, prima che la parola fosse riproducibile con l’artificio tecnico della scrittura, essa era una merce molto rara e quindi preziosa, sacra. La parola poetica delle origini era misterica. Ma il mistero non ha niente d’astratto. Il mistero, dice Jankélévitch, è diverso dal segreto: perché il segreto è conoscibile, ma è celato dalla volontà di non svelarlo; il mistero, invece, è patente ma inattingibile, e riguarda le cose ultime. La vita e la morte sono i più grandi misteri. Non v’è nulla d’astratto in essi: solo un’inattingibile evidenza.
Gran parte della poesia contemporanea ha allentato il legame col mistero. Anche il rapporto con la morte s’è allentato sino a rendere fatua la vita. Nessuna consapevolezza è possibile se si rimuove il nulla che anticipa e chiude la vita, il mistero tra le cui parentesi sta la vita degli individui e delle civiltà. La capacità di sentire la vita s’è persa quando la società ha abolito il suo rapporto con la morte, quando ha deciso di vivere come una società d’immortali.
Diametralmente opposta è l’operazione di Luigia Sorrentino in Olimpia, un’opera non ancorata all’autrice né al mondo che abita, la cui lingua risale alle origini per imporre tuttavia una riflessione sulla contemporaneità.
Olimpia è un poema a frammenti, che consta di otto sezioni intervallate da sette brevi prose. Il lettore percepisce le sezioni come parti di una cattedrale, che con la loro struttura confluiscono in quella dell’insieme. Queste sezioni scandiscono ritmicamente Olimpia, ne segmentano e rilanciano l’impulso originario, sì che ogni tappa del suo viaggio iniziatico contiene le precedenti e le trascende, in una continua trasmutazione dove nulla va perduto.
Sezione I: L’antro
Fin dai primissimi versi ci troviamo di fronte a due esperienze radicali e complementari: il morire e il mutare. Il morire è reso con tocchi di più immediata comprensione, di un realismo magico e stilizzato: non c’è descrizione, ma elementi descrittivi; non narrazione, ma segnali narrativi. L’altra esperienza, quella del mutare, è meno apparente, agisce come sottotesto, in un bagno rituale dominato dalla penombra e da ambivalenze verbali.
Olimpia s’apre con un gesto assertivo: “lei era lì / non era più la stessa”. Questo gesto, con il deittico lì, ci introduce fulmineo ad un rito. Scopriamo una figura femminile, che sta “attaccata alle pareti”, che sta sorgendo dalle pareti come i Prigioni di Michelangelo. C’è un altro elemento in questo paesaggio d’attesa: nulla lo definisce, sappiamo solo che è un “involo mostruoso in lontananza”. Ma questa lontananza appartiene al dove si va o al da dove si viene? In quale direzione si sta allontanando l’involo?
“Lei era un soffio chiuso / tutto era in sé pieno”. Nel momento della metamorfosi, la figura femminile inizia a esser visibile nella sua essenza: si rivela, è un soffio, ma è chiuso: spira verso il mondo, ma si rinserra. Se il moto dell’involo era ambiguo, quello del soffio è bloccato, è un tragitto incompiuto.
Il momento della metamorfosi rivela ciò che siamo, ma anche un altro momento ci rivela: quello della morte, quando la nostra storia è compiuta e non ci appartiene più. Torniamo a chiederci: a quale rito stiamo partecipando? A quello della rinascita (della trasformazione) o della morte? A ben vedere, a entrambi: il morire e il mutare sono i due volti del compiersi, ed è nel compiersi che stiamo andando. Il compiersi non ha direzione: è tutto. Non è lineare: è circolare. La morte stessa è sia il nulla prenatale, sia quello che ci attende al di là. Della figura femminile vien detto che “si rivoltava in un’altra che l’offendeva”. Questo verso è un Giano bifronte. Chi è il soggetto di offendeva? La figura femminile offende l’altra, o viceversa? Nel tempo zero in cui s’inizia il rito, anche soggetto e oggetto sono circolari.
Nel secondo frammento, un altro Giano bifronte: “enormemente udita la soglia”. Siamo dentro la soglia, siamo attaccati alle pareti, immagine metamorfica umana e minerale, viva e morta: ma stiamo uscendo dalle pareti o entrandoci? Stiamo andando a vivere o a morire? Ancora una volta, in tutte le direzioni: non si va verso il compimento, ma nel compimento. Il paesaggio rituale s’arricchisce di nuovi elementi: il “vuoto”, il “ronzio”, le “milioni di notti” che stanno innanzi a noi -o forse alle nostre spalle. La figura di lei è ritratta come una statua: ma una statua “bianca”, con pupille bianche: non colorata com’erano le statue greche in origine, ma col pallore dovuto alla mano del tempo. Dunque il tempo esiste, in quest’antro: ma è tempo dei secoli, così lento, così poco misurabile, da divenire immagine dell’eterno.
Una sola verità ci viene data con certezza: “il cuore era l’offerta”. Il rito è anche rito del donarsi. Il soffio che adesso è chiuso dev’esser liberato.
Il terzo frammento adombra un primo, quasi riottoso distacco dalla parete. Contro quella parete lei “era forma altissima”. “Il volto che l’attendeva era lì / il suo nuovo volto profondo”. Di nuovo il deittico lì. L’avevamo trovato nel verso d’apertura del poema (“lei era lì”). Ma ere geologiche sembrano separare questo nuovo deittico dal primo. L’assertività è scomparsa, è rimasta solo l’ambiguità. Dov’è questo lì? Da quale parte della soglia? Luigia Sorrentino ci getta in un universo semantico dove l’indeterminato è sia ineluttabile che incalzante.
Esso, infatti, non è immobile: un cambio significativo è intervenuto. I versi successivi dicono che “tutto stava su di lei”, e che “lei era finalmente comprensibile”: il rito inizia a snodarsi, il soffio chiuso a liberarsi: il dono può finalmente avere inizio. Ma è un inizio ambiguo: la vita sta su di lei come un peso che la opprime o come un angelo che inizia a librarsi? Non ce lo dobbiamo chiedere, abbiamo imparato che l’ambiguità è lo strumento con cui Olimpia procede nel suo compiersi.
Col quarto frammento siamo in un paesaggio diverso. È iniziato il cammino, il movimento: “quando ci dirigemmo verso la boscaglia / vedemmo in lontananza la ferrovia”. Finora il rito s’era compiuto nell’antro. Adesso esce, si estende a tutto il paesaggio, anzi crea il paesaggio con i suoi elementi; e lontani, i binari della ferrovia, con un treno che scende verso il mare. Il bosco è luogo di transito, forse di un anelito, di un faticoso ascendere: “Siamo sempre più vicini al cielo”. Ma questo avvicinarsi sembra come rimandato: il cielo non risulta lontano, piuttosto impregnato di segnali ancora indecifrabili: la nostra ascensione è un “avvicinamento carico nel vento”. C’è nel vento una voce prigioniera, che attende di esser liberata. Il vento si fa carico di un intero orizzonte di presagi. Difficile non pensare al “vento pregno di cosmico spazio” della Prima elegia di Rilke. Non siamo noi ad attendere nel vento, è il vento che si carica d’attesa.
Come i rapporti di prima e di poi, di soggetto ed oggetto, quelli di vicinanza e lontananza restano indeterminati: la ferrovia è lontana, ma il cielo è sempre più vicino. L’attesa ha creato il luogo, e il luogo il suo tempo. Anzi: l’attesa s’è incarnata nel luogo, e il luogo è tempo.
Con l’ampliarsi dell’orizzonte, anche il verso si fa più disteso, meno lapidario. Il dilatarsi del paesaggio è reso con un dilatarsi del tempo del verso: un procedimento che, ancora, richiama Rilke.
In questo orizzonte più ampio, nell’avanzare attraverso il luogo mitico, si avanza anche nel rito:
il volto si profila
il volto che siamo stati è istintivo
incarnato nel rito che si consuma qui
nella consolazione siamo venuti
mutarono i suoi occhi quando chiese
la vita eterna
la sua giovinezza si spense
divenne una cicala
poi solo una voce, un soffio
divenne
Questi versi connotano una trasformazione che è anche un’eternizzazione: si diventa ciò che si è. Dall’essere senza sapere di essere (“il volto che siamo stati è istintivo”) si passa all’essere consapevoli. Ancora troviamo un deittico, qui: ma qui dove? Dove si consuma questo rito? L’atmosfera è la stessa della caverna, eppure c’eravamo mossi verso il bosco. L’unica risposta è che il rito si consuma dentro la poesia. Inutile domandarsi dove Olimpia avvenga: essa avviene in Olimpia. Ma qual è l’avvenimento di Olimpia? La parola chiave, isolata in un unico verso, è l’ultima, divenne. E cosa si divenne? Una voce. Ciò che resiste allo spogliarsi di tutto è la voce. È la parola, messaggera fra le epoche, messaggera tra i vivi ed i morti. La parola è l’arché. E la voce può appartenere a chi subisce il rito o a chi lo celebra: non importa. Siamo abituati alla circolarità di soggetto e oggetto in Olimpia.
Piano piano il paesaggio si disincarna, gli elementi si diradano. “Siamo sempre più vicini al cielo”, si ripete. Poi
come grembo che si prepara
a ritornare estraneo ad ogni flutto
nell’uliveto deposto ogni possesso
lei chiese
sul lago conducimi con te
Il mondo da sensibile diviene interiorizzato. Il grembo interiorizza i flutti e diviene loro estraneo. È l’istante della conoscenza. “Deposto ogni possesso” la figura femminile, che nel dono si fa sempre più comprensibile, dice: “Sul lago conducimi con te”. A chi è rivolto quel conducimi? A un’alterità. E non ha l’aspetto di un invito: sembra piuttosto un comando, un Fiat lux. La parola di lei ha creato l’altro col semplice rivolgerglisi: è la parola di Orfeo, che crea Euridice per aver nominato Euridice. La parola poetica. Il bisogno che lei ha di donarsi ha creato l’alterità.
La sezione si conclude con una prosa intitolata La città. Qui compare finalmente un “io”. Finora c’erano stati il “lei” e il “noi”: il “noi” indispensabile a stabilire l’orizzonte del rito (perché il rito è sempre collettivo), e il “lei” soggetto e oggetto del rito. Ora si oscilla fra un “io” e un “noi”. Ma chi li dice? “Io ero insieme a lei l’attesa e il compiersi nello stesso istante… comprendevo e riconoscevo proprio quanto di più raro era lei per essersi così improvvisamente aperta.” L’altro, appena creato, è unito a lei da un destino. L’alterità è tutti, è la città. Come in una Genesi allo specchio, lui e la città nascono da una costola di lei, dal suo bisogno di donarsi.
La parola di Olimpia è spoglia e oscura come la parola liturgica. Niente artifici retorici, nulla d’estetizzante. C’è però un ritmo. Il ritmo è indispensabile al compiersi del rito. L’apparizione della città è contrassegnata da un improvviso distendersi del ritmo: dal verso si passa alla prosa. Siamo ad una stazione del rito, e a segnalarla interviene un cambio nell’ordine musicale del poema.
Sezione II: L’atrio
Se la prima sezione era un continuo, germinante movimento di radici, un mutamento incessante e faticoso, la seconda ha atmosfere più drammatiche, più evidenti chiaroscuri:
il sole alle spalle cancella
i nostri volti
veniamo da troppa lontananza
lungo questa discesa
nel porticato
altre colonne ci avvolsero
con le loro braccia
L’ingresso all’atrio è un atto decisivo, ma non una cesura. Il sole è alle spalle, ma è. Nell’orizzonte di Olimpia, il passato non passa: è una forza che continua ad agire. “Veniamo da troppa lontananza”: veniamo, infatti, da tutta la storia della poesia. Se l’arché è la voce, la voce che dice e che crea, quello che stiamo attraversando è un paesaggio culturale, un deposito di memoria che salda le diverse epoche storiche. Come le rose del bosco erano tutte le rose cresciute dall’inizio della terra, ora le colonne sono tutte le colonne di tutte le città. Il morire, il mutare non sono più dimensioni individuali: sono collettive, storiche e mitiche. L’orizzonte della lirica si salda a quello dell’epica.
Nei frammenti successivi è celebrata la lotta dell’operare umano contro la forza caducizzante del Tempo. “Enorme il tempo appoggiato / ai muri”. La trasformazione da cui siamo venuti non s’è fermata, la storia va avanti. Ma a noi interessano i depositi di storia, ciò che rimane dopo il passaggio -anche calamitoso- del tempo. La pietra trasformata dalla fatica umana presenta i segni del tempo, ma è solida, è pietra. Pietra tombale, ma anche manufatto che resiste al tempo, e perciò è imperituro. In quest’immagine l’essere umano non c’è: parla per lui il frutto del suo lavoro, che gli sopravvive. Il paesaggio che attraversiamo è un paesaggio da cui la vita è estinta. La natura è fossile, anche i manufatti umani appaiono come fossili: se si muovono, sembrano mossi da forze non più nostre. Ciò che sembra vivo è il “suono” della roccia. Ancora, ciò che rimane è una voce: voce liturgica prima, della natura adesso. L’opera del poeta sta tra la natura e il divino, è oltreumana, non più solo umana. Un monte nel paesaggio adombra la presenza del divino.
restammo vicino a quelle case
apparivano come in un disegno infantile
dai muri risalivano
statue di divinità femminili
L’elemento del paesaggio (le case) si precisa in un segno: un segno stilizzato, quasi un disegno infantile. La figura femminile si moltiplica: prima era apparsa in un pallore di statua, ora si precisa in una serie di statue. Queste statue non hanno perso il contatto col muro che le aveva originate, ma lo “risalgono”. All’inizo del cammino avevamo trovato un sentiero in ascesa (“Siamo sempre più vicini al cielo”) e un treno che sprofondava. Anche le statue partecipano di questi moti verticali. Come quella nella caverna, anch’esse sono bianche: sono le statue antiche quali sono arrivate fino a noi, e non com’erano in origine, sfolgoranti di colori. Per quanto perenni siano i prodotti della Bellezza, il Tempo vi ha steso la mano.
“Fummo dotati di forza sovrumana”, recita un altro frammento, ed elenca una serie di lotte, di prove che l’uomo ha dovuto attraversare – per cosa? “Siamo tornati per scomparire / intorbidare il fondo”. Come i resti fossili, come le colonne e le statue di cui resta la traccia possente, noi “intorbidiamo il fondo”, cioè lasciamo un segno che incrina la superficie culturale dello spazio-tempo: il nostro destino è sparire e scolpirci nell’eterno. Non siamo noi a godere della nostra opera: essa si adempie negli altri e in altri tempi, nel tempo oltreumano della storia degli stili.
L’atrio si chiude con l’evocazione di una soglia (anche qui, come non pensare alla soglia delle Elegie rilkiane, consumata dal passaggio degli amanti?). Quella soglia che ne L’antro era “enormemente udita”, qui nel vestibolo prende una fisionomia sconcertante: è la soglia oltre la quale ognuno diventa tutti. Ne L’antro non conoscevamo il contenuto di questo enorme udire; ora l’apprendiamo:
poi qualcosa chiamò
precipitata e muta
lasciò che altri sapessero
-siamo colui che se ne va
abbiamo le sue gambe
le spalle, l’incedere veloce
la traccia del saluto
siamo colui che sprofonda
a un passo da noi-
Superare la soglia significa identificarsi con tutti, con tutte le morti, le partenze e gli addii, con tutto il morire il mutare e il decadere -in una parola, con tutto il dolore dell’umano. Si diventa tutti, si partecipa al dolore di tutti.
Bella e drammatica questa seconda parte, con opposizioni grandiose ed esplicite, e con quel germe di riscatto umano che sgorga da un paesaggio desolato. Bella per il “noi” che sorge e s’afferma nel discorso, poi nelle immagini, poi in un abbraccio universale che nasce dalla stessa storia umana. È una testimonianza anche civile quella offerta da Olimpia: dalla consapevolezza dell’enorme storia umana non può che nascere l’abbraccio fraterno di tutti gli uomini. Capiamo perché Luigia Sorrentino abbia scelto Olimpia, e la civiltà greca, per il suo viaggio alle radici della poesia. Non solo per andare alle origini. È che la grecità sentiva la funzione collettiva, corale della poesia, cui dava un posto nella vita della polis. Era un operare per la polis la poesia, un agire. Il “noi” di Olimpia è un “noi” da coro di tragedia. La poesia non avviene fuori dal tempo: avviene in tutti i tempi. Avviene in una civiltà estetica, ed è chiaro che l’autrice avverte una responsabilità verso la storia della bellezza, ch’è anche storia della civiltà. Una parola esatta o sbagliata aggiunge o toglie qualcosa alla storia della bellezza che è la storia umana. Olimpia non ha nostalgia della civiltà estetica. La cerca, la fiuta. Non ne cerca il ritorno perché essa è in tutte le epoche. Ne cerca i segni. Continua a leggere→
La nudità che appare è una rivelazione; sia così …
Non la parte scoperta di ciò che nell’apparizione non appare, sigillo non apparentis apparitio, ma il vetro dell’aria sospesa divenuto un elemento, qualcosa di lavato con l’apparenza dell’aria.
VERSO GLI OLIVI, A UN COSI’ CALMO ALTROVE
Laniakea
A mio padre
In Omero
le parole per descrivere l’uomo
sono le stesse usate per definire
la luce. E in questo c’è una luce
fermata dall’emulsione di tutto
lo spazio presente e che verrà.
Ed è nella contemplazione estiva,
senza i preparativi necessari
del clima, prima del contemplabile
autunnale più presto pacificato.
