Lettera di Gabriella Sica a Francesco Dalessandro su L’Osservatorio, di Francesco Dalessandro, Moretti & Vitali (2011).
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Caro Francesco,
sei sempre stato una figura discreta del paesaggio romano poetico, più appartato di altri appartati, o comunque tale sei apparso a me nel corso di anni e ormai decenni. Hai fatto parte di una rivista romana, “Arsenale”, coeva a “Prato pagano”, ma senza che ci siano stati scambi o reciproci sconfinamenti, chissà perché: semplicemente un altro spicchio di quella Roma dei primi anni Ottanta così ricca e feconda. Su questa rivista, convergevano Gianfranco Palmery e la rimpianta Giovanna Sicari e devono essere stati anche per te anni memorabili. E gli amici di “Prato pagano” sono stati anche i tuoi e pure tua è stata la rinnovata fiducia nella poesia. Ma sei sempre stato una figura appartata.
E ora mi fai una vera sorpresa, ora spunti con questo bel libro, una pianta davvero rigogliosa e verde, che in realtà deve essere spuntata anche in altre stagioni, ma io non me ne ero accorta. Ha un bel passo il tuo “osservatorio”, non sta solo fermo a guardare – e in verità guarda attento quello che si trova intorno – ma cammina e molto, con i passi felpati, continui, instancabili dei tuoi versi che scivolano uno sull’altro come le ore e i giorni della vita, con le possenti e amabili inarcature che stringono le minuzie del giorno. Scorre senza pausa il Tevere e scorre la vita nella tua dolce Roma ai tepori delle stagioni e alle variazioni della luce ma anche nel quotidiano, infernale caos. C’è già in questa tua Roma tutta la possibile dolcezza “familiare” dei sentimenti e l’inquietudine ruggente dell’anima, profuse a piene mani nei tuoi versi. Non un luogo di Roma, un tuo luogo, un epicentro, ma tutta Roma tocchi e abbracci nei tuoi spostamenti non comprensibili dal punto di vista topografico perché per te, come per tanti, Roma è sempre Roma la bellissima, da via Trionfale a Monte Mario, da Monteverde al Gianicolo, Roma l’incomparabile, come scrive Orazio.
Scorrono i tuoi versi inesausti, dolenti e rapinosi, con un loro segreto intrepido procedere, che non arranca, anzi rilancia in continuazione, e che non stanca mai il lettore trascinato in quella corrente inarrestabile, in quelle improvvise aperture nei cieli o nella campagna o nell’eros, tanto da aver bisogno di tornare alle tue pagine e non poterle lasciare. Davvero instancabile nel rilanciare, cosa che implicitamente fai anche riprendendo un testo già pubblicato, come è L’osservatorio, e ripubblicandolo ora fitto di emendamenti.
Tra cielo e terra, tra nuvole e alberi, per le vie, per il giardino di casa e la camera da letto scorrono i tuoi versi braccati dallo “strano male” e dal “crudo morso”, da una smania incontenibile se non dalla monotonia macerante del giorno. Scorrono con la gran maestria che discende dalle tue belle traduzioni dei grandi poeti inglesi. C’è nella tua poesia Keats con la sua sapiente “urna greca” e c’è molto Wallace Stevens con il suo splendido “mattino domenicale” somigliante al tuo, entrambi a lungo occupati da un lavoro fisso d’ufficio. Come Stevens, non fai altro che inventare il mondo che c’è, con la stessa trasparenza e densità. E ci sono anche alcuni scrittori: non a caso già avevo avuto modo di stupirmi, in recenti conversazioni, delle tue buone e scelte conoscenze estese alla narrativa, non troppo frequenti tra i poeti. Cosa che riemerge certamente nella tua poesia così tanto italiana e pure narrativa alla maniera latina o inglese.
Eppure c’è anche e molto Attilio Bertolucci, che deve aver scorto in te un discepolo della sua poesia trasparente e naturale, indefessa misuratrice del battere dei passi e del tempo. Forse il suo vero erede. Deve essere stato così, come apprendo, ancora con stupore, dalla affettuosa e generosa nota critica di Bertolucci, non solito a questi gesti, acclusa, solo in questa edizione, a L’osservatorio. Non posso non commuovermi a immaginare Bertolucci, in un febbraio forse freddo del 1990, accompagnare, lui ormai restio a ogni incontro romano, te poco più che quarantenne, alla presentazione del tuo libro, segretamente uniti dal filo sottile e pervicace della stessa “ansia”.
Ci parli, caro Francesco, del nostro passaggio negli anni, di un transito a tratti spettrale, del nostro pauroso precipitare dal quotidiano all’assoluto e viceversa, e lo fai orchestrando da gran maestro una vera ampia sinfonia con tutti i toni e le scale. Ecco, quando nell’introibo invochi la Musa perché ti dia una “franca parola” mi fai sentire davvero a casa. Quella “franca parola” è stata un sogno e una nuova speranza per alcuni poeti che si sono manifestati a Roma negli anni Ottanta, indipendentemente dalla rivista su cui hanno scritto.
