Milo De Angelis, Video-Intervista

Milo De Angelis: L’imperativo categorico e l’infinito presente

di Luigia Sorrentino

Ho conosciuto Milo De Angelis in occasione di una lettura di poesie a Ortona nel 1986. Fu in quel contesto che De Angelis mi mise di fronte alla sua poesia, regalandomi la prima edizione di Somiglianze del 1976 e Millimetri del 1983. I suoi versi mi colpirono per la solennità e la compiutezza della voce con la quale il poeta anticipava un sapere sconvolgente che pochi riuscivano a percepire. Dopo quel primo incontro andai più volte a Milano, la città dove il poeta tuttora vive, per rivedere De Angelis. Ricordo i lunghi pomeriggi trascorsi nella casa di via Rosales a parlare di poesia. Fu in uno di quegli incontri che il poeta divertendosi a giocare con la radice del mio cognome disse: “lo sai cosa significa sorren in tedesco?”. E poi aggiunse: “Significa approdo“.
Recentemente ho appreso che  la parola sorren non è più di uso comune In Germania. Grazie all’intermediazione di Soledad Ugolinelli, nel Goethe Institute di Roma che ha consultato il dizionario della lingua tedesca dei Fratelli Grimm, edito nel 1854, è venuto fuori che sorren significava letteralmente “legare saldamente con una fune”, un termine che si usava, in particolare, per indicare il modo in cui i barili dovevano essere legati nella stiva a bordo di una nave, onde evitare che si perdessero durante un viaggio.
Scopro oggi che De Angelis aveva utilizzato la radice del mio cognome, sorren, per dare forza al legame che si era instaurato fra noi. Saldamente legati durante il viaggio. L’approdo, altro non era, metaforicamente, che il luogo della poesia.

 

T. S.

I
Ognuno di voi avrà sentito
il morbido sonno, il vortice dolcissimo
che si adagia sul letto
e poi l’albero, la scorza, l’alga
gli occhi non resistono
e i flaconi non sono più minacciosi
nella luce chiaroscura del pomeriggio
mentre mille animali
circondano la lettiga, frenano gli infermieri
il disastro del respiro sempre più assopito
nei vetri zigrinati
dell’autombulanza, appare
il davanzale di un piano, il tempo
che sprigiona i vivi
e li fa correre con la corrente nelle pupille,
l’attimo dell’offerta, per scintillarle.
E improvvisa, la quiete
della vigna e del pozzo, con la pietra levigata
dividendo la carne
una calma sprofondata dentro il grano
mentre la donna sul prato partorisce
sempre più lentamente,
finché il figlio ritorna nella fecondazione
e prima ancora, nel bacio e nel chiarore
di una camera, il grande specchio,
il desiderio che nasce, il gesto.

II
E poi avrete sentito, almeno una volta
quando il liquido, delicatissimo,
esce dalla bocca, scorre giallo nel lavandino
e la sonda e le sirene sempre più lontane.
Il respiro si affanna, finisce, riprende
quanta pace nella spiaggia gelata dal temporale:
una canoa va verso l’isola corallina
e sotto l’oceano si accoppiano le cellule sessuali
non ci sono eventi irreparabili
ma solo le spugne cicliche,
gli insetti che hanno coperto l’aria:
ecco un colore di madreperla, una roccia nella sabbia,
l’accappatoio che toglie con un solo gesto
solennità della luce, la meraviglia, la prima
e la femmina del pellicano
chiama la nidiata sparsa nella tempesta
e forse vede qualcosa, tra gli scogli,
qualcosa che si muove
domani correrà con i suoi bambini
mescolata, per respirare
nel turchese profondo della marea
che sale in superficie, sta rinascendo adesso
e trova una terra diversa, un’altra voce.

Intervista a Milo De Angelis
di Luigia Sorrentino
Milano, Vita Bovisasca, 85
23 dicembre 2006

 

De Angelis, quando si viene toccati dalla poesia? Quando la poesia si chiama?