Penso al tuo autunno che cade all’unisono
ritraendosi alla luce
per contemplare se stesso
mentre un vacuum ha inizio
dove l’anima cristallina
suddivide la luce nelle idee
di miseria che occupano l’anima,
e un Giordano vivente entra per nutrire
la speranza dove tutto è invito,
qualsiasi fosse la direzione
del ritorno presa dai risanati;
dove un albero della vita cresce
grande quanto un Paradiso Incommensurabile,
tutto divenuto reale nel punto
in cui è mantenuta una promessa;
in un tempo dove l’origine
del tempo sta nelle configurazioni
della incompletezza di una descrizione.
E chiedere più di questo:
che l’aria in serbo per la mattina
non disincarni la sua stessa summa
di cristallo. I nostri giorni avranno
nascite come un addio fedele
è addio alla bianchezza dalla dominanza
del bianco, antecedenti l’una all’altra,
e una tale reticenza éclaire d’insignifiance
sarà la sola presenza del nostro
mero essere donato
e una risposta, satura di donazione.
Nel senso del solco
Nel senso del solco, ad altezza
del seme, incielata,
è nella parola fatta luce
di nessun excelsior che il predicato
verginale di luce all’aperto,
liberando un cielo, satura il mondo
di una donazione, una casa aperta.
E tu dormi nella mia notte, nata
dal tuo mare sussurrando a occidente,
come un arcipelago
per me di vita nuova.
Tu scolpita di stella
forte, avrai dove posare il capo?
La luce è il luogo in cui l’acqua
La luce
è il luogo in cui l’acqua, nel respiro fresco
delle pietre, può immergere se stessa
solo apparendo. Lucem demonstrat umbra. Sia così.
Ma anche l’ombra è mattutina.
E questo ancora può coglierci
sotto un cielo: tenendo il calice
che sta per riempirsi, qualcuno
portando il vischio alla tavola
apparecchiata, farne affluente.
E olio di nozze, che unisce il libro
al cuore d’olivo della casa.
Leggerezza di carità
nel corpo-di-parola
di questa terra, come da un costato.
Acqua benedetta alle mani
e al costato, la giornata intera
a rischiarare l’angelo mentre
ci fa vivere l’abitata,
non la casa. E costellare il libro.
VITANOVAMALASPINA
The Prodigal Pilgrim’s Progress
“Allora rientrò in se stesso e disse:
quanti salariati in casa di mio padre
hanno pane in abbondanza (…)”
(Lc, 15,17)
Ora lascia, Titiro,
che quanto era protetto dal canto
e dava protezione nell’eccellenza
di quiete, diventi un ovunque di esilio,
che compone se stesso come estuario
d’aria, come le scaturenti origini
dell’aria un miserere che colma
la luce ed effonde spogliazione
nella crescita lenta alla brezza
della luce sepolta nei roseti.
Chiedi perché di altri cònsoli saranno Pascoli di fiori del citiso e il salice amaro, i giovenchi che adagiano il fianco candido sui teneri giacinti, sotto la freschezza ombreggiante di un leccio, a ruminare le erbe pallide, mentre per te è scritto
che hai fatto irrompere tra i fiori, l’Austro e i cinghiali nelle acque limpide … Tutto diventi alto mare,
anche nell’eccellenza di erbe morbide più del sonno. Omnia vel medium fiat mare, dunque, dove dire
che l’eccellenza dell’onda si rifrange
a riva, significa interromperne
il vero corso. E ora continua,
come se il nome del figlio
della parabola fosse
quello di un efebo in Virgilio
ed il perdono del padre non risuonasse
tanto avanti alle sue parole:
– Devi aver avuto in serbo a lungo
per un racconto estivo, custodita,
una parola che impegnasse, esprimendole,
alla speranza e umiltà, che ora dovremo
riporre da soli e dissigillare;
ora, tornare al centro del proprio clima
senza la parola di festa,
sarà un intorbidire la luce.
Ma in questa nuova solitudine,
il nostro agire più ampio
potrà forse essere la raccolta
nel calice della mente-qoèlet
del desiderio di un infermo,
ad essere quella poca deviazione,
quel clinamen di miseria
che è fermento povero d’un distillato
di compassione, perché un buon nome
è preferibile all’unguento profumato.
– Getta il tuo pane sulle acque,
perché con il tempo lo ritroverai.
Quando servirà che la speranza
e l’umiltà ti dicano
se tu sia stato fedele anche solo
per il puro tentativo
di comprendere ciò di cui sei erede
e che una quieta serenità
a cui ripensi, possa ancora appartenere
ai confini – come ogni figlio appartiene
alla pura grazia dopo la remissione
di una marea di fertilità –
i tuoi predicati della fedeltà,
nitore di qualcosa a te interiore
più che te stesso, saranno
come una dimostrazione della grazia:
come una forza femminile irradiata,
materna o di sorelle, è una sorrisa
parola di luce inaccessibile
verso cui scendere in acqua grave
e colma; chiama tutto ciò, ora sappiamo
entrambi, un’attesa necessaria
come l’in fieri di libertà
spirituale a questa tua stessa età,
a questa pienezza. Non ci sono
più parole se nessuna assenza
fonda l’attesa che esse articolano,
avendo l’apparenza della pietà,
ma rinnegando ciò che ne fa la forza:
espìa per esse una delectio
dal libro della vita. Chiameremo
tutto questo vera fedeltà.
Chiedere di espiare
da quanto è scritto affinché
un padre non abbia il torto di un giudizio
sul popolo e sulla casa.
Chiameremo tutto questo
vera fedeltà. Con la più femminile
delle mani paterne
prendere alla forza dell’angelo
il calice di parole tuffate
dentro al frantoio nel cui fondo
la parola della spremitura
è anche la parola della vera
luminosità dell’olio
e il suo cercare un senso tra occhi afflitti
e solcati, il suo ricordarsi
della vita sparsa che Dio, chinandosi
su di noi, cerca e ricorda,
è già la relazione stessa del senso
e questo canto estivo,
così che le tue api posino
oltre i tassi: “Bruciante non entrare
nella notte per detergere
la materia notturna
con un battesimo di desiderio
che scriva bianco su bianco la fedeltà”.
Una distanza di gru, aironi
cinerini, egrette, nel fulgore
di un ricordo dalla terra prenatale.
Chi riceve? Chi dona? Continua a leggere→
Emanuele Canzaniello, Foto di proprietà dell’autore
Vi proponiamo la lettura di alcune poesie di Emanuele Canzaniello tratte da “In principio era la paura” (PeQuod, 2023)
Anche dove il piacere non sa nulla del divieto che infrange,ha pur sempre origine dalla civiltà, dall’ordine stabile, onde aspira a ritornare alla natura da cui quell’ordine lo protegge.
Solo là dove un sogno li riporta (…) alla preistoria senza autorità e disciplina,
gli uomini provano l’incantesimo del piacere.
T. W. Adorno e M. Horkheimer, Dialettica dell’Illuminismo
Con te nel passato
Nelle buie viscere
Senza ostacolo né premura
Nelle cavità della terra
Tra le prime ossa sepolte
E le divorate,
Lungo il Paleolitico inferiore,
Buio di due milioni di anni
E giorni e soli che non tornano
E terrori della notte.
Il primate omicida è nato
E biologia e colpa si erigono
Nei templi di pietra,
Arma e cerchio del fuoco.
La civiltà è questo doppio,
Il simulacro dei tori e dei cavalli
E l’animale ucciso,
La necessaria vista del sangue
Per il primate accresciuto
Dalla conoscenza estesa.
Con te nel passato
Nelle buie viscere,
Prima che ogni muscolo ogni spasmo
Ogni piacere conoscesse l’ordine
Che ci separa e protegge.
Le mani sulla roccia sono il grido. Continua a leggere→
L’Hospital de Rilhafoles, inaugurato nel 1848 e ribattezzato Hospital Miguel Bombarda nel 1911, è stato il primo, e per diversi decenni l’unico, ospedale psichiatrico del Portogallo. Situato nel pieno centro di Lisbona, in una struttura precedentemente adibita a collegio militare, e ancor prima a convento, è stato definitivamente dismesso nel 2011. Attualmente sembra che l’area che ancora occupa sarà principalmente destinata a delle abitazioni a prezzo calmierato, ma a lungo non è stato chiaro quale sarebbe stato il suo avvenire, alimentando diverse altre ipotesi, più o meno speculative.
Interrogandosi sulla storia e sul futuro di questo ospedale, o meglio di quello che ne resta, Avventure e disavventure di una casa gialla, L’Arcolaio, 2023, (scritto tra l’ottobre del 2019 e il febbraio del 2022) è la prima parte di un progetto che cerca di riflettere sul nostro rapporto coi luoghi che attraversiamo e abitiamo, e che ci abitano e attraversano.
Una precedente versione dei testi della sezione Inventario sommario dei blocchi maggioriè apparsa in gammm.org.
ESTRATTO
«Nella mia terra chiamavano casa gialla la casa dove tenevano i prigionieri. A volte, quando giocavamo per strada, noi bambini lanciavamo sguardi furtivi alle sbarre scure e silenziose delle sue finestre alte e, con il cuore stretto, balbettavamo: Poveretti!…»
(da Ricordi della casa gialla, di João César Monteiro)
Inventario sommario dei blocchi maggiori
Cinque grandi blocchi
accompagnati da delle discrete
(quanto confuse) formazioni
di piccoli blocchi.
Cinque grandi blocchi
disomogenei praticamente
sotto ogni punto di vista.
Per forma, età, disposizione,
stato di conservazione,
aspettative di sopravvivenza
(e di rilancio), ambizioni,
appetibilità, eccetera.
***
Il blocco più a sud,
il primo visibile dall’ingresso principale
(dall’incrocio tra rua Amaral,
rua Aparício, rua Cruz da Carreira),
detto anche blocco sud,
o blocco principale,
è anche il blocco più antico.
Sembra sia stato concepito
e completato solo qualche anno
prima del grande terremoto
(almeno nel suo nucleo essenziale),
ma come lo abbia attraversato,
con quali e quante tracce,
(e quanti e quali traumi),
in tutto e per tutto,
non lo abbiamo ancora capito.
Dopotutto (e malgrado tutto),
non sembra così malmesso.
***
Quanto al blocco laterale,
quello più vicino al blocco principale,
in realtà, non è del tutto certo
che si tratti realmente
d’un blocco davvero grande.
Probabilmente, andrebbe piuttosto
considerato come un blocco medio,
o come un blocco intermedio.
Più degli altri, fra tutti
(fra tutti i blocchi più o meno grandi),
si distingue principalmente
(anche rispetto al fisco e al catasto)
per la discrezione
e per un certo anonimato.
È il blocco col più basso
valore di mercato.
Soprattutto, è il blocco più semplice
da abbattere, quello di cui, in teoria,
ci si potrebbe liberare anche in assenza
di grandi mezzi,
forse già con un unico caterpillar,
tuttalpiù coadiuvato
da uno o più bulldozer.
Comunque non è del tutto da disprezzare.
***
Poco a nord dal blocco principale
(e dal cosiddetto blocco medio o
intermedio) il terzo grande blocco,
accompagnato da una serie di piccoli blocchi,
occupa di fatto il centro dello spazio.
Più grande del blocco intermedio,
non sembra però neanche enorme,
né particolarmente imponente o antico.
Quasi privo di segni distintivi,
sembra, quantomeno, nel suo insieme,
versare in uno stato complessivamente
decoroso, piuttosto decente.
Stando ai rilievi aerei
si direbbe dotato di una forma
non priva d’originalità:
come una specie di pi greco,
un enorme pi greco minuscolo,
stilizzato e semirovesciato.
Non vi sono ragioni di dubitare
che si tratti di una forma puramente casuale. Continua a leggere→
Tim Postovit, poeta ucraino, ha scritto queste poesie mentre lavorava come assistente sociale in un albergo per rifugiati a Praga. Nelle poesie ritrae persone in carne e ossa, delle quali ha raccolto le storie per creare un cosiddetto Personaggio Composito.
Le poesie di Tim fanno parte di un’intera opera dedicata alla causa dei suoi connazionali. Con i suoi testi sta cercando di descrivere al lettore europeo le difficoltà dei rifugiati, vittime di questa guerra attuale, di sintetizzare le emozioni che condividono con lui, le emozioni innescate da un cambiamento improvviso e radicale nella loro quotidianità.
Il cambiamento è ciò che descrive maggiormente nella sua poesia. Riesce a mostrare, in modo efficiente, l’orrore della guerra, dell’immigrazione e dell’incomprensione da parte della maggioranza del paese nel quale i rifugiati sono arrivati…
ARA, TLUMOČNICE (ARA, INTERPRETE)
Papouškovo požehnání na cestu
Šelma leží, líná chvost.
Promluv, lízneš její kost, jestli se zasměješ,
její krve se napiješ.
La benedizione di un pappagallo per il viaggio
La bestia mente, coda pigra.
Parla, le lecchi l’osso, se ridi,
berrai il suo sangue.
Píseň Ary a břízy
Zeptala se Ara břízy na poli:
Proč jsi zjara, břízo, bílá až to bolí?
Proč jsi jako topoly nezezelenala?
Vykladačko barev, Aro!
Tlumočnice lidí.
Co bys mi teď z cesty o nich zazpívala?
Canzone di Ara e Betulla
Nel campo Ara chiese a Betulla:
Perché sei primavera, Betulla, bianca che fa male?
Perché non sei diventata verde come i pioppi?
Scaricatrice di colori, Ara!
Interprete di persone.
Cosa canteresti di loro adesso?
Marika a její sen
Vzbudila se, na kuchyňský stůl padal přes otevřené okno stín.
Její dům pod černým mrakem, sláma pod závodním koněm.
Vyšla do zahrady, protože si vzpomněla na vysokou břízu vprostřed sadu.
Vzdálenost, kterou pes ještě předevčírem překonával
sedmi skoky, šla celý den.
Našla ji v noci a nikdy se ještě necítila tak fajne, jako když viděla hvězdy na otevřené obloze,
Miren hacia arriba.
La razón es una cuerda inútil
que nos ciñe la respiración.
La razón es una piedra colgando de las nubes.
Pasa un cóndor con su vuelo
lento y desgarbado.
Debe ser un viejo.
Le quedarán algunos círculos
antes de morir secretamente.
Arrastra una sombra pesada
por el fondo del valle
cientos de metros más abajo
y todavía hace temblar a muchas criaturas.
Nos observa desde lo alto:
somos un rebaño violento.
Ninguna Tebas que salvar.
No hay ahora en esta tierra una sola
muralla digna para dar la vida.
Y el cóndor, me pregunto
cómo un comedor de carroña
puede llegar tan alto.
LÁ IN ALTO
Guardate in alto.
La ragione è una corda inutile
che ci stringe il respiro.
La ragione è una pietra che pende dalle nuvole.
Passa un condor col suo volo
lento e goffo.
Deve essere vecchio.
Gli resterà qualche cerchio
prima di morire segretamente.
Trascina un’ombra pesante
lungo il fondo della valle
centinaia di metri più giù
e fa tremare ancora molte creature.
Ci osserva dall’alto:
siamo un gregge violento.
Nessuna Tebe da salvare.
Non c’è adesso su questa terra una sola
muraglia per cui valga la pena dare la vita.
E il condor, mi chiedo
come un mangiatore di carogne
può arrivare così in alto.
***
Una voz antigua me responde
como si viniera de un canto del Inferno:
tal vez no imaginaste un diablo pensador.
Hace tiempo que no veo sangre,
siglos que no mato una mosca.
Debería volver a la sed,
a los golpes imperfectos del hacha.
Pero no me agrada la especie:
nuestro rebaño ilustrado.
Que vean los oxidados
todas aquellas cosas que hay que ver,
lo que aprendimos en los barcos,
lo que pensamos con el rostro metido
en la niebla de esta sopa.
Aprendí a ensamblar un mortero de combate,
lo recuerdo muy bien: placa base,
bípode y cañón,
en menos de un minuto queda listo
para escupir al cielo.
Aprendí que el enemigo
no debería respirar dos veces.
Nadé al sol, pensé en ella.
Me hundí y me dejé llevar
por las amapolas del agua.
***
Una voce antica mi risponde
come se venisse da un canto dell’Inferno:
forse non hai immaginato un diavolo pensatore.
È da tempo che non vedo sangue,
da secoli che non uccido una mosca.
Dovrei tornare alla sete,
ai colpi imperfetti dell’ascia.
Ma non mi piace la specie:
il nostro gregge illuminato.
Vedano quelli arrugginiti
tutte le cose che bisogna vedere,
quello che abbiamo imparato sulle navi,
quello che abbiamo pensato con il volto messo
nella nebbia di questa minestra.
Ho imparato ad assemblare un mortaio
[da combattimento,
lo ricordo molto bene: piastra base,
bipiede e canna,
in meno di un minuto è pronto
per sputare verso il cielo.
Ho imparato che il nemico
non dovrebbe respirare per due volte.
Ho nuotato al sole, ho pensato a lei.
Sono affondato e mi sono lasciato portare
dai papaveri dell’acqua.
***
Debería volver a la sed.
Llevo un sonido secreto y no puedo evitar
que retumbe en mi cabeza:
es el perro tomando agua.
Ando al sol, oigo al perro de la casa.
Sueño debajo de la vieja noche
con el ruido del agua lamida por el perro.
El chapoteo se interrumpe con el paso de un tren
y luego continúa: slap, slap,
el perro, la sed,
un reloj aplaudiendo en el silencio.
Te vi llegar, eras tan turbia.
Te vi llegar.
Ahora pasa la sombra del cóndor,
el peso de la razón que todavía lo mantiene
atado a este mundo.
Silencio, bebedor.
Silencio.
***
Dovrei tornare alla sete.
Porto in me un suono segreto e non posso evitare
che mi rimbombi nella testa:
è il cane che beve l’acqua.