E io per di più mi sento rinfrancata e doppiamente a casa perché da quell’Osservatorio Astronomico in cima a Monte Mario, o nel vicino Zodiaco, ho cominciato anche io a guardare e non solo a vedere, e a considerare Roma dall’alto, esposta in tutta la sua magnifica luminosa chiarità, fin da quando a dieci anni sono venuta ad abitarci, e proprio quella era la meta delle passeggiate domenicali con i genitori e più tardi con i primi amici. L’osservatorio del titolo, con la vocale iniziale minuscola, è qualcosa che allude a quel luogo insostituibile di visione che è la poesia, un luogo che comprende il massimo di stabilità e il massimo di movimento, come ben sai tu così tanto immobile e tenace pellegrino nella tua Roma. Non posso non sentire l’affinità di questo sentire, io che mi sono sempre sentita, alla maniera di Bertolucci, “pellegrina immobile”. Senza contare che noi, nati altrove, possiamo più acutamente vedere la presenza della natura dentro Roma.
Allora non sapevo che sarebbe stato un “osservatorio” speciale della poesia. Anche se da quel punto già Marziale si fermava abitualmente: da lì “totam licet aestimare Romam”. Oltre a tutti i pellegrini appena approdati a Roma per scorgere così, quasi all’improvviso e con grande festa, quello che per loro era Mons Gaudii, il monte della gioia e dell’arrivo. E non sapevo neppure che Roma sarebbe stata il magnifico scenario zodiacale di una vita.
Un abbraccio, Gabriella
Roma, 26 novembre 2011
(Foto di Francesco Dalessandro di Dino Ignani)
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III – L’AZZURRO DEL CIELO
Qui bisogna parlare chiaro, fingere.
Alessandro Ricci
Qui può esser tormento, ma non morte.
Purgatorio, XXVII, 21
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Sandro, vorrei che tu Bordini e io
fossimo insieme testimoni del passaggio –
.
ma questa pasqua passerà senza resurrezione,
tu passeggi in un oliveto d’argento o sulla spiaggia
jonica in vista di quel mare partecipe
un tempo d’incanti dove il sole la foschia
e un bastimento si mischiano e io,
nemmeno certo d’una possibile risposta, m’affido
a questa lettera per dirti sussurrarti
in un orecchio le minuzie dei miei giorni –
.
qui è piovuto – pioverà, se il fuoco acceso
sotto il catino del cielo sopra i colli
Albani e verso il mare, come vuole il detto
popolare, è un annuncio d’altra acqua
per l’ora più alta del giorno la sera novembrina
che si sbraca frettolosa sui terrazzi
sfioriti – è piovuto: per tutta la notte
ne abbiamo sofferto lo scroscio sul pino
sfibrato dal vento sul cemento
del giardino sull’erba, fino all’alba
il gorgheggio dell’acqua nei tombini il suo
picchiettio sulle persiane ha turbato
il nostro riposo – pioverà, ma una leggera
brezza addolcisce l’aria per chi assorto
nell’ora prima, via Montiglio risalendo, s’incanta
alla luce che primeggia e schiude
la corona sanguigna e sulla palla e la croce
di San Pietro si addensa, prona sul
Pineto una nuvola grigia pettoruta
chioccia schiudendo l’ala la sua cova di cirri
innocenti e bianchissimi svela pigolanti
tra le chiome arruffate dei pini e le antenne dei Monti
di Creta vanienti; per chi penosa-
mente si prepara con solerzia per iniqua
condanna a un altro giorno di fatica s’avvia
a morire fino a sera fino alla sua
resurrezione quando passato il giorno
e finita senza gloria anche un’altra
settimana – salute e bellezza di nuovo
perdute nel caglio di uguali
giorni sempre uguali nel novero infinito
delle ore, l’oziosa domenica sarà
premessa e soglia di feriale
perdizione – le luci dei Gemelli stelle
levate a settentrione guideranno i suoi
passi verso il ritorno verso casa
(e sorte migliore abbia l’ombra da cui
perdutamente un volo un batter d’ali,
poi che l’acqua promessa dal mattutino
rossore del cielo riprende con casta
e sediziosa lena il suo brusio variante
il tono sulle foglie dell’assorta magnolia
sull’abete bruciato dal gelo di passate
stagioni sul vetro rigato da quelle
lacrime senza pena, nasce cercando
il rifugio sperato tra i rami; miglior
sorte abbia l’ombra nel cuore
della casa in cui nasce a un’agnizione
nuova d’amore il senso di tremanti
parole) – piove, è piovuto, pioverà
stanotte per tutta la notte e l’acqua
avrà scrosci violenti poi silenzi,
nel freddo e torbido inganno di crederlo
cessato l’inutile pianto, silenzi traditi
dal brusio che riprende dolente
sui rami del pino sull’erba sui lauri
inzuppati, ma il sonno non viene
si turba si accaglia nell’ansia irrequieta:
ha tessuto una trama di notturni
pensieri e al suo centro si tende e
attende immobile e nero in agguato
il rimorso, la coscienza intorpidita
e grassa preda cibo per sé sopravvivenza.