“si viene toccati dalla poesia quando sentiamo che è una via obbligatoria e tutte le altre vie ci sembrano un’evasione… Sì, un’evasione da ciò che è essenziale,  dalla parola che è più antica in noi e che il tempo ha reso un destino. Una parola non ritrattabile, una parola d’onore, una parola depositata da sempre, a cui dobbiamo a tutti costi dare un nome. Dare la parola dice bene di questa fedeltà alla promessa poetica.e questo lo sentiamo già poeticamente, con quella forza imperativa con quella voce da ultimatum che è propria del verso”.

Somiglianze, pubblicato nel 1976, trent’anni fa, è la prima raccolta di versi di Milo De Angelis, nella quale ricorrono tematiche forti, legate al mito dell’infanzia e dell’adolescenza. Una poesia in cui il presente diviene l’imperativo categorico della parola poetica: “Se ti togliamo ciò che non è tuo/ non ti rimane niente.” Il verso è tratto da la poesia che s’intitola L’idea centrale. Un verso forte, imperativo e categorico. 

“L’imperativo è il tempo e il modo della poesia. È un imperativo in cui lettore deve entrare, deve sentire che quel verso è un grido… Grido di soccorso, di gioia, di stupore, di rabbia, di memoria, di dolore. Un grido comunque che ci chiama, e che è rivolto a noi, proprio a noi… e dobbiamo ascoltarlo, a tutti i costi. La poesia porta in sé l’ultima volta. L’ultima cena, la razza estinta, l’estrema unzione, qualcosa che ci chiama con violenza a essere presenti, ci avverte che non ci saranno repliche, perché è un atto unico”.

 

Somiglianze:  l’imperativo categorico e l’infinito presente. Su queste caratteristiche si fonda la tua poesia, una poesia che diventa fin dagli anni Settanta, il punto di riferimento di un’intera generazione.
Cosa ricordi di quegli anni? Quali erano le tue frequentazioni?

“Allora vivevo, come tu ricorderai dalle foto, senza mangiare, senza dormire… Qualche supplenza, due michette al giorno, E soprattutto, con la compagnia continua, incessante, senza tregua, della poesia… Sempre lei, la benedetta sposa, la fedelissima che non ammetteva avventure o distrazioni… Cercavo dei poeti, dovunque.cercavo quotidianamente e per sempre dei poeti, anche dei maestri. Ma i maestri non erano solo i poeti importanti… Non erano solo Mario Luzi o Giorgio Colli… C’era una miriade di amici… Amici di una settimana o di un mese, compagni di scuola, di strada o di squadra… Il ragazzo più grande di me di pochi anni, che però aveva già letto Eliot o Celine, e me ne parlava nell’intervallo di una partita… un dialogo fitto all’uscita di una libreria… Un’intesa di pochi minuti… Figure che non formano un disegno compiuto, che non hanno fatto nemmeno in tempo a diventare un’amicizia, ma hanno gettato comunque i loro semi di una figura incompiuta che ancora adesso continuiamo a disegnare. D’altra parte si impara così, nel gioco in completo degli eventi, si impara alla ventura e alla rinfusa, in ordine sparso.”

A proposito del titolo, Somiglianze, perché? Uno potrebbe dire “soma” e quindi “parentele”, “rapporti parentali”. Oppure potrebbe dire: “Ciò che vedo è somigliante alla realtà, ma appartiene a un altro immaginario, qualcosa che ancora non so descrivere pienamente, la voce alla scoperta della voce”, o qualcosa del genere… Cosa mi dici di questo titolo?