Vado al sole, sento il cane della casa.
Sogno sotto la vecchia notte
col rumore dell’acqua leccata dal cane.
Lo sciacquio s’interrompe col passaggio di un treno
e poi continua: slap, slap,
il cane, la sete,
un orologio che applaude nel silenzio.
Ti ho vista arrivare, eri così torbida.
Ti ho vista arrivare.
Adesso passa l’ombra del condor,
il peso della ragione che lo mantiene ancora
legato a questo mondo.
Dalla prefazione di Isabella Bignozzi: «In questo Non è mai notte non è mai giorno ci sono storie precise, che un narratore non saprebbe così compiutamente porgere, ma la cui sintassi è scomposta e ricomposta in immagini d’altrove: diviene fluida e soave la vita, in continuo fecondo dissesto; il mondo è riscritto da una gentilezza sensitiva, che percepisce tutto aumentato in potenza, santo in presenza, perché porta tra le ciglia il filtro di una pietà profondissima. La poesia per sua natura “espone”, ma è necessario un equilibrio tra intensità del portato e grado di espo- sizione nella parola. Nei versi di Francesca Serragnoli c’è quel pudore che è sintomo di vera libertà morale di fronte agli spaventi del vivere».
ESTRATTI
A Cristina Campo
All’amore che hai fatto rinascere
negli atri senza bifore
di pianerottoli
dove serrate porte marroni
aprono lentamente le braccia
infilano nei letti
gambe di gigli di santi
All’amore,
sapiente vilipendio al nulla
sarto suono
della penna che cade in terra
erotico atlante di gialle gondole
che percorrono canali color vinaccia
l’amore dei passi morti giovani
della pendolare giostra d’incensi
del darsi la mano
A chi importa? dicevi
incrinando l’asse terrestre nella voce.
***
Lasciami entrare nel fondale
dal collo d’incenso
se ti muovi
si sfalda come una scala
lasciami scendere
dalla rupe d’argento
di una teiera
il gesto di versare la sera
una miniera d’acqua.
Girati ancora
lasciami la tazza
e se brucia e se ghiaccia
fa’ o Signore che la mia mano
si sciolga in cera
si apra come una cerniera,
mentre soffio via
la cenere
dai tuoi capelli
e gli occhi come falene
risalgono le loro schiene,
tu poni l’astro in terra
ome un pezzo di giornale
o una rondine strappata
con le ali come coriandoli.
***
Hai un profilo islandese
un chiaro scuro lentissimo
un crepuscolo di campi arati di notte
nella spinosa armonia delle ombre
una tempesta che raccoglie
i suoi cuccioli d’acqua
come le mele di un giardino.
Una stupenda malinconia islandese
non è mai notte
non è mai giorno.
Foresta sparsa di lupi giovanissimi
allattati dalla luna.
Il regno di salire
nel punto più alto di una mano
e gettarsi nell’altro ramo
è il balzo di vivere.
***
Il tuo sorriso
stringe una spugna
di mare caldo sul ventre
La Richard Saltoun Gallery ospita dal 12 settembre la mostra dedicata all’artista italiana Giulia Napoleone. L’esposizione segue la grande retrospettiva “Realtà in equilibrio” che si è svolta nel 2018 presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea (GNAM). Focus: il colore blu. Come ha detto l’artista stessa, «L’azzurro è denso di storia […], è il colore dell’intelligenza, del pensiero, della poesia francese». In mostra opere su carta e dipinti, dagli anni Sessanta ai più recenti, caratterizzati per l’appunto dall’ampio uso del colore blu. Per l’artista, l’uso di tale colore non è semplicemente legato a elementi naturalistici come il mare o il cielo, ma costituisce, con le sue innumerevoli sfumature, l’astrazione di molteplici pensieri.
Il lavoro di Giulia Napoleone è strettamente legato al suo vissuto, alle cose da lei amate e percepite. L’intento del suo processo artistico è quello di restituire l’immediatezza della percezione, la quale non viene intesa unicamente come atto sensoriale, bensì comporta l’interpretazione che consolida il rapporto che noi stessi instauriamo con l’esterno. L’oeuvre di Napoleone è stata coinvolta nel fenomeno della percezione sin dagli anni ’60, seconda decade della sua carriera artistica, reduce dallo studio condotto, al riguardo, dall’artista futurista Giacomo Balla.
La sua pratica comprende tecniche e medium differenti, che spaziano da incisioni a tempere, da acquarelli a disegni, ed è sempre stata guidata dall’interesse di creare un’esperienza estetica elevata, attraverso un approccio sobrio e metodico. Il suo studio varia dall’esplorazione della composizione con opere monocromatiche degli anni ’50 e ’60, all’uso del colore, emerso a metà degli anni ’70; in particolare il colore blu, che descrive come “versatile” per tutte le sue diverse tonalità. Nonostante sia caratterizzato da una grande varietà, il suo corpus di opere è accomunato da una natura mutevole, in continua metamorfosi, in grado di svelare significati sempre nuovi che variano in base alla connessione creata fra l’opera e i suoi “lettori”. Continua a leggere→
A vegliare la spiaggia che scompare
tra le alghe sbiadite e compatte
restano pochi silenzi interrotti
dal brusio delle fronde che indietreggiano,
saldate come una luce spenta
che assorbe le promesse e i buoni propositi.
Nel mutuo collassare di un tempo
che è già sale essiccato
non c’è spazio per il ricordo, ma solo
la moina dolce di una madre che stringe
e oltrepassa l’inerzia dello stupore,
l’attimo che fugge
e quello che deve ancora venire.
***
Si perde nel riposo del mondo
l’esile trama venosa delle cose mute
che stringe il letto al centro della stanza.
Allo spazio battuto dalle ginocchia
sul parquet si sottrae il corpo freddo,
il suono della buonanotte.
Il precipizio che esiste da sempre
ha il rumore di un citofono,
la voce di soprassalto rivela nuove altezze
e una mutua intrusione.
Le ombre che un tempo ci divertivano
appartengono ora alle pareti
e qui rimarranno:
nella pietà senza contatto.
***
Migreranno a ovest,
ripetevi prudente al fruscio senza
forma del cielo, al silenzio
che non temeva più mutamenti.
La linea di frattura esiste.
E quel vuoto che reputavi necessario
è l’obbligo mal celato di un tempo
che non ritorna.
Celebri ancora intatta
la sua calma apparente,
ogni singolo attimo concesso
senza perdono.
Quella notte davanti alle isole
hai giurato sottovoce
l’eternità in un istante.
***
Fisso ancora il vicino
osserva le finestre accese
dei palazzi di fronte
come se albeggiasse a dirotto
negli ampi sprazzi di circonvallazione.
Gli studenti al terzo piano
hanno lasciato i libri in disordine
sulla scrivania e poco altro,
torneranno a settembre.
Adesso sul bordo del terrazzo
le voci si riconoscono
in un sorriso insoddisfatto,
galleggiano penzolanti
le gambe che a volte si sfiorano,
ma solo per sbaglio,
è solo un vitale oblio
a scandire la memoria bianca del mondo,
la giuntura delle assenze simultanee.
La vita di chi resta
si scopre nascendo.
Come a stabilire un legame di sangue,
l’indefinita perdita di una vigilia
destinata al silenzio,
dove il fumo sale ostinato
osserva e tace,
dove tutto e tutti sono già partiti.
***
Dove non sono mai stati
i fenicotteri prima della migrazione
troveranno solo spiagge deportate
che si rinnovano morendo.
È l’augurio che cela l’inevitabile dubbio,
il crepuscolo che si accumula tenue
negli anfratti pallidi della costa,
una crepa esitante come spazi tra le dita,
tra le parole che sembrano un miracolo breve.
Di fronte al bunker, lo stormo ripete tre volte
la stessa onda del cielo ormai postumo
e si consegna all’attimo
prima che tutto crolli.
***
Rintocca cauto
il buio appena schiuso
sulle sporgenze senza cornice.
Dove finisce la luce
quando non si vede,
ripiega l’inizio remoto
della montagna spaccata.
La cicatrice che oscilla
sui morti soffoca il passo
e la nostra convergenza immobile
sulla cupola rossa.
Le pareti coincidono
nell’impronta perenne
della terra senza rientranze.
Si gonfia paziente
il distacco che è in noi.
***
Prima e dopo il cumulo di vestiti
nessuno si è accorto della voracità
della strada che assiste impassibile
di fronte alla metamorfosi della durezza,
al nulla che ci precede e copre quel corpo,
lucido ammasso di carta stagnola.
L’abbaglio tra gli scatoloni non riuscirà
a celare il torpore della notte
che è già verità: una sola coperta termica.
Suonano le due in piazza dell’Immacolata,
arretra il tempo per tastare il finto baratro
dei giorni che si stringe nel riflesso.
Tutto quello che resta
è somiglianza.
***
Nessuno riuscirà a interrogare i morti
né chiederà le parole giuste da usare
per ogni superbo rintocco di vita
che suona come il buio sullo scoglio inclinato
senza sottofondo e la pelle sporca di sale,
nel riverbero di pochi istanti vissuti
come segreti. Non si può sfuggire
da ciò che non si è mai stati: l’onda
timida è vertigine senza suono.
Nel silenzio che ritorna puntuale
tutto trova forma e vuoto.
***
L’ultimo treno alla stazione di Santa Severa
passa sempre puntuale alle venti,
discreto come la postura
dei turisti cosparsi d’autan
che ancora sperano nella luce.
Un saluto senza destinatario,
il prolungamento infranto
da qualche parola canticchiata
senza troppa voce: sarà così
andare via. Gli amici,
con gli asciugamani alle spalle,
più alti e robusti dell’anno scorso,
attraversano il binario
seguiti dal fischio indulgente
come la pelle scottata dalle partite
e dalle corse senza meta.
Il profilo scuro del Super Tele,
sospeso in aria, crolla nell’impressione
di essere stati un solo corpo,
la coincidenza di brevissime attese.
Dall’altro lato le ragazze ridono sporgendosi
senza approvazione né coraggio,
rallentano il misterioso gesto del ritorno,
come a sostenere incolume
l’ipotesi del dolore.
Forse resterà lì
l’esiguità della stagione
a misurare il distacco di un binario,
a contare negli annunci dell’altoparlante
la perdita e il passaggio.
***
Nessuno avanzerà vittorioso
sui rottami dei silos abbandonati,
sulle campagne dimenticate
dall’uomo che consegna al tempo
rimasto le sue fragilità. Scivola
come la speranza d’oblio
sui corpi armati, fratelli e nemici,
sgozzati e coperti dalla neve
dell’inverno più lungo.
Le sirene soffocano con giocattoli
e pupazzi le piazze svuotate,
le fosse docili scavate dai missili.
Ancora tace cauta la folla
accalcata sotto il ponte
nell’incastro febbrile degli sguardi,
l’esatta compostezza dell’abbandono.
Stretta nell’attesa,
compensa nel contatto
il freddo sospetto del vuoto.
Forse un giorno troverà
nel proprio alfabeto muto
parole senza conforto
che diano un senso
a tutte le cicatrici della terra.
Nunzio Bellassai ha conseguito con lode la laurea magistrale in Filologia Moderna presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Attualmente presso il medesimo ateneo è dottorando in Italianistica con un progetto sul patrimonio epistolare di Vitaliano Brancati.
Per il racconto La stazione, edito da Schena, ha vinto il Premio nazionale “Valerio Gentile” nel 2019. Con la sua raccolta d’esordio Due tempi (Ensemble, 2021, prefazione di Maurizio Cucchi) ha ottenuto le menzioni speciali del Premio “Città di Latina” e del Premio “Portopalo Più a Sud di Tunisi”, oltre al terzo posto al Premio “Diana Nemorensis” di Nemi. Suoi componimenti sono stati selezionati per la Bottega di poesia de «La Repubblica», la rubrica “L’Angolo degli inediti” della casa editrice Stampa-2009 e l’Ufficio Poesie Smarrite del «Corriere della Sera».
I suoi studi gravitano intorno alla letteratura italiana del Novecento, con un interesse per i fenomeni italofoni transnazionali. I suoi primi contributi scientifici sono apparsi su «Sinestesieonline» e «La rivista di Arablit» nel 2023.
Fernando Della Posta – Foto di proprietà dell’autore
Tuscania
Alte torri come grida sul paesaggio,
massicce, che si perdono prima del cielo,
affermano con forza d’esser figlie
anch’esse della genia testarda.
Ma nel silenzio assolato del lago
ritrova la sua statura e cresce,
con rinnovati passi d’atleta,
l’espunta latitudine di cuore.
*
Nei tempi dorati in cui bambino
venivi avanti dall’informe, santi
eroi fissati per l’eternità
al culminare dell’ultima danza,
segnavano il sentiero dei viventi
ed anche il tuo confuso tra di essi.
Le casipole conchiuse in un nugolo
fatiscente, sorprese dall’arcangelo
a rincorrersi sul colle, celavano
famiglie attorno ai fuochi alimentati
dal respiro delle numerose proli.
L’illusione era che ogni cosa fosse
al proprio posto.
*
Quando la luna è alta e illumina il lento
sonoro brusio delle stelle, tu
dannato allo specchio cerchi uno stile,
la cifra, ma il simile cui non somigli
deride, diffida, ti cuce addosso
l’insignificanza, la tragica commedia.
*
Kalì la terribile non è la donnona impulsiva
e sgraziata tramandata dai Veda, ma è la media
che sfronda con passo meccanico, è la falce
che tagliando uniforma gli esemplari migliori.
Suoi segni le melodie ticchettanti,
il lento fluire del fiume che addormenta,
il cigolio del cancelletto che chiude il recinto,
l’agnellino trovato sbranato nel gregge.
Cadere quietati nel suo grembo condanna
la tribù alla stasi. La fine delle cose
già ferme ha un suono dolce.
*
Spezzare le catene
L’opacità refrattaria della vita irrisolta,
il ripetersi di ossessioni psichiche
come braccia vive staccate dai corpi.
Dimenticato il torto scatenante,
in queste case infestate s’aspetta
il singolo atto d’amore
che spezzi la catena dell’errore.
La bora come lingua svernicia i nostri visi non più certo
sbarazzini ma ancora lì giovinetti a trastullarsi col tappeto
del mare che vibra, si allunga e intanto tra un passo e l’altro
di rimando ci diciamo frasi agghindate d’eterno
che se guardi bene però hanno fondamenta liquide
come questa risacca dove barattoli si rincorrono
al ritmo della schiuma che intanto ci tocca e indietro
se ne torna, già, tutto non va per il meglio.
Ma puliamo almeno lo spazio interno dagli isterismi
di questo tempo dal suo tanto pianto senza compassione
e mentre il libeccio ci spintona la prendo per mano
per il fine passeggiata
che è pura interiorità, pareti essenziali dove le stanze
di memoria e futuro si specchiano perché prive di cianfrusaglie
che il nostro contemporaneo buon venditore vorrebbe proporci
ma noi non ci cadiamo, noi e le nostre stanze deserte e di luce
che osservano di fuori il nailon e l’amo ticchettare, osservano
e per poco ospitano questa vita tutta che fuori si rinnova e piano
se ne va.
***
Il marinaio di Ulisse
per Giuseppe
Oggi la risacca con le sue alghe verdine parla in faccia
ai bambini che per gioco son lì con l’esca, le canne
eccolo mi dico, l’apice della vita e intanto la lenza
fa l’arco, per poi picchiar giù e li incrocio
più in là vedo alcune manine piantar bandierine, ruotar nel vento,
col cenno ci salutiamo, ticchetta l’esca, ammutoliscono,
va su col luccichio della branchia, uno, pupille di sale mi tira
per il braccio, mi ride, dice orgoglioso d’essere il marinaio
d’Ulisse, dice, come col tono ellenico.
***
Vasel
Beccheggia a fil di cielo un trireme alle sei del mattino
oggi che sono fuori per insonnia sembra sogno, io a bordo
mare con la vela gonfia ad occhieggiarmi sul viso pesto
marinai al largo remano sulla superficie agitata che a scaloni
risucchia lo scafo che appare e scompare
vasel mi permetto di nominarti, che fili a tribordo tra memoria
e storia, vasel della cultura voglio pensarti e dell’amicizia ma chi
chiamare a quest’ora? e se volassi via?
No resto per l’abbordaggio definitivo, scivolo sul margine
dello scafo, lo spazio della vela, aperta sulla voga dei rematori
che a ritmo va col teso maestrale
eccoli, mi sorridono di un sorriso dove brillano in egual gloria
vinti e i vincitori, vasel che stai uscendo alle 6.15 dal quadrante
di ogni carta, proprio all’ultima tua virata ridondola dall’albero
un occhietto lacrimoso di spuma, è forse quello cieco di Omero
che ancora cerca approdo in questo tempo violento come tanti
ma senza più immaginazione.
GUERRA-WAR, è un’antologia di poesie in italiano e inglese, traduzioni e cura di Paolo Ruffilli (Nino Aragno Editore, 2023).
30 poeti di diverse nazionalità, ci ricordano quanto sia aspro e urticante il sapore della guerra, grondante sangue e sofferenza al di là di qualsiasi retorica. Tutte le guerre, passate e presenti.
THE TASTE OF WAR
30 poets from different countries of the world remind us how bitter and stinging the taste of war is, dripping with blood and suffering beyond any rhetoric. All wars, past and present.
Introduzione di Paolo Ruffilli
Il progetto “Il sapore della guerra” nasce più di due anni fa, dalla convinzione che l’unica opzione per il futuro degli uomini sia la pace. Utopia, certo, vista la realtà opposta delle molte guerre del passato remoto e recente in zone vicine e lontane. Ma la poesia deve la sua potenza al suo essere controcorrente. In questo senso ho ricevuto molti stimoli e risposte leggendo i poeti e, in particolare, sono stato istigato da una breve poesia di Kjell EspmarK nella quale l’autore dice metaforicamente di girare con un coltello in tasca per tagliare la lingua a chi parla della “bella morte” in guerra.