.
Dorme, lei – lei che non dorme
mai quando i suoi cattivi
pensieri l’opprimono e inquieta
si gira e rigira nel letto, rancori
profondi ne turbano il sonno, ora dorme
forse paga del pianto che la notte piange
dietro la persiana abbassata la finestra
ben chiusa forse invece sopraffatta
da una stanchezza che perdona e addolcisce
anche l’ansia, perduta in un suo sopramondano
sogno; chi insonne soffre il proprio
dèmone attende l’alba il lucore
di un’aurora lontana che fra nembi
vuoti trovi una via rischiari le borgate
più remote le vie di popolari
periferie, che a lei doni il risveglio
presago di una domenica di pace
e di lavori domestici, a me il sonno
torbido e breve del mattino l’ozio
fra tavolo e giardino la solerte
necessità
– sgocciola ancora acqua
dai balconi più bassi e sul fogliame lucido
dei lauri il sole ostenta la sua luce, nuovo
calore sulla morta siepe dove il sangue
della vite risplende rappreso («nemmeno
la pioggia furente di stanotte è riuscita
a lavarlo, ma goditeli il sole
e l’aria frizzante sulle vele della tua
domenicale indolenza») la calda luce svela
i suoi maneggi nell’ombra della casa,
domenica mattina di grazia e luce
nuove trascorre nel domestico nostro
labirinto di minute occupazioni, pulizie settimanali
restauro di un ordine che l’incuria dei giorni
feriali ha compromesso: imbustare
vecchi giornali raccogliere gli aghi
di pino strappati dal vento
notturno – tra l’erba battuta le due
tartarughe, godendosi l’ultimo sole
dell’anno il calore dell’estate
di san Martino, s’impegnano in sofferti
giochi d’amore prima di un letargo
che ne rigeneri gli istinti l’energia d’una vitale
volontà – il sole scalda anche i miei
sensi li accende il desiderio: non avrà
compimento fino all’ora della siesta
dei pensieri leggeri nella quieta penombra
della camera da letto, velata euforia
dopo pranzo ci prende ci perde al meridiano
fuoco dei nostri corpi nel calore
del letto («la minima appagante
felicità facilità dei nostri gesti – la sua
mano stringe e carezza – le mie dita
intente nell’umido del nido sui bottoni
bruni del seno…») e dopo il fuoco
la brace di una paga
dissipazione.
.
«Niente più redime il cruccio la vana-
gloria del sogno come quando viva
ai più solerti inganni l’età era
avvenire e amorosa esaltazione, ora trucco
persa vena allucinata abbandonata
nelle ombre della camera sul letto
disfatto assopita come morta simulacro
di se stessa e di me…»
– la sera arde
sul Pineto e i suburbani colli di via
Boccea poi come il pensiero appena nato
nel cielo rasserenato svanisce con l’oro
corrusco del giovane faggio nell’oscuro
parco, ancora trionfante sull’ombra
precoce che ci assale – passate le sei
le sette ora che al mondo tutto ha fretta
di finire la festa la domenica il fine
settimana anche l’acqua anche il cùpido slancio
del sangue – con l’enfasi del fuoco
della fiamma predace e la città a umane
voci a miserie a stanche luci
notturna s’accende a sortite giovanili
si prepara per l’ora di cena, l’ora in cui al rinato
affanno del cuore farà posto la pudica
speranza, alla pena di un fumoso
domani senza luce nei trapassi che acqua
e vento rattristanti avranno vinta;
.
insapore domani di mestizia e casta
derelizione al vario tempo al variare
d’umori risorti coi passi mattutini coi primi
rossori di un’aurora malata che nel
limpido gelo la città sveglia e sopra
chiese e cuspidi trema morente
alla vita immolandosi, spera di acerba
luce che da qui sull’oltrefiume e il bianco
molato dei ponti sull’ocra dei borghi
sul verde di ville e balconi per gli occhi
miopi è ventura veder maturare e con materno
gesto chinarsi dove l’ombra più fitta
vuole resisterle, durare nel freddo
mattino la brina sulle siepi e l’edera
dei belvedere sui deserti gradini
d’erba dentro i cortili (come nel sangue
l’errore e la pietà l’amorosa e immortale
vanità che implacata nel nostro
petto batte e combatte con laica
volontà la quotidiana guerra d’amore
e vita) scena uguale a se stessa
scena di santità e di perdizione
per chi avido a un pensiero di salute
e bellezza naturale irragionevole
si afferra, a una coda di cometa
che nel fuoco della sua scia lo brucerà,
nell’aria pura delle fredde sfere.