“Cercavo il mio simile, cercavo il mio simile! Lo cercavo disperatamente e senza tregua, lo cercavo in modo assoluto e quotidiano, per sempre e ogni giorno. Lo cercavo ancor più drammaticamente in quegli anni Settanta in cui un’intera generazione – la mia – aveva creduto alla politica come soluzione di tutti I problemi… cercavo il mio simile… Cercavo i poeti senza appoggio e senza protezione, che pure esistevano, ma erano dei solitari, dispersi tra le correnti di pensiero del tempo: quelle della militanza senza mezzi termini, oppure dei viaggi in India e delle armonie orientali… Tutto il mondo, sia l’uno sia l’altro, che sentivo estraneo a me, per formazione, e senza e destino, ed ero anche convinto che ci fosse – e c’era – un terzo luogo, nascosto dagli slogan e dalle chitarre, vivo e operante nell’ombra e nell’esilio.  Ed è a questa zona d’ombra che si rivolge Somiglianze, a questa parte della mia generazione che ha vissuto in luoghi solitari e innamorati, che ha sentito nei contrasti del proprio tempo, un altro tempo che non è il proprio. Ma è un titolo che non ha solo una radice biografica e di generazione. Tutto questo libro è attraversato dal demone dell’analogia, dalla furia di mettere in contatto zone dell’essere che sembravano estranee. D’altronde la poesia è questo… trovare un nesso estraneo tra figure che parevano lontane e che ora, nel guizzo di un verso riuscito, rivelano la loro parentela, il peso delle loro remote somiglianze, appunto, delle somiglianze che già esistevano e lavoravano nel sottosuolo”.

Lacan è stato molto presente nella tua vita in quegli anni. Che cosa rappresenta per te?

“Lacan nel suo magistero tragico e solitario, è stato molto presente. Mi ricordo certi suoi aforismi: “I morti non solo tacciono, ma non cessano di non parlare”, mi colpivano molto e in qualche modo si sono inseriti, anche lessicalmente, nel tessuto di Somiglianze“.

 

La seconda raccolta, Millimetri, invece, compare dopo sette anni, nel 1983. Una poesia verticale, scheletrica, in cui ogni parola occupa uno spazio, millimetrico, appunto. Quando la scrittura diviene verticale?

“Quando è l’unica possibile, quando si è chiamati a dire la parola che è in noi più antica e che poi il tempo arreso un destino. Quando non abbiamo altra via di espressione, quando quella diviene una via obbligata e possiamo trovare solo lì la forma per dirla”.

Dopo Millimetri Milo De Angelis avuto il timore di non riuscire più a scrivere poesie…

“Sì, con Millimetri, in particolare, negli anni tra il 1980 e il 1983, tutto precipita in verticale, come dici tu, cade a picco, tutto si asciuga fino a spolparsi… Tu mi hai conosciuto allora, lo ricorderai… Ero un essere senza corpo, un fascio di energia e di tensione… Le notti in bianco… di quegli anni, gli anni in cui ci siamo conosciuti…  Ricordo l’insonnia che era entrata in ogni mia cellula… Il giorno… Il giorno non dava più i frutti che la notte a preparato… C’era come una frattura, che aveva spaccato il ritmo… Ogni giorno era di troppo tempo… Era una veglia, perenne di estinzione sterminata, un corpo a corpo con la parola… E poi l’ ossessione dell’algebra, gli anni in cui ci siamo conosciuti, ricordo l’insonnia che era entrata in ogni mia cellula… Il giorno… Il giorno non dava più i frutti che la notte ha preparato… C’era come una frattura, che aveva spaccato il ritmo… Ogni giorno era di troppo tempo… Era una veglia, perenne di estensione sterminata, un corpo a corpo con la parola… E poi l’ossessione dell’algebra… Andavo in giro con un quaderno pieno di numeri… È stato il mio tributo all’ascesi… Una dimensione che prima non era mia e non lo sarà dopo… Proprio così il mio tributo all’ascesi… Ero stremato ogni volta dalla lotta che nasceva tra me e la poesia… Questo scavo a picco nel cuore delle parole… Poche parole in fondo… Cento varianti… Millimetri è un libro di trenta pagine… Ma quelle parole ridotte è un grumo che doveva contenere tutto, sì, un segmento in cui si addensavano esperienze di anni… Tutto era irto, scosceso… Tutto era pronto a esplodere o a morire”. 

Quindi possiamo dire che Millimetri è il libro che ha conosciuto le varianti maggiori della tua poesia?

“Sì, sicuramente quelle ventotto poesie del libro sono state divorate dalla variante, da un’idea di perfezione assoluta che mi sbranava.”

Che cos’è la variante per un poeta? 

“La variante è un tendersi dell’udito a una dettatura, quella prima voce ascoltata che uno vuole mettere a fuoco nelle sue minime sfumature, nelle sue sillabe, nei suoi dettagli, quindi non è un esperimento la variante, anzi è un ritorno a un’origine ancor più nettamente percepita. Una fedeltà alla prima dittatura, alla prima parola scandita, che forse allora non avevamo ascoltato con la necessaria e millimetrica finezza e che ora ritorna e che ci chiede di essere messa a punto”.