Per liberarsi una volta per tutte dalla mitologia della bella morte e dalla sua vuota retorica, il progetto è andato avanti. Ho interpellato, tutti vivi al momento del confronto, più del doppio dei poeti ora qui antologizzati. La mia intenzione non era quella di spingerli a scrivere qualcosa sull’argomento, per una istintiva e magari sbagliata sfiducia nella poesia d’occasione. L’intenzione era invece quella di sondare la loro opera, alla ricerca di versi che parlassero direttamente o indirettamente della guerra nel più profondo coinvolgimento. Cercavo poesie che abbaiassero e mordessero come cani non solo arrabbiati ma anche in apparente fulminante tranquillità. Da qui le mie scelte. Continua a leggere→
Aus der Hand frißt der Herbst mir sein Blatt: wir sind Freunde.
Wir schälen die Zeit aus den Nüssen und lehren sie gehn:
die Zeit kehrt zurück in die Schale.
Im Spiegel ist Sonntag,
im Traum wird geschlafen,
der Mund redet wahr.
Mein Aug steigt hinab zum Geschlecht der Geliebten:
wir sehen uns an,
wir sagen uns Dunkles,
wir lieben einander wie Mohn und Gedächtnis,
wir schlafen wie Wein in den Muscheln,
wie das Meer im Blutstrahl des Mondes.
Wir stehen umschlungen im Fenster, sie sehen uns zu von der Straße:
es ist Zeit, daß man weiß!
Es ist Zeit, daß der Stein sich zu blühen bequemt,
daß der Unrast ein Herz schlägt.
Es ist Zeit, daß es Zeit wird.
Es ist Zeit.
Paul Celan
da Mohn und Gedächtnis, Deutsche Verlags–Anstalt GmbH, Stuttgart, 1952
Corona
L’autunno mi bruca dalla mano la sua foglia: siamo amici.
Noi sgusciamo il tempo dalle noci e gli apprendiamo a camminare:
lui ritorna nel guscio. Continua a leggere→
Il volume raccoglie una serie di studi scritti e pubblicati nell’arco di un quindicennio, in tempi e luoghi diversi, ma accomunati da un unico intento: scrivere saggi di critica psicoanalitica attraverso l’apertura e il confronto con il registro lacaniano del reale. È un progetto di ricerca nato nel periodo della mia formazione universitaria, a contatto diretto con alcuni maestri della critica psicoanalitica (come Giovanni Bottiroli, Massimo Recalcati, Stefano Agosti, Michèle Aquien) e poi perseguito nel decennio successivo.
L’autore su cui questo progetto è stato portato avanti in modo più approfondito è certamente Andrea Zanzotto. Il saggio Zanzotto/Lacan. L’impossibile e il dire rappresenta l’approdo più coerente e organico del mio tentativo di seguire questa prospettiva interpretativa . Ma in concomitanza e in relazione con questa indagine centrale, ho continuato a sviluppare il progetto di una critica psicoanalitica attenta al reale con studi su opere di altri autori, appartenenti alla letteratura italiana o francese del Novecento (fanno eccezione Cuore di tenebra di Joseph Conrad e Les Complaintes di Jules Laforgue, pubblicate nel 1885).
Queste esplorazioni, pur nella loro singolarità e varietà, sono venute a comporre nel corso degli anni un insieme che, oggi, nelle sue articolazioni, si presenta come un tentativo di penetrare nel rapporto inesauribile tra la letteratura e il reale. È dunque una costellazione di dieci saggi critici (in cui ancora brillano due astri zanzottiani) che è proposta unitariamente nel presente volume sotto il titolo Esplorazioni e incontri.
Ogni saggio è un’esplorazione testuale che mira a un incontro con il reale come impossibile a dire, come muro, buco, spigolo duro di verità su un aspetto essenziale e inaggirabile della realtà umana: desiderio, amore, morte, linguaggio, generazione, memoria, oblio, eredità, potenza, ideale, utopia etc. Ogni esplorazione si vuole singolare e alla ricerca dell’incontro con l’unicità dell’opera, mentre comuni sono le prospettive teoriche e gli strumenti concettuali della psicoanalisi che permettono di mettersi sul cammino del reale (di concepire la sua inconcepibilità, di parlare della sua impossibilità di essere detto interamente). Queste prospettive e questi concetti sono presentati nella prima parte del volume, insieme ai fondamenti e ai problemi teorici a cui sono legati.
Il titolo Linee di osservazione vuole mettere in evidenza la portata teorica di questi primi capitoli (attraverso il greco theōrêin: osservare, contemplare), mostrando però al tempo stesso la consapevolezza che essi non propongono una teoria articolata sul problema “letteratura e reale”, di cui i saggi della seconda parte sarebbero l’applicazione e la dimostrazione in sede di analisi. Non sarebbe onesto presentare il volume sotto il binomio scientifico “teoria e analisi”, per diversi motivi. Innanzitutto, occorre menzionare la limitatezza concettuale di questi primi capitoli, redatti a posteriori con la finalità primaria di illustrare gli strumenti e le coordinate teoriche che hanno permesso l’elaborazione e la scrittura dei saggi sulle opere.
La prima parte non può dunque essere considerata una teoria sul rapporto tra la letteratura e il reale, poiché, per essere tale, essa avrebbe dovuto accogliere lo sviluppo di molti altri problemi e aspetti essenziali che qui non vengono affrontati.
L’affinamento e l’allargamento dei legami potenziali di induzione e dimostrazione tra saggi critici sulle opere e saggi teorici, che avrebbero potuto condurre a una trattazione teorica estesa, non sono stati perseguiti per diverse ragioni. Tra queste, vi è anche, certamente, una risposta metodologica che riguarda la specificità stessa dell’oggetto di studio: il reale considerato nell’ambito della letteratura sembra in effetti sfuggire alla possibilità di una trattazione teorica portata a un sufficiente grado di formalizzazione. Come si dirà più approfonditamente nella prima sezione, si tratta di un’incompatibilità che riguarda in primo luogo la linguistica e la semiotica (e in parte anche l’estetica), e che, nel caso dei saggi qui raccolti, ha determinato, come effetto di struttura, una scrittura impegnata ad esporsi in massimo grado al reale delle opere a partire dalle teorie esistenti (si fa riferimento, nello specifico, alle teorie dei maestri citati, alle quali si aggiungono quelle di classici come Barthes, Starobinski, Kristeva, Meschonnic, Lavagetto). Queste teorie sono assunte come basi e come riserve concettuali della scrittura critica, come strumenti raffinati per portare quest’ultima alla produzione di un sapere a partire dal reale, in una dinamica che obbliga però le teorie stesse a confrontarsi con la dimensione affettiva, con i vuoti e con il non-senso che attraversano il linguaggio e il soggetto come essere parlante.
Queste argomentazioni richiamano ancora una volta, da una diversa angolatura, la formula di Barthes e Starobinski secondo la quale “il critico è uno scrittore” . Nella prospettiva di una critica orientata dal reale, il critico è uno scrittore perché è chiamato a percorrere e ricostruire le strutture del testo per incontrarvi dei nuclei di resistenza non verbalizzabili, di fronte ai quali la sua parola non può porsi su un grado di padronanza e formalizzazione diverso rispetto a quello della parola dello scrittore o del poeta (o di chiunque altro). Il critico è allora chiamato, pur restando nel proprio genere di scrittura e all’ascolto della risonanza strutturale e stilistica dell’opera, a esporre a sua volta la sua parola sul vuoto e sul non-senso.
Occorre però ricordare la ragione profonda che fa del critico uno scrittore: egli è scrittore in quanto lettore al più alto grado. Il critico è colui che prova a portare l’atto della lettura al suo punto più alto in termini di conoscenza ed esaustività, e ciò sia dal punto di vista della struttura che da quello soggettivo della capacità interpretativa e dello stile personale. In questo senso, il critico è colui che vuole onorare, attraverso la produzione di un sapere testuale, l’opera che lo ha attratto, sconvolto, interrogato, impegnato, appassionato. L’opera che ha amato. E questa lettura, che costruisce relazioni, che intesse osservazioni e dettagli convergenti, che fa esistere ed espandere le possibilità di senso del testo, non può che diventare scrittura complessa, su cui grava al tempo stesso il peso del rigore e dell’inesprimibile. Questo sapere testuale, che si vuole il più possibile trasmissibile e formalizzato dal punto di vista concettuale, non può, in una critica che prenda sul serio il reale, essere separato dall’individualità del critico. È il reale del testo che rende possibile la nota osservazione di Proust: «ogni lettore, quando legge, è soltanto il lettore di se stesso» (chaque lecteur est, quand il lit, le propre lecteur de soi-même) . Come fa notare Philippe Forest, ciò significa che anche «il lettore può avere accesso all’esperienza del reale», poiché la vera letteratura giunge «all’universale senza rinunciare mai al particolare» . Ma non può essere altrimenti: il lettore incontra questo universale posto sotto il nome del reale sempre nella propria singolarità. La lettura dell’opera portata al grado di scrittura e indirizzata a un altro lettore, interlocutore vivente, vicino o lontano, è dunque sempre un’interrogazione sulla propria identità, un confronto con il proprio reale attraverso la risposta alla voce pulsante del testo, al dialogo con la parola dell’autore sublimatosi nelle trame dei significanti.
Ogni lettura analitica di un’opera è dunque anche la testimonianza mediata e trasfigurata discorsivamente di un periodo della storia personale del critico, ovvero di un individuo alle prese con le vicissitudini del proprio desiderio e del proprio confronto con la morte; un periodo trascorso in un luogo e penetrato dal libro di quei giorni, libro che sdoppia la vita, la riflette e la espande, la intensifica nella comprensione affettiva, rendendola più viva e più degna.
Alberto Russo Previtali, Letteratura e reale lacaniano. La critica psicoanalitica e l’al di là del senso, Mucchi, Modena, 2023.
Alberto Russo Previtali
DAL RISVOLTO DI COPERTINA
Come nel capolavoro di Montesquieu che in qualche misura inaugura l’età dell’Illuminismo, la critica è una “lettera persiana”, un messaggio che viene da un altrove rispetto alla pratica della letteratura e alla rete delle convenzioni sociali del presente, illuminando entrambe grazie a un felice straniamento. Il compito della critica, arte tutt’altro che inutile in un tempo complesso come questo, non deve necessariamente esser quello di aggiungere complessità a complessità, bensì di spezzare, come voleva Kafka, la crosta del mare ghiacciato dentro di noi: renderlo nuovamente liquido, mobile, vitale. E rovinare le sacre verità, come insegnò tra gli altri proprio Montesquieu, può essere anche una faccenda divertente.
è una scienza di salvataggio, in primo luogo salvataggio della letteratura stessa, oppressa dai troppi libri e dal nessun senso di molti di essi. Per far questo occorrono nuovi occhi, nuove scritture, nuovi ardimenti.
Come dire, la critica letteraria nella sua forma meno paludata e accademica, meno rispettosa dei canoni e delle tradizioni consolidate, più innovativa e in sintonia con il presente. Di facile lettura e aperta a nuove contaminazioni e tangenze con la sociologia, l’arte, la filosofia, la storia…
La nostra tradizionale passione per la critica letteraria, arricchita di interpretazioni e nuove visioni.
Il pensiero di Jacques Lacan ha contribuito in modo determinante allo sviluppo della critica letteraria psicoanalitica nel Novecento e all’inizio del nuovo millennio. Continua a leggere→
Il finalista del Premio Ceppo Biennale Poesia edizione 2023 Riccardo Innocenti intervistato da Fabrizio Fantoni nel contesto della Biblioteca San Giorgio di Pistoia. Continua a leggere→
Il finalista del Premio Ceppo Biennale Poesia edizione 2023 Francesco Brancati Premio Internazionale Ceppo Pistoia Under 35 intervistato da Fabrizio Fantoni nel contesto della Biblioteca San Giorgio di Pistoia. Continua a leggere→
Il finalista del Premio Ceppo Biennale Poesia edizione 2023 Stefano Massari intervistato da Fabrizio Fantoni nel contesto della Biblioteca San Giorgio di Pistoia. Continua a leggere→
Il finalista del Premio Ceppo Biennale Poesia edizione 2023 Gabriel Del Sarto intervistato da Fabrizio Fantoni nel contesto della Biblioteca San Giorgio di Pistoia. Con letture dal suo “Sonetti bianchi”. Continua a leggere→
La vincitrice del Premio Ceppo Biennale Poesia edizione 2023 Under 35 Eleonora Rimolo intervistata da Fabrizio Fantoni nel contesto della Biblioteca San Giorgio di Pistoia. Con letture dal suo “Prossimo e remoto”. Continua a leggere→
La vincitrice del Premio Ceppo Biennale Poesia edizione 2023 Luigia Sorrentino intervistata da Fabrizio Fantoni nel contesto della Biblioteca San Giorgio di Pistoia. Con letture dal suo “Piazzale senza nome”. Continua a leggere→
Il vincitore del Premio Ceppo alla carriera Pistoia Capitale della Poesia 2023 Valerio Magrelli intervistato da Fabrizio Fantoni nel contesto della Biblioteca San Giorgio di Pistoia. Con letture dai suoi libri. Continua a leggere→
Fabrizio Fantoni intervista Paolo Fabrizio Iacuzzi, Presidente del Premio Internazionale del Ceppo e poeta, nella splendida cornice di Piazza Giovanni XXIII a Pistoia. Il ruolo della poesia e del poeta, il Premio e la sua evoluzione, le letture dagli scritti di Iacuzzi.
Questo libro di Jacques Roubaud nasce da un lavorìo comune in cui entrambi i traduttori, Domenico Brancale e Tommaso Santi hanno preso in carico ogni verso prestando la propria voce a ciò che può comportare una traduzione: accettare la resa di fronte al ritmo, alla musica, alle rime della lingua originale. Fedeltà e tradimento quando si traduce sono due vie di uno stesso volto. Il volto della parola. Nella fedeltà si tradisce la propria lingua rimanendo fedeli alla lingua altrui, nel tradi- mento si tradisce la lingua altrui rimanendo fedeli alla propria. Sempre si rinuncia a qualcosa. Sempre si libera una voce. Tradurre “Quelque chose noir” è stato soprattutto questo: fare i conti con una terza lingua, il francese di Jacques Roubaud. Parlare per conto di Roubaud con la propria voce significa accettare la sfida dell’oscurità. Ogni poesia è tale. Ogni parola ha conosciuto il tempo in cui è rimasta muta per parlare. Ci sono stati momenti in cui ricorrere ad altre voci è stata l’unica via di fuga dai punti ciechi della traduzione. Per questo desideriamo ringraziare Bruno di Biase, Hervè Bordas, Adriano Marchetti, Anna Ruchat e Sarah Veronesi.
IL LIBRO
Un uomo ha perduto la sua donna ed esprime, riga dopo riga, il dolore della sua assenza, il dolore più difficile da scrivere. L’uomo è il poeta Jacques Roubaud, la donna è la fotografa Alix Cléo Roubaud. Qualche cosa nero, pubblicato nel 1986, è il libro del lutto della poesia.
Il poeta rivela l’entità del suo dolore, gli effetti della morte e dell’assenza sulla vita e sul linguaggio: essi appaiono proprio come il negativo – inverso della luce, bianco e nero che si scambiano – rivela l’immagine. Dietro ogni verso del poeta ci sono le mani, il ventre, il corpo della donna amata. Alla fine, dopo «il punto vacillante del dubitare di tutto», dopo «l’inframondo», ciò che appare, è «Niente», titolo dell’ultima sezione.
Dire la morte dell’essere amato è convincere il silenzio a testimoniare perché, come dice Roubaud «la poesia è memoria della lingua». Questo libro è il dialogo postumo in cui «l’inchiostro e l’immagine si ritrovano solidali e alleati», è il tentativo, privo di consolazione, di ritornare nel presente, il tempo del «tu», l’unico tempo possibile in cui poter realizzare l’«io». Esperienza di vertigine, di paura, di bellezza, Qualche cosa nero si può leggere soltanto tremando.
ESTRATTI
Je voulais détourner son regard à jamais
Je voulais détourner son regard à jamais. je voulais être seul au monde à ne pas avoir vu du tout. cette main aurait pu ne pas être là, après tout: mais moi non plus, et avec moi disparaître le monde. ce cadeau. l’image de ta mort.
Elle avait aimé la vie passionnément de loin. sans l’im- pression d’y être ni d’en faire partie. malheureuse, elle photographiait des pelouses tranquilles et du bonheur fa- milial. extase paradisiaque, elle photographiait la mort et sa nostalgie.
Pour une fois adéquation exacte de la mort même à la mort rêvée, la mort vécue, la mort même même. Identique à elle même même.
Gouffre pur de l’amour.
S’endormir comme tout le monde. ce que je veux.
Je t’aime jusque là.
Évidemment ce n’était pas un cadeau ordinaire. celui de me livrer, à cinq heures du matin, un vendredi, l’image de ta mort.
Pas une photographie.
La mort même même. identique à elle même même.
°
Volevo allontanare per sempre il suo sguardo
Volevo allontanare per sempre il suo sguardo. volevo essere l’unico al mondo a non aver visto nulla. quella mano avrebbe potuto non esserci, dopotutto: e anche io, e con la mia scomparsa il mondo. questo regalo. l’immagine della tua morte.
Da lontano appassionatamente lei aveva amato la vita. senza l’impressione di esserci o di farne parte. infelice, fotografava prati tranquilli e felicità familiare. Estasi paradisiaca, fotografava la morte e la sua nostalgia.