.
Fermo il piede sul freno, dall’incrocio
al terso cielo alzo lo sguardo al monte
dove stormo vociante come nube
bruna d’ali gli storni si svolgono
sui cipressi vibranti svettanti nell’aria
diafana e fina di un’altra già avversa
giornata scevra d’ore serene e quiete
pene, severa nel transito assennato
di fatica e umile ardore – il buon pensiero
mattutino si smarrisce nel fumo
e fragore che il traffico attarda nei viali
sventrati dai lavori
in corso, sui platani nudi scheletriti
dal gelo:
è la sorte segnata dei miei giorni,
ordinario castigo meritato se dal viale
Angelico alle porte atre e funeste
di un regno di morti io vivo tra fraterne
o avverse anime chiuse nei cappotti
o nei piumini d’oca dal gran freddo
riparate alle scale
mobili e al treno da un dovere servile
mi lascio condurre col naso nel giornale
parole di piombo leggendo notizie
portate dal vento dell’est notizie di crolli
di fossati da colmare vuoti di speranza
e sul treno in movimento la mia vita
se ne va
«per questo per i quindici venti
anni che mi restano cosa – dicevi – cosa
fare in questa Roma invivibile dove
non c’è parcheggio né posso camminare
per il Centro senza crepacuore? andrò al
sud…»
e io chioso ricordando i tuoi
versi
sulla lucida spiaggia jonica dove
tardo allievo platonico leggerai il Simposio
e Fedro a due km dalla S.S. 106 Taranto-Reggio
Calabria… e riscoprirai nel discorso di
Diotima che la bellezza è per sé
e con sé, eternamente univoca ma che
gli sciagurati del XX secolo che rileggono
in così grave ritardo remoti luminosi
pensieri sono già feriti a morte
– così
chi da qui ti parla e ti ascolta, boa rossa
sulla corrente, così io che m’avvio
verso il vuoto del nuovo decennio
che procedo nell’attesa di un lontano
segnale.
di Francesco Dalessandro
Da: L’Osservatorio, Moretti & Vitali, 2011
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Francesco Dalessandro, nato in provincia dell’Aquila nel 1948, vive a Roma dal 1958. E proprio nell’ambiente romano, nel quale è profondamente radicato e conosciuto, si è dedicato fin dai primi anni Ottanta alla poesia, sia come critico sia come autore, scrivendo su varie riviste, fondando – insieme a Gianfranco Palmery – la rivista letteraria «Arsenale», traducendo dall’inglese alcuni importanti classici della poesia otto-novecentesca (fra cui Keats, Byron, Elizabeth Barrett Browning, Hopkins, Wallace Stevens).
Dalessandro ha pubblicato finora cinque libri di poesia (I giorni dei santi di ghiaccio, 1983; L’osservatorio, 1998, ora rieditato; Lezioni di respiro, 2003; La salvezza, 2006; Aprile degli anni, 2010).
Molto belle; un fiume che scorre raccogliendo immagini, colori, pezzi di vita.
Liliana Z.
Il precipitare dal quotidiano all’assoluto e viceversa; inventare il mondo che c’è. Trascelgo queste definizioni dalla bella lettera di Gabriella Sica e le faccio mie per dire de L’osservatorio.
La poesia di Francesco ha una misura, una cultura, un’eleganza estranee al mio percorso poetico. Quanto ai sentimenti, vi è una quieta disperazione che si riscatta nella felicità del dirla e che mi stupisce. Stupore più che empatia. Ma allora cosa mi piace davvero, oltre l’ammirazione? Proprio ciò che quelle frasi di Gabriella racchiudono, il tessuto di base su cui Francesco ricama la sua tela di Penelope: la continua trasfigurazione dei giorni, attraverso l’avventuroso incontro con le parole: la coscienza del loro potere, la conoscenza del loro uso salvifico.
Vorrei soltanto aggiungere il mio apprezzamento per l’apprezzamento che l’autrice della lettera fa riguardo alla persona di Dalessandro, il quale, forse proprio grazie a questa sua capacità di sembrare/essere “appartato”, svolge un’opera e ricopre un ruolo per me — e, evidentemente, non soltanto per me — centrale nella comunità romana dei poeti, mantenendone alto il profilo professionale, morale, e umano. Senza di lui la vista d’insieme su di noi apparirebbe (almeno dal mio “osservatorio”) meno all’altezza della città.