Prima di Millimetri hai sperimentato la prosa con La corsa dei mantelli, pubblicato nel 1979. Una leggenda narrata da molte voci, ma tutte legate una figura di donna, quasi mitologica: Daina. Chi è Daina?

“Daina È una fanciulla che gioca con i maschi, corre, salta, combatte, fa interamente parte della banda, della dimensione agonistica, della gloria, del trofeo… Però è anche femminile, porta in sé un mondo arcano e gioioso… È lì con noi, nelle nostre gare nelle nostre battaglie… E figlia di Artemide, e non di Venere. È una guerriera coraggiosa, ma ha anche un segreto, quello del suo seno adolescente e di certe improvvise dolcezze. È veloce, briosa, imprendibile.è estranea alla vita quotidiana… In lei solo guizzi, scatti, accensioni, attimi brucianti e scomparsi improvvise. È bella come un’estasi. Devo trovarla prima o poi. Ogni tanto la intravedo in qualche tennista o in qualche bella judoka. Elena Dementieva o Ylenia Scapin che però sono pallide imitazioni dello splendore di Daina. È stupenda Daina, è una ragazza della Via Pal… una con cui si può fare la lotta… Devo trovarla… e prima o poi la troverò. Daina… è lei la donna della mia vita!”

Il saggio Poesia e destino arriva invece nel 1982. Già il titolo richiama la tradizione. Quale stato il tuo rapporto con la cultura greca classica?

“Gli antichi gli ho sentiti e li sento tra noi. ‘Ci parlano –  diceva Lacan – e anche quando tacciono non si limitano a tacere’. Gli antichi ci mandano un monito e ci dicono che la tradizione è stata interrotta e dobbiamo riprenderla. Una traduzione, anche, è stata interrotta. Dobbiamo tradurre i poeti antichi che abbiamo amato. È un dovere essenziale non meno che scrivere i nostri versi perché loro respirano solo lì, non hanno altra via per essere traghettati da una sponda all’altra dei secoli.  Devono venire tra noi attraverso la nostra sensibilità, la nostra lingua attuale che non può essere quella arcaica di tante traduzioni. La loro lingua deve essere innestata nel vivo della parola di oggi”.

Poesia e destino, un titolo evocativo per quello che tu stesso hai definito ‘un diario di guerra: parole furiose, caratterizzate dal contrasto, dall’aspirazione all’epica.’ Cosa cercavi con questo libro?

Poesia e destino è un libro anch’esso ferito. È drammaticamente teso a una parola concentrata, seppure saggistica, con la stessa forza metaforica di quella poetica. È un diario in cui sempre si affacciavano immagini di guerra, di trincea, di notti passate nei rifugi, il senso dell’allarme, i bengala, le granate, le bombe armate che stanno per scoppiare. Un libro in cui il senso del pericolo è stato presente e vivo”.

Con Terra del viso del 1985, la voce si distende, circa un interlocutore come accade nelle poesie in cui tenti di ristabilire un colloquio con il padre. Chi è il padre per te? 

“Il padre è il luogo dell’evidenza. Essendo colui che scrive le tavole della legge, può essere obbedito o rinnegato. Le sue parole sono lì, scolpite sulla pietra. Si può accettarle o rifiutarle. Però il suo insegnamento è chiaro, fa parte della comunità, i suoi beni e le sue condanne sono patrimonio comune. Le sue difese sono fatte in nome della legge e anche le sue accuse sono quelle di un pubblico ministero. È chiaro il profilo del suo volto, il suo amore e la sua collera, è chiaro il profilo della sua mano che indica la strada. Poi, il padre, se uno non ce l’ha in famiglia, è meglio così. Ma se non ce l’abbiamo, non tutto è perduto. Possiamo trovarlo altrove, nei maestri, che spesso hanno una voce altrettanto benefica e definitiva di quella del padre. Ma se non ce l’abbiamo e non vogliamo trovarlo altrove, allora inizia qualcosa di torbido, si delinea un luogo che nel tempo può diventare criminale, possiamo inventarci a nostro piacimento la legge che non abbiamo ricevuto e il crimine in cui incarnarla e incarnarsi. Quanti ne ho conosciuti in carcere, ogni giorno, uomini e donne senza magistero”. 