Per una volta l’adeguamento perfetto della morte stessa alla morte immaginata, la morte vissuta, proprio la morte stessa. Identica proprio a se stessa.
Puro abisso dell’amore.
Addormentarsi come fanno tutti. quel che voglio.
Ti amo fino a quel punto.
Ovviamente non era un regalo qualsiasi. quello di lasciarmi, alle cinque del mattino, un venerdì, l’immagine della tua morte.
Non una fotografia.
Proprio la morte stessa. identica proprio a se stessa.
***
Mort
Ta mort parle vrai. ta mort parlera toujours vrai. ce que parle ta mort est vrai parcequ’elle parle. certains ont pensé que la mort parlait vrai parceque la mort est vraie. d’autres que la mort ne pouvait parler vrai parceque le vrai n’a pas affaire avec la mort. mais en réalité la mort parle vrai dès qu’elle parle.
Et on en vient à découvrir que la mort ne parle pas virtuellement, étant ce qui arrive, effective au regard de l’être. ce qui est le cas.
Ni une limite ni l’impossible, dérobée dans le geste de l’appropriation répétitive, puisque je ne peux aucunement dire : c’est là.
Ta mort, de ton propre aveu, ne dit rien? elle montre. quoi? qu’elle ne dit rien. mais aussi qu’en montrant elle ne peut pas non plus, du même coup, s’abolir.
« Ma mort te servira d’élucidation de la manière sui- vante : tu pourras la reconnaître comme dépourvue de sens, quand tu l’auras gravie, telle une marche, pour at- teindre au-delà d’elle (jetant, pour ainsi dire, l’échelle). » je ne crois pas comprendre cela.
Ta mort m’a été montrée. Voici : rien et son envers : rien.
Ni ce qui arrive ni ce qui n’arrive pas. tout le reste de- meurant égal.
Dans ce miroir, circulaire, virtuel et fermé. le langage n’a pas de pouvoir.
Quand ta mort sera finie. et elle finira parcequ’elle parle. quand ta mort sera finie. et elle finira. comme toute mort. comme tout.
Quand ta mort sera finie. je serai mort.
°
Morte
La tua morte dice il vero. la tua morte dirà sempre il vero. ciò che dice la tua morte è vero perché dice. certi han- no pensato che la morte dicesse il vero perché la morte è vera. altri che la morte non potesse dire il vero perché il vero non ha a che vedere con la morte. ma in realtà la morte dice il vero appena parla.
E si arriva a scoprire che la morte non dice virtualmente, essendo ciò che succede, effettiva nei confronti dell’es- sere. come in questo caso.
Né un limite né l’impossibile, sottratta nel gesto dell’appropriazione ripetitiva, dato che non posso in nessun modo dire: è qui.
La tua morte, per tua stessa ammissione, non dice niente? mostra. cosa? che non dice niente. ma anche che, mostrando, non può nemmeno, al contempo, annullarsi.
«La mia morte ti servirà da chiarimento in questo modo: potrai riconoscerla come priva di senso, quando l’avrai risalita, come un gradino, per andare oltre (e per così dire, buttare via la scala).» non credo di capire.
La tua morte mi è stata mostrata. Ecco: niente e il suo contrario: niente.
Né ciò che succede né ciò che non succede. mentre tutto il resto rimane uguale.
In questo specchio, circolare, virtuale e chiuso. il linguaggio non ha potere.
Quando la tua morte sarà finita. e finirà perché dice. quando la tua morte sarà finita. e finirà. come ogni morte. come tutto.
L’esposizione rimarrà aperta al pubblico fino al 3 settembre 2023.
Il ciclo delle mostre ospitate nel 2023 dalla Fondazione POMA Liberatutti di Pescia (Pistoia) continua con Alessandro Ceni, artista fiorentino classe 1957 che presenta ventidue opere, di cui diciassette inedite.
Le ventidue opere sono state realizzate tra il 2014 ed il 2023 e fanno parte di due collezioni: figure e natura. Il trait d’union di tutte le opere di Ceni è l’utilizzo della tavola come base di applicazione e l’impiego di spago o filo in plastica e talvolta cavo elettrico.
Nella recentissima collezione figure, oltre all’utilizzo di ossa animali, Ceni introduce un nuovo elemento strettamente legato all’uomo e al suo ambiente: l’indumento.
La prima opera della collezione figure, Uomo in piedi e fantasmi (2019-2022), rappresenta il simbolo dell’intera esposizione. Le sue dimensioni e il colore viola scuro sullo sfondo fanno del quadro un unicum rispetto agli altri.
«La mostra è un’occasione per valorizzare i lavori di Ceni in relazione agli spazi di Poma. Un dialogo tra le opere e gli ambienti circostanti, alla ricerca di letture inedite», commenta la curatrice Marta Convalle.
Il catalogo bilingue (italiano/inglese) di 64 pagine è pubblicato da Edizioni Fondazione POMA Liberatutti nella collana PomArte. Curato da Marta Convalle con la prefazione di Paolo Trinci, contiene un’intervista all’artista del professor Andrea Pellegrini e dispone di un ricco apparato iconografico. Sarà disponibile in Fondazione oppure contattando la segreteria al numero +39 0572 1770011. Le opere sono in vendita.
La Casa del Poeta, nel cuore del Borgetto Flaminio di Roma – Via Flaminia, 86 (angolo museo Explora) – riaprirà il6 giugno 2023 alle 18:30per ospitare la mostra dei ritratti di tanti artisti che hanno dedicato a Valentino Zeichen.
RitrattidiZeichen, Ideata e curata dalla figlia, Marta Zeichen con la collaborazione di Sacha Piersanti ed Emanuele Marchetti e le proiezioni di video e foto di Dino Ignani.
Verranno presentate le opere fotografiche, pittoriche e grafiche di Rino Bianchi, Elisabetta Catalano, Leonardo Cendamo, Monica Cillario, Michele Corleone, Maximo Cosentini, Gianluca Costantini, Leonardo Crudi, Milo De Angelis, Agnese De Donato, Claude De Dimanche, Marco Fedele di Catrano, Daniele Ferroni, Sandro Fogli, Stefano Fontebasso De Martino, Giovanni Giovannetti, Mireille Hoster, Dino Ignani, Uliano Lucas, Riccardo Mannelli, Marcello Mencarini, Stefano Montesi, Gianfranco Mura, Marilena Nardi, Tullio Pericoli, Paola Pertempi, Luigi Ontani, Dominique Radziwill, Luigi Serafini, Eric Toccaceli.
Le opere ritraggono Valentino Zeichen in diversi momenti della sua vita di uomo e di poeta. L’iniziativa è stata concepita per richiamare l’attenzione sul destino di un luogo centrale della memoria artistica e culturale romana dell’ultimo mezzo secolo, ovvero la dimora, situata all’interno del Borghetto Flaminio alle pendici di Villa Strohl-Fern, dove Valentino Zeichen vergò tutta la sua opera poetica, e che, ancora oggi, attende un preciso riconoscimento istituzionale.
RitrattidiZeichen
Idea e Curatela: Marta Zeichen
Con la collaborazione di Sacha Piersanti e Emanuele Marchetti
Proiezioni foto e video: Dino Ignani
Con il supporto di RAM radioartemobile Inaugurazione: 6 giugno 2023 | 18:30
Sede: La Casa del Poeta | via Flaminia 86 (angolo museo Explora) 00186 Roma Continua a leggere→
Vi presento alcune poesie di June Scialpi (Pisa, 1998) tratte dalla sua opera di poesia “Golem, l’interruzione” (Fallone Editore, 2022).
June è l’incarnazione di una nuova generazione di poeti che non si riconoscono nei maestri, perché stanno fondando una nuova comunità di scrittori. Tutto comincia da una domanda: “Chi sono io?” Da una domanda carica di significato e di responsabilità, comincia la ricostruzione del corpo non più individuabile, è un nuovo corpo, d’argilla, da plasmare, un Gigante dalla forza sovrumana, il Golem appunto. E’ un corpo dentro il quale ognuno si può riconoscere, è un’identità che si guarda dentro e scava fino alla radice di se stessa.
Nessuno può sentirsi distante dal Gigante che nasce da un’interruzione, da un’autentica trasformazione, un passaggio del corpo dentro il corpo.
(di Luigia Sorrentino)
ESTRATTO DA “IL GOLEM, L’INTERRUZIONE” di June Scialpi (Fallone Editore, 2022)
per non dare agli altri da capire
sulla soglia ci scambiamo questo gesto:
il mignolo sulla guancia che striscia piano
un saluto fatto a gomiti, le labbra che
boccheggiano e non dicono nulla;
pieghiamo la testa all’indietro: così
ci accogliamo, al riparo da tutto ciò che
è conosciuto, dal simbolo coniato
[nell’aria fissi la polvere
i granelli in ritorno
si posano a terra: compongono
forme, questo è ciò che sembra]
*
ci squamiamo tutta la notte come pelle
amputata; se di scatto si alza lascia lì la
voragine: ascolta:
lo sente risalire piano
e quando esce: sangue marrone
come cosa che non si lava
lui è fatto di fango: noi con lui;
ora che noi siamo loro -mi dici
siamo immortali (i mostri non
muoiono)
Dalla luce, dal tempo
sei qui
tornato
nella fiamma
di chi ti ama e ti amò. Ti amò
la polvere dove sono,
dove s’inseguono e rivivono
la quercia e il vento di un pensiero
stretti nel rettangolo del giardino.
Torni e hai con te il mattino,
il nuovo inizio di una casa, questa
sullo sfondo, e dentro
sei nella pendola ferma che tiene,
ha trattenuto in silenzio il silenzio
delle mani, l’umiltà delle vene.
Tu canti adesso
una canzone di puro mattino.
Il catalogo delle finestre sulla notte
tanto aperto si è chiuso.
Istante della voce, voce del sempre, lettere.
Mandate lettere al loro indirizzo.
Lì chiara l’anima tornò.
La consegna
Nelle tue mani consegno il mio spirito,
endecasillabo
di chi ha sentito
un giorno venirgli al naso un odore
d’ansia, era amore.
Chiuso in un inverno fu il giorno che
la stanza si strinse, pungevano
la mente e il polso: a chi
consegnare la morte?
È in luce che ci giudica la terra,
adesso è chiaro. La consegna è un’altra,
altro il tema: non negare il tuo
corpo sul corpo dell’altro. Il tuo stesso
spirito te lo chiede.
È così che due uomini si tengono.
La consegna.
Il Professore aspetta.
Altitudine
Le avevo detto non andare giù. Nove, diciotto gradini, non andare. Dove sei? Alzo la voce, dove sei? Vieni su. E non torna, non torna. Pensare adesso: non dovevo. Ha sempre fatto tutto, lei. E ora è il tempo delle confessioni, dire non ce l’ha fatta, non è riuscita.
La caffettiera intanto qui va sempre, e il male prosegue. Una macchia di tutti i sangui è sul balcone. Siedo su questa poltrona di velluto dove ho immaginato una grammatica, uno spartito, il posto dove ho immaginato di finire.
È così che ti penso, ancora dentro la casa. Fuori è quasi Natale, c’è la nebbia che stanca gli uomini. In un’ostensione aspetto che venga fortissimo il vento. Anche un giorno soltanto. Chi ha gridato nel vento sa. Faccio un respiro, grande.
Lettera a Helmut
Berlino, 17.08.1962
Caro Helmut,
non dolertene.
A questo corridoio
abbiamo dato corpo. Non dolertene
se il corridoio è stato stretto tanto
per te da chiamarsi vita, e per me
morte. Non piangermi.
Già occhi di cemento hanno risposto.
Dai un bacio a Lotte.
Correre dentro
la sfortuna di un venerdì 17
è stato un salto del sangue.
Ala, finestra, ghiaia.
Una storia, una striscia
di storia. Respiravi insieme a me.
Ti abbraccio,
Peter
Storia
È stato lui, il ragazzo che è entrato. La vita adesso affonda nel cuscino. È entrato nel giardino, una volta. È stato amore anche così. La terra, il suo tenerci in silenzio, quella sacca di male che esiste. Uno poi cerca la cura, non si spiega lo sconcerto. Che poi è stata la brina, il ghiaccio mai più rivisto, il sorridente andato. Non distante c’è il canale della Muzza e qualcuno nel suo andar via.
Tutto qui l’arco delle esistenze temporali: un dormire nella bocca, perché erano gesti.
Vai nei terreni, corpo, voce. Ricordati di noi, esposti alla storia. Cosa vorranno dire ora una matita, ora una mano? In questo mondo che ruota e senza stelle la testa è piena di pioggia. Lì, dove finisce il canale, guarda. Dalle nostre labbra pende il nome della Storia.
Da Un altro che ti scrive, libro inedito
Nepal, una foto di passaggio
Lingua di terra inarcata
verso l’altare nella sua luce grande
Himalaya svettante su
una città di polvere, fumo.
Da qui sopra
in foto le cime sono a fuoco,
vaste agitate nel cielo. Non altro
lì si tende, è il filo tra nessuno e niente
in libero cielo.
Sotto ecco gli uomini invece
strozzarsi voce su voce con tutto
l’affanno di tutta la polvere alzata.
Vanno in odori e sputi, e i loro spiriti
evitano le cose che non passano.
Paiono da lontano dirci
che in una cronaca perdono il nome.
Sì, lo dicono
a noi contemplativi
ma a loro così somiglianti
qui in alto nei nostri dissesti.
Vorrei dirvi
oltre il fardello che viviamo
oltre il massacro che vedete
che sempre
da un loro contorno morto ritornano
come restituite le parole.
E ci toccano
insieme al miracolo della voce
i segni immaginati dentro i testi
e i corpi delle montagne.
Passando a Melville, una parafrasi
Dardeggiante lontano il sole e il vento
assente, per la nostra rotta
cammina sulla vita e sulla morte
un velo immenso di nebbia leggera.
Ripeterà qualcuno, scriverà
di nuovo cosa fu il mio viaggio, cosa
questa caccia senza cattura, fu
un argenteo silenzio, non una solitudine.
speciale ‘monografico’ del progetto zona|disforme
dedicato al poeta Stefano Raimondi
girato a Milano tra ottobre 2022 e marzo 2023
regia fotografia suono montaggio post-produzione Carlotta Cicci e Stefano Massari
notizia: Stefano Raimondi (Milano, 1964)
poeta e critico letterario.
Ha pubblicato Invernale (Lietocolle, 1999); Una lettura d’anni, in Poesia Contemporanea. Settimo quaderno italiano (Marcos y Marcos, 2001); La città dell’orto (Casagrande, 2002; La vita felice 2021 – Premio Sertoli Salis 2002); Il mare dietro l’autostrada (Lietocolle, 2005); Interni con finestre (La Vita Felice, 2009); Per restare fedeli (Transeuropa, 2013 – Premio Marazza 2013); Soltanto vive. 59 Monologhi (Mimesis, 2016 – Premio Nazionale Franco Enriquez 2017); Il cane di Giacometti (Marcos y Marcos, 2017- Premio Città di Trento 2018 e Premio “Il Ceppo- Pistoia” 2018), Il sogno di Giuseppe (Amos 2019 – Finalista Premio Città di Como 2019 e Città di Fiumicino 2019); Storie per taccuino piccolo piccolo, (Scalpendi Editore 2022).
Sue poesie in “Almanacco dello Specchio” (Mondadori, 2006) e “Nuovi Argomenti” (2000; 2004).
È inoltre autore di saggi ed è tra i fondatori della rivista di filosofia “Materiali di estetica” (Università degli Studi di Milano),
oltre che fondatore e membro del Comitato scientifico di
“L’ABB Luoghi abbandonati, luoghi ritrovati. Laboratorio Permanente sui territori e le comunità” Università degli Studi di Milano. Continua a leggere→
Eleonora Rimolo vince con “Prossimo e remoto” il Premio Poesia Ceppo “under 35”
ÈLuigia Sorrentino, poeta e giornalista napoletana, con “Piazzale senza nome” (Collana Gialla Oro Samuele Editore/Pordenonelegge, 2021) la vincitrice della 67esima edizione del Premio Ceppo Poesia.
Sorrentino ha esordito nel 2003 con la raccolta “C’è un padre” (Manni) e poi ha pubblicato numerosi altri volumi di poesia, alcuni dei quali tradotti anche all’estero.
Il premio Under 35 a Eleonora Rimolo
Eleonora Rimolo, nata a Nocera Inferiore classe 1991, con “Prossimo e remoto” (Pequod, 2022) è invece la vincitrice del Premio Ceppo Poesia “Under 35”.
Le scrittrici sono state premiate domenica 7 maggio 2023 a Pistoia, alla biblioteca San Giorgio, con la votazione in diretta della giuria dei giovani lettori “under 35” e hanno ricevuto il riconoscimento da Paolo Fabrizio Iacuzzi, poeta, direttore e presidente del Premio Letterario Internazionale Ceppo.
La cerimonia si è svolta alla presenza di Federica Fratoni, Consiglio regionale della Toscana, Gabriele Sgueglia assessore alle politiche giovanili del Comune di Pistoia e la consigliera Isabella Mati, Lorenzo Zogheri presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia.
Gli altri finalisti del “Premio Ceppo Poesia” erano: Gabriel Del Sarto con “Sonetti bianchi” (L’Arcolaio) e Stefano Massari con “Macchine del diluvio” (MC Edizioni).
I finalisti “Under 35” erano Francesco Brancati con “L’assedio della gioia” (Le Lettere) e Riccardo Innocenti con “Lacrime di babirussa” (NEM).
Oltre ai premi offerti dalla Fondazione Caript, tutti i vincitori hanno ricevuto il “Ceppo di Via del Vento”, un cofanetto con dieci libretti selezionati dall’editore Fabrizio Zollo.
Video-Intervista inedita di Luigia Sorrentino a Mark Strand
Civitella Ranieri 24 giugno 2011
Traduzione in italiano di Giorgia Sensi Graziani
Prima parte
Ciao Mark, ci siamo visti a marzo qui a Civitella Ranieri, grazie per aver accettato questo secondo incontro. Cosa hai fatto in questi mesi?
Grazie a te. Gli ultimi tre mesi ho viaggiato, ho fatto una lunga vacanza, ho viaggiato in Spagna, Italia, Svizzera, di nuovo in Italia, sempre in macchina. Non ho scritto, ho solo letto, ho fatto il turista, non ho lavorato, essenzialmente sono stato in vacanza.
Si sta bene in vacanza, eh?
Benissimo, sempre.
Mark, che cos’è per te il tempo e qual è il rapporto tra il poeta e il tempo?
Una domanda difficile.
Il tempo significa cose diverse a poeti diversi, a ciascun individuo.
Secondo me, noi viviamo nel tempo, abbiamo il tempo in prestito. Il tempo umano è una parte del tempo, la parte misurabile. Il tempo esiste come entità enorme, incommensurabile, noi viviamo di momento in momento, da un’ora all’altra, di mese in mese, di anno in anno, queste nozioni di tempo con cui misuriamo la nostra vita sembrano alla fine, locali, fragili, oltre non credo che possiamo andare. L’universo è così vasto, nello spazio e nel tempo, noi non siamo in grado di padroneggiarlo. I fisici se ne occupano da un punto di vista matematico, ma per uno come me la matematica non ha alcuna realtà, è una lingua che non so leggere, e mi chiedo fino a che punto sia reale per il matematico. Se tu guardi il cielo notturno, per esempio, ciò che vedi è una quantità di piccoli punti di luce nella tela scura, non vivi lo splendore delle stelle e lo splendore degli anni luce che le separa, questo va oltre i limiti della nostra capacità, della nostra esperienza. Potrebbe essere che siamo ancora troppo primitivi per poterci permettere una tale esperienza, credo comunque che siamo primitivi in tanti modi e limitati in tanti modi, perfino la mia capacità di parlare del tempo in relazione alla mia stessa vita è così primitivo che anche adesso, in questo preciso momento, mi sento primitivo. Forse nel corso della nostra conversazione posso ritornare a parlare del tempo. Credo che siamo soli, veniamo dal nulla, ci viene data una certa lunghezza di tempo da vivere e torniamo al nulla, circondati dall’infinità del tempo e dall’infinità dello spazio che non siamo in grado di capire.
Il tuo tempo è iniziato nel 1934, sei nato in Canada, tuo padre era un uomo d’affari, ha fatto molte cose, e tua madre è stata in tempi diversi una maestra di scuola e un’archeologa. Come li ricordi?
Quando mi trasferii negli Stati Uniti, mio padre aveva un lavoro e mia madre non era ancora archeologa, io parlavo poco inglese, avevo quattro anni e mezzo, ero preso in giro per il mio accento, soprattutto i giovani che erano molto conformisti all’epoca negli Stati Uniti, mi prendevano in giro e un giorno un ragazzo mi prese a botte e io tornai a casa piangendo e mio padre mi disse che dovevo reagire e così la volta dopo affrontai questo ragazzo e lo spinsi giù dalle scale della scuola e il preside e un’insegnante della classe andarono dai miei genitori dicendo che dovevano controllarmi di più perché ero un violento. E quella fu la mia prima azione da ‘uomo’ e una delle ultime, di solito sono un tipo pacifico. Quindi la mia prima esperienza negli Stati Uniti fu quella di un outsider, e in un certo senso mi sono sempre sentito un outsider. D’altro canto, proprio perché mi sentivo un outsider, questo mi spingeva a conformarmi ancora di più, così imparai l’inglese molto in fretta senza traccia di accento, volevo essere come tutti gli altri e in un certo senso sono un miscuglio di uno che si comporta bene, che è uguale a tutti gli altri, ma psicologicamente mi sento un outsider, uno che non ne fa parte, e infatti non voglio essere come tutti gli altri, parlare come tutti gli altri, pensare come tutti gli altri.
Avevi quattro anni quando arrivasti negli Stati Uniti.
Sì, quattro anni, non è mai troppo presto per imparare.
Avrai sicuramente qualche ricordo di quel bambino di quattro anni. Com’era?
Ho diversi ricordi. Uno per esempio: ero un bambino magro, ma anziché le nocche sulle mani avevo delle fossette. C’era un bambino di sette anni che aveva le nocche e io pensavo quando avrò sette anni avrò le nocche e non più le mani di un bambino piccolo. Questo è uno dei primi ricordi. Un altro è l’attesa della visita dei nonni a Filadelfia e mia madre che mi vestiva bene, con dei bei calzoncini corti e una camicia col colletto chiuso, e mi ricordo che stavo alla finestra ad aspettarli. E quando arrivarono mio nonno mi regalò un dollaro d’argento e qualcosa è cominciato in quel momento, il desiderio di ricchezza che ha prodotto il desiderio contrario, di non averne per niente, di solito sono mosso da sentimenti opposti, ma sto scherzando, ovviamente. Questi sono essenzialmente i miei ricordi di allora, aspettare i nonni e volere le nocche. Mi ricordo anche di avere giocato nella sabbia con una bambina e mi graffiai con un’unghia e tornai a casa piangendo e mia madre mi chiese se volevo un cerotto grande o uno piccolo, e io dissi piccolo, ma quando tornai a giocare nella sabbia capii che sarebbe stato meglio un cerotto grande perché avrebbe giustificato il mio pianto e reso più importante la ferita, il cerotto piccolo invece la rendeva meno importante.
Imparai una lezione.
Poco dopo tuo padre, che lavorava per la Pepsi Cola, si trasferì con la famiglia a Cuba, poi in Colombia, in Perù, in Messico. Ci furono tanti spostamenti nella tua famiglia, era divertente per te? Forse però il viaggiare ti impediva di avere degli amici.
Mark, dimmi se c’è un paesaggio, un luogo che hai portato con te per sempre.
Prima di tutto mio padre cominciò a lavorare per la Pepsi quando io avevo quattordici anni, un periodo di tempo molto lungo tra i quattro e i quattordici anni, in quel periodo di tempo ebbe lavori molto diversi, e trasferirsi in paesi così diversi non fu molto piacevole, perdere gli amici… A Cuba ci fui solo d’estate, in Colombia per sette mesi, in Perù per l’estate, frequentavo una scuola privata negli Stati Uniti, ma imparai molto, vedevo come si viveva in paesi diversi, mia madre nel frattempo, quando eravamo in Perù poi in Messico, era diventata archeologa e io andavo con lei negli scavi, mi poteva spiegare cose a cui non avrei potuto avere accesso altrimenti, così quei viaggi furono istruttivi. Ma per esempio in Colombia, dove rimasi per sette mesi, avevo un sacco di tempo a mia disposizione, mi annoiavo, e fu allora che cominciai a leggere molto, fino a quel momento non ero stato un grande lettore, e i miei genitori dicevano perché non scrivi ai tuoi amici negli Stati Uniti? E quella fu la mia prima esperienza di scrittore. Volevo essere invidiato, volevo scrivere in modo tale che loro desiderassero avere le mie stesse esperienze, e in quel momento diventai uno scrittore, anche se quell’esperienza durò solo per un po’, però ricomparve più avanti quando avevo circa ventiquattro anni. Ma in quel periodo fui anche molto malato, e dovetti stare a lungo a letto, ebbi quattro volte la polmonite prima di viaggiare in Sud America, prima della penicillina, una tosse terribile, sei settimane, due mesi a letto, e avevo molto tempo per sognare a occhi aperti, non potevo vedere i miei amici, come sognatore a occhi aperti diventai un professionista, e divenne la base della mia abilità a fantasticare, non sono sicuro che sia stato quello il motivo ma se guardiamo al processo di causa/effetto molto probabile.
Eri un bambino che disegnava, dipingeva, e portavi con te questi ricordi, dipingendo.
Beh, dipingevo sempre, piuttosto bene, da adolescente, prima di diventare un lettore, mia madre aveva studiato arte e mi incoraggiò sempre a disegnare, dipingere. Pensavo che sarei diventato un pittore, finché non frequentai una scuola d’arte e capii che altre madri dicevano ai loro figli che sarebbero diventati pittori, ed erano migliori di me.
Mark Strand e Luigia Sorrentino – Foto d’archivio – 2011
Studiavi pittura, quando diventasti improvvisamente un lettore di Stevens, uno dei maggiori poeti degli Stati Uniti del XX secolo. Cosa ti insegnò Stevens?
E’ molto difficile da dire. Il potere delle singole parole, la sua lingua straordinaria, leggi le poesie di Stevens e sei stupefatto del suo vocabolario, anche la sua musica, e la creazione di immagini, la potenza visiva delle sue poesie. Se sei un pittore, sei molto suscettibile a poesie che hanno una qualità pittorica, e di tutti i poeti del XX secolo penso che Stevens fosse il più pittorico. C’è anche un elemento esotico in Stevens, e non hai dubbi che quello che stai leggendo è poesia. Un’altra cosa molto interessante è che mi piaceva anche senza capirlo, e mi resi conto che puoi amare una poesia anche senza sapere cosa significa, che l’esperienza di una poesia non era necessariamente la conoscenza di quella poesia, che si poteva assorbire una poesia senza essere capaci di dire di cosa parlava. Quello l’ho imparato da Stevens.
Per Stevens, “poeta è colui che scrive e sostiene la domanda della vita”. Qual è la domanda della vita che scrive e sostiene Mark Strand?
A essere sincero, non lo so.
So ciò che chiedo alla vita, un altro giorno, un altro mese, un altro anno, un’altra vacanza, sempre di più, quello che la mia scrittura chiede alla vita non lo so e a dir la verità non lo voglio sapere, se lo sapessi potrei non scrivere più. Ciò che mi fa continuare a scrivere è non sapere di cosa sto scrivendo, perché sto scrivendo. Questo tipo di domanda è per i lettori, non per lo scrittore, almeno non per me.
Nel 1960 avevi 26 quando ricevesti una borsa di studio per venire in Italia, a Firenze, per studiare la poesia italiana del XIX secolo. Cosa c’era di nuovo nella tua valigia quando ripartisti dall’Italia?
L’esperienza in Italia fu fantastica. Prima di tutto vidi moltissimi dipinti che prima avevo visto solo in riproduzione e vederli dal vivo fu una rivelazione, inoltre il mio italiano era molto meglio di quanto non sia adesso quindi potevo leggere Montale, Quasimodo, Ungaretti, Palazzeschi, un po’ di Foscolo e anche Carducci. Mi concentrai molto sulla mia scrittura quando fui in Italia, fu un periodo molto produttivo, fu l’anno in cui venni pubblicato per la prima volta da un’importante rivista negli Stati Uniti.
Ti ricordi la valigia che avevi portato con te? Cosa c’era dentro?
Roba, vestiti.
Scarpe.
Solo un paio, qualche camicia, pantaloni non molti (questo detto in italiano), poca roba. Avevo una macchina da scrivere, manuale, i vestiti non volevano dire niente per me.
E negli occhi cosa c’era?
Nei miei occhi?
Cosa portavI negli occhi?
Non sono sicuro di capire bene. Portavo solo i miei occhi, senza occhiali, non portavo occhiali allora.
C’era una cosa che sentivo quando ero qui, mi sentivo molto americano, amavo l’Italia ma ero così diverso e l’Italia allora era un paese così diverso da adesso, meno automobili, i taxi erano neri e verdi, molti andavano in bicicletta e le rovine della Seconda Guerra Mondiale erano visibili ovunque. Mi comprai una Lambretta usata e imparai a bere un buon caffè. Vivevo con trecento lire al giorno, facevo un pranzo abbondante, risotto, salmì, insalata.
Fu dopo quell’esperienza in Italia a Firenze che cominciasti a pubblicare le tue prime poesie. era il 1964 quando uscì il tuo primo libro, Dormendo con un occhio aperto, (Sleeping with one eye open) insegnavi inglese, avevi 30 anni erano gli anni in cui gli Stati Uniti erano in guerra in Vietnam.
Perché scegliesti questo titolo, Dormendo con un occhio aperto?
La guerra stava appena iniziando nel 1964/1965, e io ero molto contrario alla guerra, come molti altri poeti scrivevo poesie contro la guerra ma erano brutte poesie e così, a parte una ‘The Way It Is’, le altre le buttai, ma le leggevo in questi grandi readings a gente come me convinta che non dovessimo essere in guerra. Ma quello era soprattutto a fine anni Sessanta quando la gente era arrabbiata dalla nostra presenza là, ma il titolo suggerisce adesione al mondo dei sogni e al mondo della realtà, un occhio rivolto all’interno e l’altro all’esterno e in un certo senso era obbligo della poesia tenere in equilibrio visione interna e visione esterna, e credo che il titolo indicasse un ‘modus operandi’ di tutta la vita. Ma non andrei oltre. A te sembra che abbia senso?
Una volta in un’intervista hai detto che devi la tua carriera di poeta a un altro poeta Harry Ford. Cosa ha fatto per te?
Prima di tutto, con Richard Howard, ci incontravamo tre volte la settimana per pranzo, e parlavamo dei libri che leggevamo, il mio rapporto con Richard Howard era strettamente letterario, qualche volta leggevamo le nostre poesie, ma meno frequentemente che con altri poeti, Richard era molto più avanti di me come poeta, ma con altri due amici più intimi, Charles Wright e Charles Simic,si parlava di poesia, di lavoro, di vino, di cibo, specialmente con Simic che amava mangiare e bere, e si parlava molto di poeti stranieri, il che ci portò a pubblicare un libro insieme chiamato Another Republic. Ford non era un poeta, era un editor e figurativamente parlando mi ha salvato la vita perché nel 1965-66, quando tornai dal Brasile feci domanda di un ‘grant’ e Harry Ford era nella commissione, e era anche in quella di ‘Atheneum’, e mi scrisse una lettera per dire che gli piaceva il mio manoscritto ma non poteva pubblicarlo per Atheneum perché altrimenti non avrebbero potuto darmi il grant ed era meglio avere i soldi piuttosto che la pubblicazione perché il libro l’avrebbe sicuramente pubblicato qualcun altro. Passarono due anni e nessuno aveva ancora pubblicato il mio libro, nessuno lo voleva, le mie poesie uscivano su riviste ma un libro sembrava impossibile. Poi per caso incontrai Ford a una festa a New York e mi chiese, Dov’è il tuo libro? Cosa è successo? E io dissi, Mah, nessuno lo vuole. ‘Perché non me lo mandi? Glielo mandai e due giorni dopo mi telefonò per dirmi che l’avrebbero pubblicato. E Harry Ford rimase il mio editor finché non morì.
Un altro poeta che ha giocato un ruolo fondamentale nella tua vita è stato Joseph Brodski che tu hai conosciuto negli anni ‘Settanta. Ci racconti il tipo di relazione che avesti con Brodski?
L’ho incontrato nel 1972 quando venne negli Stati Uniti e lo ammiravo molto, era stato tradotto in inglese e gli avevo mandato dei biglietti d’auguri per Capodanno e quando arrivò negli Stati Uniti gli chiesi se avesse ricevuto i miei biglietti e disse di sì, non solo ma che aveva letto le mie poesie e ne citò una mia lunga, in inglese, lui aveva una memoria prestigiosa, poteva recitare per ore, ma mentre lo ascoltavo recitare la mia poesia ne fui sopraffatto , mi volevo inginocchiare e baciargli le scarpe.
Diventammo grandi amici, la sua influenza su di me fu più grande della mia su di lui, lui mi faceva domande sull’uso della lingua, così era meglio, così più naturale, sarebbe meglio un’altra parola?
Anch’io gli facevo delle domande, e le sue risposte erano sempre molto astute, io seguivo sempre i suoi consigli, non sono sicuro che lui seguisse quello che gli dicevo io. Lo adoravo, era la persona più intelligente che io avessi mai conosciuto, la sua mente era così veloce, la sua immaginazione così fertile, sapeva sviluppare idee, ipotesi più velocemente di chiunque altro che io avessi mai conosciuto.
La sua energia intellettuale era travolgente, era un enorme piacere stare con uno così intellettualmente vivace. Stare con lui mi faceva venire voglia di scrivere. Era la stessa sensazione quando parlavamo al telefono se lui era all’estero. Un grande scambio intellettuale, poetico, più dalla sua parte che dalla mia.
Qualcuno ha scritto che la tua scrittura a un certo punto si è fatta autobiografica, anzi obliquamente autobiografica, come sarebbe avvenuto in Buio, più buio, (Darker) poema del 1970, poi via via questo io che si sentiva molto minacciato dall’esterno approda a un io più interiore, accade forse, questo lo dice la critica, nella tua poesia più famosa la ‘Denarrazione’, una poesia lunga. Cosa ha determinato il cambiamento nella tua scrittura?
Prima di tutto credo che Darker non sia così autobiografico, credo che nella poesia americana ci sia stato un movimento verso l’autobiografia a causa di tutti i poeti confessionali del tempo, e io non volevo essere lasciato fuori, almeno la parte più conformista di me, volevo farne parte, ma non è durato molto, quando uscirono i miei Selected Poems e scrissi i Nova Scotia Poems, ne avevo abbastanza di poesia confessionale, capii che non era per me, non ero un buon poeta autobiografico, e capii che dovevo indirizzare altrove la mia attenzione, ma non credo che le mie poesie autobiografiche siano le mie migliori, sono più fiction che autobiografia, la storia di una vita, fiction, che rappresenta la mia vita e stranamente, all’epoca, provai una certa forma di repulsione per quella mia poesia, non c’era niente di interessante nella mia vita che valesse la pena rivisitare, credo che la mia forza fosse più sul lato dell’ironia, della fantasia, nell’invenzione, nel raccontare vite alternative, perché scrivere della vita che facevo io quando potevo inventare delle vite più interessanti? Quindi la misi da parte.