Tu insegni Lettere nel carcere di Opera a Milano, un carcere di massima sicurezza. Percorrendo quel varco, entrando nelle celle dei detenuti, nel rigore, nell’ordine prestabilito, nella regola, vai verso la poesia? 

“Il carcere è un luogo di massima sorveglianza, e quindi già questa definizione lo avvicina alla poesia. Una cella, se tu l’hai vista, ricorderai che sono pochi metri quadrati da dividere con un’altra persona. Basta spostare uno sgabello, una sedia, una lampadina, per fare il caos come avviene in un testo poetico dove se togli un aggettivo rompi un ordine faticosamente raggiunto per tentativi e tentativi, quindi c’è immediatamente una parentela con la poesia. Poi il carcere è un luogo di trauma, di memoria, di redenzione, e anche un luogo di desideri fondamentali, di desideri ridotti all’essenziale, quindi è un luogo di sottrazione, e per questo è un luogo poetico. È comunque un luogo dove la poesia può gettare i suoi semi. Poi, come mi dicevi, la poesia è una disciplina, è un luogo dove si ottiene il massimo della libertà, un estremo di libertà, attraverso un estremo di legge, di rigore, di perimetro. E i detenuti sono un po’ così, hanno vissuto un tempo senza disciplina, un tempo… una specie di eterno presente, tra una rapina e un’altra, spesso, e quindi, un tempo senza fine o una fine, ed è bene mostrare questo percorso di rigore. E a loro volta i poeti sono un po’ come i detenuti in attesa di giudizio, dentro il perimetro del testo… quindi conoscono bene questo verdetto della parola che pende su di loro”.

Recentemente ti ho sentito dire che finalmente hai trovato nel carcere un vero poeta. Chi è questo poeta?

“Si chiama Vladimiro Cislaghi. È stata una delle scoperte più belle inattese della mia vita di insegnante. Uno di quegli alunni che da soli danno il senso a tutta una vita trascorsa in classe. La poesia era già in lui quando l’ho incontrato… me ne sono accorto subito. Vladimiro era più vulnerabile al giudizio delle parole. Sentiva che il loro verdetto era potente, ma non riusciva ancora a coglierlo in pieno. Le parole stavano lì in un luogo nascosto, in attesa di essere svelate. Poi la rivelazione è avvenuta e ne siamo stati felici entrambi. Ora è qui Vladimiro nelle pagine di un libro appena uscito,  Madre e baratro, che sono orgoglioso di avere nella mia piccola collana di poesia”.

Quale delitto ha compiuto Vladimiro?

“Non lo so, e in genere non siamo tenuti a sapere ciò che è accaduto nella vita dei detenuti. Magari emerge per volontà loro in qualche frammento di tema, in qualche spezzone di dialogo, però rimane sullo sfondo e quello che conta è l’attimo presente dell’insegnamento. So che è una lunga pena, che Vladimiro uscirà dal carcere nel 2026. E’ nato nel 1976 e non sarà più un ragazzo quando uscirà”.

Nel 1986 esce Distante un padre che ripone al centro della tua opera la figura del padre. Nell’ultima sezione di questa raccolta tu parli in dialetto monferrino, il dialetto parlato da tua madre. Il ritorno a un dialetto di confine, privo di tradizione letteraria, che cosa ha rappresentato per te?

“Il dialetto che c’è nell’ultima sezione di Distante un padre è un segmento improseguibile.
È un po’ quello che in precedenza era stato Millimetri: un tributo alla mia vita ascetica. Questo è un tributo anche esso, e non ci sarà una replica. Però dovevo passare da lì, attraverso il dialetto, perché solo in quella lingua povera, orale, immediata, mi era possibile dire alcune cose, raggiungendo quella semplicità che altrove non potevo sfiorare. E poi il dialetto monferrino, come dici, è un dialetto nudo, senza una tradizione letteraria. Sono le leggende, i canti, i balli, gli eventi biografici che mi raccontava mia madre. E adesso, sia quella parte impenetrabile di Millimetri, sia questa, più cantabile, quasi melodica in certi momenti, hanno trovato un intreccio, una fusione negli ultimi miei due libri: Biografia sommaria e Tema dell’addio“.