Nel 1978 diventi poi un poeta di fama internazionale pubblicando L’ora tarda, vai a insegnare nelle più importanti università americane e tiri fuori un io ironico che fino a quel momento non era apparso nella tua poesia. Ci parli di questo cambiamento?
Beh, non accadde nel 1978. Quell’anno segnò la fine della poesia autobiografica, per cinque anni non scrissi perché non sapevo cosa dire. È facile rivolgersi all’ironia, alla fantasia … ma non succedeva niente, cominciai a scrivere articoli per riviste, scrissi libri per bambini, dei racconti, e poi ciò che mi indirizzò verso i libri successivi fu effettivamente la traduzione dell’ Eneide di Robert Fitzgerald, fece partire una esplosione interna, improvvisamente la mia lingua si fece più ricca, le frasi più elaborate e più lunghe, niente di autobiografico, mi divertivo molto a scrivere, e lo devo a Robert Fitzgerald e a Virgilio.
Hai scritto poi Il monumento rispondendo a una domanda che ti era stata posta in una conferenza, ‘Come ti piacerebbe essere tradotto tra 500 anni? E tu hai risposto scrivendo quest’opera, The Monument.
A dir la verità The Monument fu una reazione alla poesia autobiografica di cui parlavo prima. Era una specie di gesto grandioso, di come sarei stato tradotto in futuro come se potessi avere una traduzione nel futuro, e come desidererei essere letto in futuro soprattutto tra 500 anni, che è piuttosto comico nella sua grandiosità. Ma l’idea non è semplicemente della propria opera tradotta, ma di come uno è tradotto, come la propria opera rivela chi sei, fino a che punto è il traduttore il poeta, soprattutto in futuro quando il poeta non è più lì a parlare per sé ma le poesie sono là a parlare per lui, il libro esprime anche il disincanto per questo concetto di provvisoria immortalità, perché ciò che uno vuole è vivere per sempre non necessariamente attraverso la propria opera ma di persona, essere vivo, avere venticinque anni per mille anni, è impossibile, è ridicolo ma in un certo senso profondo è quello che vogliamo, possiamo non volerlo riconoscere ma è così. Non sono sicuro che tutto questo sia espresso in The Monument. In effetti The Monument è un libro che ritenevo molto divertente da leggere per la considerazione dei vari modi in cui siamo trasportati nel futuro se siamo scrittori.
Mark, secondo te la morte può essere ingannata?
No, mai. La morte è assoluta. Quando ne abbiamo parlato mesi fa era chiaro che uno può abitare la stanza dell’immortalità, ma anche lì il nostro tempo è limitato. Ci sono diverse morti. C’è la morte vera, moriamo. Poi c’è la seconda morte quando nessuno si ricorda di noi, quando nessuno dei nostri parenti si ricorda di noi, i nostri nipoti non si ricordano di noi, questa è la seconda morte, più lenta. La terza morte come scrittore è quando le tue opere sono portate via dalla biblioteca perché per loro non c’è più spazio, e tu sei dimenticato. Questa è la terza morte, inevitabile. Dobbiamo vivere con il concetto che qualunque cosa facciamo e diciamo possiamo essere sostituiti.
A un certo punto hai mollato la poesia e ti sei messo a fare altro, critico, giornalista, come se avessi voluto prendere le distanze dalla poesia. Come mai è accaduto questo?
Beh, non avevo idee, ho semplicemente smesso di scrivere perché non volevo scrivere brutte poesie, e quando smetti di scrivere per un po’ sembra che tu esca dal mondo della poesia, da quell’atteggiamento mentale da cui nasce la poesia, non è che ti manchi, ma non fa più parte della tua vita quando scrivi, non è stata una tragedia, è stato un modo di ricaricare le batterie, non puoi continuare a spendere energie in un libro dopo l’altro… Va bene, c’è gente che lo fa, ma io non ci riesco.
Poi sei ritornato di nuovo a scrivere poesie e hai pubblicato La vita ininterrotta con il quale ottieni il titolo di ‘Poeta Laureato degli Stati Uniti’ e la tua opera poetica acquista una visibilità senza precedenti. Cosa vuol dire Poeta Laureato, Mark?
Beh, essere poeta laureato non ha voluto dire molto per me. Era un titolo, sono stato anche sorpreso perché il precedente Poeta Laureato era stato molto più vecchio, io ero appena cinquantenne , in effetti non ha fatto molta differenza. Ho fatto molti reading, ho venduto molti più libri, quell’anno non ho scritto una sola poesia perché abitavo a Washington in una casa terribile, in affitto, è stato un anno di vita sociale, feste, cocktail party, cene, perché se hai un titolo a Washington allora sei qualcuno, altrimenti non sei nessuno. Poeta laureato è come stare in vetrina, come un bouquet messo su un tavolo, ero come qualcosa di frivolo da avere a un party.
Porto oscuro esce nel 1993 ed è un singolo poema diviso in 45 sezioni, poi con Tormenta al singolare nel 1999 Mark Strand si aggiudica il Premio Pulitzer per la Letteratura, consacrato ancora una volta poeta. Cosa ricordi di quel giorno?
Lo ricordo benissimo. Il mio editor, Harry Ford, era morto un mese prima e io ero a New York, seduto nel suo ufficio perché nel pomeriggio avrei dovuto leggere un ricordo, un discorso funebre in sua memoria, e per scriverlo stavo usando la sua macchina da scrivere e d’un tratto sentii il bisogno di uscire a fare una passeggiata, e finii con l’andarmi a comprare una camicia bianca, poi tornai in ufficio a finire il discorso funebre e mi resi conto che Harry Ford indossava sempre una camicia bianca, forse inconsapevolmente comprando una camicia bianca avevo reso omaggio a Harry Ford? Quando tornai in ufficio tutti vennero a congratularsi con me dicendo, Complimenti! Congratulazioni, hai vinto il Pulitzer Prize! E tornai nell’ ufficio di Harry Ford a finire il discorso. Quindi mi ricordo bene quel giorno, la camicia bianca, la macchina da scrivere, il discorso, la notizia del premio.
A cosa stai lavorando adesso?
Sto scrivendo il mio capolavoro! Sono venuto a Civitella l’anno scorso a maggio e ho cominciato a scrivere brevi brani in prosa, ho finito il libro a febbraio, otto mesi, ed è stato pubblicato negli Stati Uniti e poi qui in Italia da Nottetempo di Ginevra Bompiani. Mi è piaciuto molto scriverli, mi sono davvero divertito, è stato un vero sollievo rispetto a scrivere poesia, la poesia aveva cominciato a esercitare una forte pressione su di me, pensavo di dover essere migliore di quanto effettivamente potevo essere e avevo cominciato a pensare che le mie poesie non fossero abbastanza buone, mi davano ansia e infelicità, e così cominciai a scrivere questi pezzi in prosa, sembrava che rappresentassero chi sono in modo più enfatico della poesia, alcuni sono buffi, altri più seri, alcuni sembrano poesie – alcuni li vedono come poesie – ma io non li considero poesie, così finii in febbraio, poi mi dissi, basta pezzi in prosa, stavo per finire un memoir che avevo cominciato , ma poi cominciai a fare dei collages, ne feci quattro o cinque, li feci vedere a qualche persona, ora un paio sono in mostra in una galleria a New York, e continuo a farli. E venendo a Civitella, dove avevo cominciato i brani in prosa, ieri ne ho incominciato un altro, troppo tardi per essere incluso nel libro, ma quando ero a Milano ho parlato con Antonio Riccardi da Mondadori, che era rimasto offeso che io avessi offerto i miei brani in prosa a un altro editore, ma gli ho detto, beh, è solo un libriccino e tu eri forse troppo occupato in Mondadori per uscire con questo mio ‘grosso’ volume, ne scriverò ancora e arrivato a 100 potrai pubblicare il tutto. Quando sono arrivato qui, in questo posto, ho avuto questa idea dei brani in prosa e forse chissà ne scriverò ancora e fra un anno avrò un altro libro per Antonio.
Ora sei in un posto tranquillo, Civitella Ranieri, puoi scrivere facilmente, qui c’è silenzio, quiete, hai tutto quello che serve per poter scrivere. Ma tu riesci anche a scrivere in metropolitana, in un luogo pubblico oppure ti sentiresti troppo osservato ed emotivamente diciamo “scoperto” per poterlo fare?
Credo di aver bisogno di silenzio, di tranquillità, è un fattore molto importante, sarebbe impossibile per me scrivere in metropolitana – leggo in metropolitana – riesco a scrivere poesia solo in un posto molto tranquillo, posso scrivere lezioni, conferenze, altre cose così in aereo per esempio anche se non voglio che la persona seduta accanto a me mi veda scrivere perché non voglio avere alcuna relazione con la persona accanto a me, c’è anche l’impressione di essere visto come troppo emotivo, credo che scrivere in pubblico sia un po’ un’esibizione, sono sempre sorpreso da chi va a scrivere da Starbucks, o in un caffè, annunciando al mondo di essere scrittori, preferisco tenerlo per me, in privato.
Perché si scrive poesia e perché si legge poesia, per scoprire che il poeta vede il mondo come lo vediamo noi?
Credo che l’unica differenza tra il poeta e le altre persone sia la risposta del poeta, il poeta ha accesso alla storia della poesia, a poesie scritte prima di lui, e ha familiarità col modo in cui altri scrittori hanno espresso la loro esperienza del mondo. Questo non significa che l’esperienza del poeta sia più profonda o più ricca di quella di altre persone, altre persone hanno sentimenti, altre persone si innamorano, altre persone hanno paura del buio, non vogliono andare in guerra, è solo che il poeta scrive ciò che sente, anche altri possono qualche volta scrivere una poesia qua e là, ma il poeta ha imparato la lingua della poesia, ha la sua lingua e ha la lingua che ha ricevuto e ha anche la lingua in cui sta scrivendo. Ci sono tre fattori: la sensibilità del poeta, c’è la storia del poeta, e c’è la lingua in cui il poeta trasmette i suoi sentimenti cosicché altri possano riconoscere in loro stessi ciò che il poeta sta dicendo.
Il poeta che tipo di realtà vuole trasferire al lettore?
Questa è una domanda molto difficile. Credo sia diverso a seconda dei diversi poeti, non è nemmeno una scelta, il poeta fa ciò che può, parte della risposta è che il poeta esprime il modo in cui egli vede il mondo, ma non è solo questo, è il modo in cui NON vede il mondo, ciò che è oltre a quello che lui riesce a vedere, nelle sue poesie naturalmente il poeta presenta un mondo che è riconoscibile ad altri ma presenta anche un mondo che è interno a lui stesso, che lui ha reso proprio, il mondo della sua vita interiore, della sua soggettività, fatto soprattutto di sentimenti e di idee generate dall’interno, e lo stile della poesia è donato dall’esterno, e il miscuglio di interno ed esterno è la realtà che il poeta presenta al lettore, questo ha senso.
Quando ascoltiamo la tua poesia siamo affascinati dalla voce, dal ritmo, siamo condotti nel mondo della poesia che hai scritto, a volte però nella poesia che hai scritto accade qualcosa di inimmaginabile, o comunque ci si trova dinnanzi a qualcosa di strano, di inaspettato, quasi che la lingua della poesia prenda il sopravvento su quello che il poeta ha detto o avrebbe voluto dire, perché succede questo?
Un’altra difficile domanda. Credo che il poeta voglia sempre andare al di là, oltre ciò che è comprensibile nell’immediato, oltre ciò che è possibile dire, così ciò che il poeta vuole fare è suggerire di più di ciò che effettivamente dice, spera che la sua poesia abbia un grado di risonanza e suggerisce la possibilità di significati più grandi di quanto le singole parole possiedano. Questa è la parte mistica della poesia di cui è difficile parlare in termini concreti, molto di ciò che il poeta ha da dire è suggerito inconsapevolmente, c’è un mondo in ciascuno di noi di cui non sappiamo e che non capiamo, e a cui non sempre abbiamo accesso, appare nei sogni e spesso appare in una poesia in modo del tutto inaspettato, se le poesie fossero scritte rigorosamente dalla nostra coscienza non sarebbero mai migliori di quanto siamo, porterebbero avanti un discorso razionale dove il significato sarebbe appreso immediatamente, ma la poesia cerca di fare qualcos’altro, cerca non solo di esprimere significati concreti, ma di suggerire significati oltre il concreto, non solo significato, cosa si prova ad avere qualcosa che significa qualcosa per te.
La poesia è un’esperienza di totale immersione nel mistero dell’essere e del tempo, da dove viene la lingua della poesia, proviene dall’inconscio o dalla coscienza?
Credo che venga da entrambi, si nasce in una lingua e in una cultura, la lingua è proprietà pubblica, appartiene a tutti, per farla propria bisogna assorbirla in modo speciale. Una delle cose che il poeta fa, come ho detto prima, è investirla di qualcosa al di là della denotazione, qualcosa di misterioso, credo che debba investire la lingua di mistero, come si faccia non ne ho un’idea, la società è opposta al mistero, la società usa la lingua per convincerti di questo o di quello, la società non ha tempo per l’ambiguità, ma noi viviamo vite che sono ampiamente ambigue, che non dipendono da ciò che è assolutamente razionale, o decisioni molto chiare, viviamo vite che in qualche modo sono sospese nel mezzo, e penso che ciò che i poeti fanno è in mezzo, a volte tra l’incertezza, l’ambiguità, il mistero.
Una volta hai detto che la poesia esiste come qualcosa di diverso nell’universo, come qualcosa che il lettore non ha ancora incontrato prima di quel momento. Che cosa deve cercare questo lettore nella poesia?
Quando dico che una poesia è qualcosa di diverso nel mondo voglio dire che ciascuna singola poesia ha la propria identità ed è una cosa nuova, il poeta comincia con un foglio bianco e ci scrive sopra qualcosa, qualcosa che non è mai stato scritto prima, il significato può esistere altrove, ma il modo in cui appare su questo particolare foglio di carta non è mai apparso prima, quindi ogni poesia è qualcosa che esiste in quel momento, è un artefatto del tutto nuovo. È qualcosa che succede naturalmente e noi leggiamo la poesia del poeta perché sentiamo quella voce dentro la poesia, e con voce non intendo il suono, intendo l’identità, il fattore che identifica la poesia, ciò che la distingue dalle altre. Continua a leggere→
Nel 1977 l’uscita di questo libro rappresentò un punto di rottura nella poesia italiana, data l’audacia espressiva di un poema multiforme che fu subito salutato da molti come un vero eproprio evento.
A distanza di ben oltre quarant’anniviene ora riproposta al pubblico l’opera forse dagli esiti più importanti diGino Scartaghiande. E non si tratta di una semplice operazione nostalgica o di un consolatorio omaggio tout court, ma di un vero e proprio riconoscere a questo lavoro una quanto mai attuale vitalità.
Appunti sui “Sonetti” per Luigia Sorrentino di Gino Scartaghiande
King-Kong è come suono onomatopeico, è un rullo di tamburo, l’incontro con il fenomeno stesso dell’ispirazione in tutta la sua complessità che ti piomba addosso come qualcosa di feroce e al contempo dolcissimo ma con cui devi comunque combattere, un po’ come la lotta diTobia con l’angelo. E l’arma con cui condurre la battaglia non è altro che il verso e la sua specifica forma.
Nel mio caso “sonetto” è inteso proprio come “piccolo suono”, sia quale consapevole minus rispetto alle sue più alte forme espresse nelle civiltà del passato, sia quale aspirazione, nonostante tutto, ad esse. Ma realisticamente, abitando noi la catastrofe del moderno, non ho potuto che riformularne l’essenziale sua prima origine proprio nel contrasto con il monstrum del disforme, così come aveva già fatto Giacomo da Lentini nei confronti del mostro polifemico e dell’epicureismo di Federico II, ma nel contesto di uno straordinario momento di civiltà letteraria siciliana.
La forma nasce sempre da un simile contrasto, così come ogni virtù si entifica sempre a fronte di un male che si è riuscito a vincere. Una tale dinamica presuppone l’aver occupato di già zone sotterranee ed infere dell’essere, in un ingrato lavoro a tentoni, dove si è ciechi come una talpa. Senza questo lavoro dalle sue fondamenta, ogni forma è solo di superficie, ovvero mistificante. Modigliani per erigere i suoi immortali “pilastrini di bellezza”, sprofondava nel sottosuolo della metropolitana di Parigi, da cui traeva i suoi massi, la materia su cui lavorare, e che egli riportava all’essenzialità di un koùros cicladico, non senza la riverberante presenza del dio extra-olimpico Apollo già proveniente dal deo Marduk di Babilonia.
Tra le fondamenta dei “Sonetti” da cui ripartire c’è in primis il luogo della Storia e della violenza perpetrata in suo nome; e io, nel primo poemetto del libro, riparto proprio dall’assassinio di una donna, Rosa Luxemburg, la cui morte rivivo sul mio stesso corpo. Ma è tutta la storia fantasmatica delle immagini in cui siamo immersi nella nostra modernità – lèggi film, romanzi, canzonette, telefilm, spettacoli d’intrattenimento – a costituirsi quale luogo che uccide la donna.
E questo perché un’immagine ineffettuale, dove non si attua cioè l’effettualità della poiesis, è mitica, e il mito, per sostentarsi, esige sine qua non il sangue delle vittime. Quando Rossellini gira Roma città aperta uccide davvero Anna Magnani, l’ha già tradita alle spalle. E questo perché Rossellini non paga, effettualmante, con un proprio personale sacrificio, il prezzo del mezzo che usa, o per dirla con l’antichissimo poeta latino Lucilio, non sa più cosa significhi praetium persolvere quis in versamur, ovvero saldare il debito per le cose che si usano. E questo vale tanto più per l’arte, come con il loro sacrificio intenzionale ci hanno poi di nuovo rivelato
Pasolini e Troisi. E tutto ciò perché, come viene a dirci Pietro Tripodo in un suo saggio del 1995 pubblicato nel collettaneo La parola ritrovata, “Già il mondo delle immagini, con maggiore nostra passività, seleziona il luogo e il momento della più grande atrocità, del più grande oltraggio”.
Gino Scartaghiande, foto di Dino Ignani
CITTADINI DI UN REGNO CHE VA SCOMPARENDO
La prima ispirazione per quella che sarà poi la Gerusalemme liberata, un Tasso fanciullo l’ha avuta proprio durante le visite all’abbazia benedettina della Santissima Trinità di Cava de’ Tirreni, dove aveva soggiornato Urbano II, il papa che indirà poi la prima crociata.
Dacché il nostro bellissimo Regno delle Due Sicilie è stato annesso in un sistema non eudemonico, ovvero infernale, e con tanto di mafia al seguito, quale è l’odierno Stato liberale – ma tale annessione vale per tutta l’Italia, dalla foscoliana Venezia alla Napoli di Vanvitelli e Ferdinando Fuga; dal ducato di Parma, Piacenza e Guastalla allo Stato Pontificio – noi siamo ormai cittadini della diaspora, di un regno che continuamente va scomparendo.
Questa scomparsa però non è una perdita, ma il giusto avanzamento verso quello che è il vero fine di ogni civiltà: la sua definitiva uscita dal mito, lasciando al suo posto una traccia di splendore.
Questo è quanto ci hanno trasmesso gli antichi regni scomparsi, e soprattutto la Grecia, allorché il suo primo re storico, Teseo, libera quei giovani dal Minotauro, alias dal labirinto del mito, vuoi anche dal mito del successo, portandoli a nuova vita. In questa opera di liberazione, è tutta la tradizione e il nostro vero rapportarci ad essa.
La 67a edizione del Premio Letterario Internazionale Ceppo,diretto e presieduto dal poeta Paolo Fabrizio Iacuzzi,presidente onorario Giuliano Livi, prosegue a Pistoia con un ricco programma di eventi dal 20 aprile al 13 maggio, dopo le tre importanti anteprime che si sono svolte dal 25 gennaio al 10 marzo: Il Ceppo per le Giornate della Memoria, Il Ceppo per la Poesia e la Pace in Ucraina, Il Ceppo per Gadda.
“Un grande sforzo organizzativo, sostenuto dalla Fondazione Caript – dichiara Iacuzzi – che ha coinvolto finora oltre mille partecipanti tra Pistoia e Firenze. Il premio Ceppo e il suo Progetto educativo, è sostenuto da oltre cinquanta insegnanti che credono nella sua azione educativa per sviluppare le competenze di vita dei ragazzi. Quest’anno, grazie all’impegno dei giurati Filiberto Segatto(Ceppo Ragazzi Goldkorn e Ceppo Giovani Bolognini), Ilaria Tagliaferri (Ceppo Ragazzi Sarfatti), Matteo Moca (Ceppo Giovani Piccioni) che insieme a me col premio Ceppo Giovani Poesia in collaborazione anche con Annamaria Iacuzzi e Alessio Bertini di Pistoia Musei ha dato vita a laboratori di lettura fra letteratura per ragazzi e adulti, rivisitazione di grandi classici come Gadda e Svevo, incroci fra poesia, narrativa, arti figurative e cinematografiche, sviluppando negli studenti delle scuole primarie e secondarie di I e di II grado di Pistoia e di Firenze le capacità di analisi critica e di efficace sintesi dei contenuti, molto spesso mettendo in gioco le loro esperienze vissute”.
LE DUE TERNE FINALISTE PER LA POESIA
La Giuria della 67a edizione del Premio Letterario Internazionale Ceppo, dopo aver conferito a febbraio il Premio Ceppo Internazionale Poesia Piero Bigongiaria Ljudmyla Djadcenko – Premio Ceppo per la Pace e la Poesia –ha definito a aprile 2023 le terzine.
I finalisti del Premio Ceppo Poesia: Gabriel Del Sarto Sonetti bianchi(L’Arcolaio); Stefano Massari Macchine del diluvio (MC Edizioni); Luigia Sorrentino Piazzale senza nome (Samuele Editore).
I finalisti del Premio Ceppo Poesia Under 35: Francesco Brancati L’assedio della gioia (Le Lettere), Riccardo Innocenti Lacrime di babirussa (NEM); Eleonora Rimolo Prossimo e remoto (Pequod).
La selezione delle due terzine è avvenuta su una scelta di oltre 100 libri partecipanti, pubblicati da consolidate e giovani case editrici. Tutti i finalisti hanno scritto delle breviLecturesulle tre parole chiave della loro poesia, che verranno pubblicate sulla rivista on line SuccedeOggi media partner del Premio Ceppo.
La Giuria dei Giovani Lettori, che voterà in diretta le due terne, è composta da 23 membri, di cui la maggior parte è stata selezionata su cinquanta candidati degli Istituti secondari di II grado che hanno partecipato al Premio Ceppo Giovani Poesia Pistoia Musei per il miglior commento a una poesia dei sei vincitori. Tra i giurati degli enti sostenitori, in rappresentanza del Comune, ci sono Gabriele Sgueglia (assessore alle Politiche Giovanili) e Irene Bottacci (presidente Commissione Cultura).
PREMIO ALLA CARRIERA A VALERIO MAGRELLI
La Giuria Letteraria, presieduta da Iacuzzi, composta da Alberto Bertoni, Michele Bordoni,Martha Canfield, Giuliano Livi,Andrea Sirotti, Filiberto Segatto, Ilaria Tagliaferri e Gabrio Vitali ha inoltre deciso di assegnare il Premio Ceppo Pistoia Capitale della Poesia a Valerio Magrelli per l’intera sua carriera letteraria, che vince un premio offerto da Berni Store. Continua a leggere→
Rossella Or, attrice e poetessa, è stata protagonista dell’avanguardia teatrale romana degli anni ’70. Ha lavorato con Memè Perlini, Simone Carella, Giuliano Vasilicò, Giorgio Barberi Corsetti, Leo De Berardinis, Mario Prosperi, ottenendo un immediato e notevole successo, e ha successivamente iniziato una serie di lavori in proprio di rara intensità (con recupero della parola) di cui ha curato, anche, testo e regia.
Di lei scrisse il critico teatrale Nico Garrone: “Rossella, se venisse a patti con il galateo della rappresentazione, sarebbe una straordinaria Figliastra, o la delirante Contessa dei Giganti della Montagna. Ma ieri sera ci ha fatto pensare, o sognare, a qualcosa di più: ad un immaginario incontro nell’aldilà tra i fantasmi di Eleonora Duse e di Antonin Artaud.”
Nel 2000 è stata protagonista del film “Estate Romana” di Matteo Garrone (molto intensa una sua scena con Victor Cavallo), e ha recitato in “Regina Coeli”, diretta da Nico D’Alessandria. Si è sempre dedicata alla letteratura e alla poesia, ed ha pubblicato suoi testi sulle riviste Nuovi argomenti, Le voci della luna, Italian poetry, Inchiostri, Le reti di Dedalus.
Nel 2019 ha pubblicato il suo primo libro di poesie: “L’ACQUA TENDE ALLE RIVE – POESIE 2011-2017” per Editrice ZONA – Collana Rossocorpolingua a cura di Cetta Petrollo, con postafazione di Carlo Bordini, suo grande amico.
RECITAL DI VERSI IN CHIAVE DI SOL – Testi poetici editi e inediti, uno spettacolo di voce e corpo all’insegna della parola scritta e detta, nella forma in cui Rossella deciderà di rappresentarla sul palco. Erede di una tradizione teatrale storica, la sua poesia è tuttavia pura e per certi versi inesplorata. Chi può venga a sentirla e vederla. È un’esperienza! Continua a leggere→
Sfamalo pure come vuoi, il lupo volgerà sempre gli occhi al bosco.
M. Cvetaeva
I.
La poesia è lo spazio in cui la massima potenza analogica e visionaria diventa ritmo e senso.
La poesia ha sempre a che fare con una rivelazione – può essere un caos che per un istante si cristallizza in ordine, oppure il crollo netto, verticale e assoluto di un cosmo, può essere una morte che compie un destino o la disperazione della parola impossibile.
La rivelazione può passare per l’udito– si percepisce un ritmo che esige delle parole. Il poeta cerca versi capaci di restituire il ritmo essenziale che scandisce il battito cardiaco, il rumore delle onde o la musica delle sfere.
La rivelazione può passare per l’immagine che irrompe nella neutralità o dall’insignificanza di una miriade di altre. L’immagine cardinale di una poesia è una specie di sole che attrae altre immagini, facendole orbitare.
La versificazione è il tentativo di restituire un ritmo essenziale attraverso le parole che si scelgono per incarnarlo; è il tentativo di trovare corrispondenze e gerarchie tra un’immagine sovrana ed altre che si riconoscono consanguinee.
II.
La poesia è un’esposizione alla dismisura, al daimon, all’angoscia, all’entheos. Esposizione che implica una temperatura.
O il pathos greco, l’ardore vedico: la “mente accesa” vede disunito ciò che è in apparenza comune e riconosce il simile nell’estrema inimicizia. Queste sono le potenze che definiscono i poeti del fuoco.
Ma esistono anche poeti glaciali, guidati da una sublime e spesso disperata lucidità. Mallarmé chiedeva alla poesia la spiegazione orfica della terra: una spiegazione – uno sguardo definitivo e raggelato – sulla discesa nella morte, sul riconoscersi, sul destino.
III.
Mi sembra che la grande poesia infranga un interdetto percettivo.
Spinoza diceva che gli uomini possono solo concepire l’extensio (qualsiasi ente fisico) e la cogitatio (qualsiasi pensiero, immaginazione, sentimento). Le due realtà sono attributi dell’infinito: gli uomini non possono abitare che queste. Ma, continua Spinoza, ne esistono infinite altre. Infinite altre realtà che eccedono le possibilità percettive degli uomini.
Impossibile, per Spinoza, fare esperienza di qualcosa che oltrepassi lo spazio fisico e quello proiettivo della sfera psichico-mentale.
Ma la poesia è forse un terzo modo della percezione: il daimon, l’enteheos, la divina mania, l’archetipo, il nulla dell’angoscia sono realtà che eccedono sia la fisica della res extensa che le proiezioni della res cogitans.
Ne La teoria dei colori di Goethe c’è un’intuizione che mi ha sempre colpito: la luce crea l’occhio per vedere se stessa. Con la poesia accade qualcosa di simile: la poesia vede se stessa, si riconosce, solo attraverso singole opere. È come se alcune opere – e parlo dei capolavori della tradizione poetica – non fossero che l’estensione dei modi della percezione dell’infinito.
TESTI
Tradurre, innalzare
Porterò questo bicchiere di cenere
e un dizionario di pagine bianche
annegate nella luce fino a scomparire
e sarà la notte siberiana, la pietra grigia
della muta che caccia, il vento.
Mi dici che alla salvezza hai opposto
l’arteria di luce
e che non importa altro.
Hai aperto il dizionario e
le stelle grezze hanno spezzato
la dinastia del giorno,
da allora sei sangue nero e sempre.
***
Nella luce a strapiombo
il muscolo lacerato –
e io sono oltre
le onde cardiache del fuoco,
ben oltre la sinistra che ha
scritto nome e iride,
e indica il punto, nella pagina,
dove i diari impazziscono.
E la porta mi guarda:
la pupilla è la mia, mia
la notte salvata:
sta immobile e chiede tutto.
Questo falò, alla fine, sarà stato
e ne ricorderai ogni lingua,
perché non hai che questa.
***
I templi che furono abbandonati
ritornano innocenti
ritornano nelle rose
e per la mente, ma tu non dici:
scrivi sui petali, disperdi i nomi
e la creta: ora chiudi gli occhi, cuci le vene,
chiama l’addio;
chiama i coltelli e la luce
finché non saprai che questa è l’ora,
è solo questa,
e nessun grido per battesimo,
nessun battesimo nella vertigine:
benvenuto nella febbre del patto,
la caccia è iniziata.
***
Non abbiamo incontrato
che l’altra vita,
quella che ha scavalcato
la grandine che ferisce la rondine,
le sillabe e l’arca.
E ora è qui
nella resistenza della lampadina,
nel suo lampo raggelato
e miniato.
Gli elenchi sono bruciati,
non trattengo il respiro –
ho in mano un inizio.
***
Il risveglio e le tenebre furono
prodigi e asfodeli –
rue du Calvaire è cosparsa di sale
ora una puttana e il Sacro Cuore
invocano le tre di notte,
la primizia e l’azzurro slogato:
ho inventato le rughe e chiuso gli occhi,
ho reciso un nervo e evocato il nord,
ho gettato la sorte:
i magneti ronzano nell’oro del mosaico.
***
La stanza febbraio è ancora
la nuda correzione del fulmine –
possediamo il foglio che separa
il bianco dentro il bianco
ed è nostro anche se niente è nostro.
Abbiamo colpa e fuoco cardiaco –
e correremo. Abbiamo trattenuto il fiato:
una due dieci volte, una unica e solitaria
la notte– e respireremo:
sua è la stella ascetica.
***
Forse il latte o i simboli
forse in disparte la comune
notturna parola intesa
che infuria sotto la mente:
ti sei svegliato e hai sognato
e hai portato la notte fin dentro
le creature: chiedono una
pagina nell’invisibile
un sigillo spezzato di netto:
nessun prima, unico il dopo
e ora segmenti, gli occhi bene aperti,
le rivoluzioni, le figlie, le varianti.
***
È sempre il febbraio delle carte decifrate –
anche per un sasso che affonda nella neve
mentre tu ritorni dal lavoro e dal presente:
ma tutte le menti amate sono sconfitte e gloriose
perché, guardami, i cieli sono tutti scritti,
feriti a morte e ancora sacrificati, come soldati.
E dall’altra parte piove –
dovremo dividere pane e terra,
finché non saremo pane e terra.
***
Il diaspro che troverai
ha facce trafitte, tutte le direzioni
convergono ipnotiche
e in potenza: e ti chiedono –
ma tu hai una benda da strabico
e mentre l’irrazionale brucia il campo,
le sterpaglie, già vedi la terra atra,
lo specchio dell’eclisse che resta –
eppure la storia è la sezione
e noi, cuore siderale, la verticale. Continua a leggere→
Un’anticipazione dalla raccolta inedita Aspettiamo la mezzanotte
Alessandro Moscè foto di proprietà dell’autore
Qui c’è aria di aldilà,
di più non so dire.
Qui sembra tutto finito
e se mi dicessero
che il vento è il mio fiato
ci crederei stringendomi a me
per l’ultima volta.
Invece domani mi sveglierò
alla solita ora
da questa morte provvisoria
che viene a parlarmi
di notte, quando si annoia.
E’ discreta, non mi chiede
di seguirla nel crepuscolo cinereo,
sa bene che si nasce e si muore
più volte senza scongiuri,
fino all’alba.
La morte entra ed esce da me,
mi acquieta, non ne ho paura
***
L’insegna del benzinaio spenta,
l’aria che si profilava sopra le pompe automatiche
per noi familiari in processione, quasi addormentati
tra i palazzi ocra del rione,
camminatori da vivi e da morti,
riconosciuti nelle aperture dell’orizzonte
appena coperte dai cortili con le panche,
dalle luci basse e palpitanti
di un’ora stanca,
in una via traversa di Fabriano o di Ancona,
trascinati in un aldilà di arazzi,
come fossimo nelle strade marchigiane
tra chi cambia l’olio e i filtri alle utilitarie
nelle stazioni di servizio fuori dal mondo
***
L’acqua guizza nella bottiglia,
nei bicchieri da viaggio rovesciati
sotto questo manto di cielo sporco
che assembla i vagoni del treno,
le poltroncine dove rimangono
le borse con la chiusura a zip
per le unghie laccate delle signore.
Il riflusso di istantanee
scandisce minuti e ore,
un conto lento nella tratta,
esiliato dai finestrini.
Ogni coscienza è un destino,
una distrazione e un dolore
di vite senza fuoco:
è questa la stagione rapida sui valichi
che sovrasta ogni uliveto umbro
e un grumo di ossessioni risucchiate.
Ma se lei si alza non smette di salvare gli occhi
nei fianchi arrotondati
all’altezza del taglio della camicia,
nel movimento che oscura il sacerdote.
Non rispondere mai, amore,
e non smettere di pregare per te
***
Un bracciale di pelle corre lungo la schiena,
in un tonfo di parole
per chi agita i passi tra i corridoi lucidi
e indossa il camice nel battere fiacco delle ore,
nel dramma della notte di un reparto
quando le corsie vacillano di voci tronche,
di volti rimossi dal male,
abitatori di un soffitto e niente più.
Ma i tuoi capelli si annidano nella catenina,
risalgono dai riflessi violacei dei vetri
e sconfinano nel collo ombrato.
Sotto quel camice c’è sempre una stella invisibile,
un sorriso castano e un viaggio lontano,
l’uscita serale quando cade la pioggia
che bacia il freddo,
alleato invincibile prima del sonno e dopo l’amore,
quando non ci si parla per cinque minuti
e i cellulari rimangono spenti
dentro la borsa e nella tasca,
nella mezzanotte della domenica degli stadi Continua a leggere→