Il tema del ritorno ritorna anche nei tuoi due ultimi libri: Biografia sommaria del 1999 e Tema dell’addio del 2005. Recuperando il grembo della madre il poeta trova la parola vera, il vero nome?

“Il tema del ritorno è stato sempre vivo in me e acceso, è vero che nei miei ultimi due libri diventa il centro, proprio il centro della mia poesia. I luoghi ci chiamano, i luoghi amati, in cui siamo entrati una volta con amore, si chiamano continuamente. Si rivolgono a noi, ci fanno gesti, sono come delle donne, ci dicono di venire lì, e noi andiamo, per forza. E quando siamo lì, si tratta solo di chiamarli con il loro nome. Ancora prima di esprimere qualcosa, la poesia, credo, si preoccupi di questo di chiamarla con il giusto nome, con il nome che magari è sepolto sotto miriadi di nomi convenzionali e di maniera, ma che c’è, è lì, e brilla e ci convoca a dirlo”.

Questo è il vero nodo della poesia? Chiamare le cose con il loro nome?

“Sì, è così. Nell’ultimo libro, Tema dell’addio, È ancora più netta questa percezione del richiamo veridico delle cose. Se abbiamo amato un luogo il legame in noi non si spezza: la prima volta in cui vi entriamo, c’è una promessa di ritorno che nessun evento successivo può incrinare.

Quando un cortile, un portone, una strada mi chiamano, il richiamo è subito irresistibile ma è ancora oscuro. So che devo metterlo a fuoco e che ci vorranno numerose prove, numerosi tentativi, numerose forme del ritorno. Questo ritorno assume dunque, il carattere di un rito e, insieme, di una lenta, ripetuta esplorazione, come quella di certi romanzieri del Naturalismo che usavano nominare un quartiere solo dopo avere riempito di appunti il loro quaderno.

A me è successo in Tema dell’addio di essere stato chiamato tante volte da un quartiere di Milano, vicino Parco Lambro, da un insieme di vie. Dovevo andare lì ad accertarmi quale era la via che davvero e con più forza mi aveva convocato a sé. Ed era via Crescenzago, certamente e me ne sono accorto una sera di luglio. ‘Era meglio un nome più breve – le dissi sorridendo – era meglio via Feltre o via Mestre, che sono lì, a due passi e che non occupano un intero quinario’. Ma era via Crescenzago, la via scalcinata che costeggia il parco Lambro: lì era avvenuto qualcosa di decisivo, tanti anni prima.così ho cominciato ad andarci 23 volte la settimana, di mattino di pomeriggio e soprattutto di notte. Ci siamo riconosciuti subito e poi il legame si è fatto sempre più forte. A un certo punto la strada era pronta a entrare nel libro, era pronta a rivelarmi i suoi segreti, a rivelare qualcosa di me che ignoravo, sensazioni latenti che quell’antico episodio aveva custodito per decenni. Credo che significhi questo la frase di Jünger:  ‘Posso conoscere soltanto ciò che mi ha già conosciuto’.

La ricerca del vero nome nasce, dunque, davvero dalla necessità di trovare qualcosa che è andato perduto?

“Così perduto che diventa imminente. Così remoto che sta lì, ad aspettare drammaticamente che noi lo pronunciamo. Sono incontri cruciali.nell’attimo stesso in cui varchiamo la soglia di un luogo amato sappiamo di fondare la via di un ritorno, di un eterno ritorno lì dove siamo stati toccati e dove siamo stati battezzati e a nostra volta dobbiamo dare un battesimo a questi frammenti.”

Cito da Biografia sommaria una poesia, Semifinale: “Eminem excipi diem: per nessun giorno ho fatto eccezione. / Morire è dunque perdere anche la morte, infinito/ presente, nessun appello, nessuna musica/ di una chiamata personale. Oltre le vene che furono rito/ e dimora, milligrammo e annuncio, grido infinito/
di gioia o di soccorso, nessuno mai/ oltre queste vene. E’ semplice, ragazzi, nessuno”.

“Sì. Questa poesia ha anche un’occasione biografica, se posso accennarla… di un supplente che al liceo Parini era venuto per alcuni giorni. Un supplente di latino e greco che però ci diceva delle cose poetiche drammaticamente vive con delle esperienze di droghe  che qui si intuiscono. E un giorno, tanti anni dopo, la voce del ragazzo della Doxa che per un sondaggio elettorale mi telefona… e sento che è la stessa voce di quell’antico supplente e così, sbalordito, inizio a scrivere questa poesia che rievoca il professore D’amato. Si rivolgeva a noi con la sua fissazione e ci diceva: ‘Nessuno ragazzi, nessuno’ lo ripeteva come un tragico ritornello, ‘Non c’è nessuno oltre le vene’ “.

C’è una poesia in Biografia sommaria che si intitola Donatella, una poesia che richiama il gesto atletico. Donatella è una velocista, una saltatrice, una vera campionessa. Che cosa rappresenta per te questa poesia? 

“In ogni mio libro ci sono queste figure di donne in corsa, spesso adolescenti, figlie di Atlanta, colte al volo, nella bellezza del gesto atletico. Donatella è un’amazzone ferita, una campionessa che, passata la stagione delle gare dei trionfi, viene sorpresa da un’altra età in cui non riesce più a entrare. Mi succedeva di vedere, quando facevo atletica, queste ragazze spartane, che si davano completamente al gesto atletico ed esistevano solo lì, nella luce del loro salto o della loro falcata. Per il resto erano ragazze qualsiasi, creature di tutti i giorni. Ma in quegli ottanta metri, in quei dieci secondi, erano divine. ‘[…] e capiranno che la luce / non viene dai faro o da una stella, ma dalla corsa / puntata al filo, viene da lei, la Donatella’ “.

In tutte le tue poesie è forte la presenza di Milano e delle sue periferie. Perché questo correre verso l’estremo, questo allontanarsi dal centro della città?

“La periferia a Milano in particolare, è un mondo. Non è solo periferia di qualcosa, cioè periferia rispetto a un centro, ma è un mondo con le sue tradizioni, le sue voci, i suoi colori, i suoi stili… Se tu pensi a una periferia come questa, la Bovisa, È una periferia storica, ma poi c’è una periferia sperimentale come QT8, [n.d.r. acronimo di Quartiere Triennale 8, è un quartiere di Milano, appartenente al Municipio 8] una periferia smembrata e diffusa, quella delle grandi multi sale, San Leonardo, quindi molti stili e molte vicende nella periferia. E la periferia storicamente a Milano è stata importante come e più del centro, la Breda, la Falck, la Marelli, la fiera, le case editrici, non sono meno importanti nella cultura milanese di Piazza della Scala, o di Piazza Cordusio da una parte. Poi, dall’altra, la periferia è un emblema della giovinezza, perché i primi campi di calcio sono nati lì, le prime palestre, in cui abbiamo gareggiato, le prime piscine in cui ci siamo spogliati sono lì, e poi le prime supplenze, anche un po’ più avanti, sono state fatte in periferia, quindi la periferia è un emblema di ciò che inizia, del debutto nella vita”.

Parliamo ora di Giovanna Sicari. Giovanna era una poetessa, ed era anche tua moglie. Purtroppo è scomparsa prematuramente…

“Giovanna era la luce e era il sorriso… oh, il sorriso di Giovanna! Il suo eterno sorriso! Quando appariva negli occhi, il mondo stesso rideva con lei! Giovanna era una vera poetessa, una che sulla poesia aveva puntato la sua vita e alla poesia chiedeva tutto.Era una donna ispirata. Respirava nella poesia. E i suoi poeti li amava come si ama uno sposo, portandoli sempre con sé, intrecciandoli ai gesti più quotidiani, lasciandoli entrare nella sua ispirazione che era potente, da Sibilla, da posseduta. Si sedeva al suo tavolo davanti al suo quaderno e si lasciava invadere da parole che non erano le sue consuete, che le giungevano da qualche zona arcana dell’essere e del cosmo, che le giungevano solo in quel momento, nell’atto poetico, in quel gesto, in quell’incontro della biro con il foglio, che metteva in moto un incontro più vasto tra lei e un mondo fino ad allora sconosciuto”.

Tema dell’addio. Non abbiamo ancora detto che questo libro, dedicato a Giovanna Sicari, vince il Premio Viareggio nel 2005. Qui il poeta si inabissa nella morte. Elia Malagò presentando Tema dell’addio al Festival di Mantova ha detto: ‘Questo è il libro del respiro, del pneuma… Quel tempo della vita, diviene tempo della morte.’

In tema dell’addio la morte mi ha chiesto di parlare. La morte che aveva fatto incursione così violenta, che aveva ucciso una creatura amata e uccidendo una creatura amata ha ferito anche il resto del mondo. Quelle parole dicevano che la morte è uscita dalla sua tana, che la belva si è liberata, ha fatto un’incursione nel mondo, a ucciso, e avendo ucciso un essere amato, ha lasciato un segno in tutti gli esseri e in tutti i luoghi. Per non esserne sopraffatti occorreva scriverla. E così è stato. Quel libro ha cambiato la morte. Ne è stato divorato e l’ha cambiata. Ora la morte a una voce diversa. A volte riappare, è vero, riappare e magari fa male con un ricordo improvviso. Però essenzialmente ha assunto un’altraimmagine. È la distanza finita tra me e lei – un segmento! E questa distanza da una parte ci divide, ma dall’altra ci consente di non essere interamente separati, ci permette uno sguardo dal ponte: struggente, pieno di nostalgia, ma pur sempre uno sguardo. È un filo spinato, un filo ad alta tensione: non bisogna avvicinarsi troppo, non bisogna toccarlo. Occorre amare Giovanna in questa distanza. … Ti racconto, a questo proposito, un episodio che forse mette a fuoco ciò che sto dicendo. Alcuni mesi fa, in giugno, alla fine di giugno di quest’anno, sono passato in autobus, l’autobus 57 davanti a villa Schleiber, che era una villa dove spesso andavamo con Giovanna e Daniele, nostro figlio, a giocare a pallone. Nel traffico l’autobus si ferma proprio davanti a un bar, un bar anni Cinquanta, un po’ neorealista che piaceva molto a Giovanna, ed è lì Giovanna! La vedo lì! Era Giovanna, senza dubbio, era lei, con quel vestito bianco e azzurro, con quel modo di tenere la tazzina di caffè e di bere… La chiamo, si volta, ed è proprio lei che canta una canzone tra le sue preferite… ‘Soltanto il tempo di un caffè … soltanto il tempo di un caffè…’ . La guardo ancora con un’emozione infinita… siamo vicini… la fermata del 57 è proprio lì. Le dico: ‘Giovanna, adesso scendo’. Lei mi sorride con quell’infinito sorriso e mi dice: ‘No, resta sull’autobus, tornerò ancora… non temere, tornerò. Ma tu resta… resta… non scendere… non voltarti… no… non devi voltarti…’ “.

E’ accaduto a fine giugno del 2006, sull’autobus 57… 57 sono le poesie di Tema dell’addio, un numero prediletto. E questo autobus lo prendevamo insieme, lo abbiamo preso tante volte per andare a giocare con Daniele. Lì c’è stata questa apparizione che certamente si lega al mito di Orfeo, si lega al voltarsi, al perdere l’oggetto amato, ma si lega anche a questo filo spinato, a questa barriera invalicabile tra i vivi e i morti”.

Ma allora è proprio una poesia orfica la tua come alcuni critici hanno detto!

“Diciamo che qui sicuramente è stato uno sguardo orfico, uno sguardo sapiente e quello che mi ha impedito di avvicinarmi a Giovanna e quindi di perderla. Poi la poesia orfica e forse Rilke, e forse Campana…  è un altro mondo espressivo… Ci sono dei segmenti improvvisamente orfici che si aprono anche in una poesia metropolitana e moderna come la mia”.

 

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