Anticipazione Editoriale: Pozzanghere di Filippo Strumia, (Einaudi, Torino, aprile 2011)
Ho conosciuto Filippo Strumia a “Ritratti di poesia” nella bella cornice del Tempio di Adriano, a Roma, ed è stato un bell’incontro. Mi è apparso immediatamente schietto, diretto, e ha subito stabilito con me – nella conversazione che facevamo e con il pubblico che ci seguiva – una buona relazione. Abbiamo parlato del suo rapporto con la poesia. Un rapporto tenuto per lunghi anni segreto, e vissuto in modo solitario. Fino a poco tempo fa, infatti, l’unica attività che svolgeva Filippo Strumia era quella di medico, di psichiatra e di psicoanalista.
Perché hai tenuto nascosto per così lungo tempo il tuo rapporto con la poesia?
“Siamo tanti personaggi, stati d’animo, visioni del mondo, spesso inconciliabili e reciprocamente scandalosi. Siamo individui e moltitudini. “In ogni angolo della mia anima c’è un altare a un dio differente” diceva Pessoa. La psicoanalisi mi ha aiutato a dare voce, dignità, possibilità espressiva ai diversi aspetti di me stesso. Comprese le corde mute, quelle che non hanno mai risuonato e attendono l’occasione per esprimersi. Il lavoro mi ha permesso di diventare una specie di politeista. Rumi, il poeta persiano, nell’introduzione alla sua opera racconta di una canna strappata. Il vento, soffiando nella canna, suscita una vibrazione che vola in cerca di un cuore. Ha bisogno, cioè, di una cassa armonica che la tramuti in musica, emozione: la nostalgia del canneto. La poesia, credo, agisce fra l’indicibile e il suono. Siamo zeppi di vibrazioni mute, pensieri non pensati, sentimenti non percepiti che attendono e premono, misconosciuti. Abbiamo gli occhi stipati di usignoli, che premono, sbattono contro le pareti, quasi a farle esplodere. La psicoanalisi e la poesia aiutano a percepire le nostre corde, anche le più recondite. Ma questo laboratorio emotivo, o forse alchemico, richiede anche la privatezza e il silenzio.”
Spesso accade che le persone scrivano poesie ma non lo dicono, le tengono nascoste, quasi a sancire un’indicibilità, qualcosa che non può essere rivelato agli altri. Come ti spieghi questo fenomeno, tu che sei anche psicanalista… Perché la poesia viene vissuta come un segreto?
“Il laboratorio dell’anima, il crogiolo, richiede privatezza, deve essere protetto. Ma non questa è l’unica ragione. Credo che sia molto difficile per gli esseri umani dare valore a ciò che proviene davvero da sé, che non derivi, cioè, da segnali condivisi di branco. La soggettività, essere se stessi, è l’ultima conquista dell’evoluzione di noi ex scimmie. Ogni volta che diciamo Io, diamo un morso alla mela d’Adamo, attingiamo all’albero della conoscenza. E’ un atto scandaloso, colpevole e magnifico. E’ davvero difficile immaginare che possa essere condiviso, che i frutti della propria soggettività possano essere apprezzati dagli altri. Ci vuole faccia tosta e, almeno nel mio caso, un lungo apprendistato emotivo ed esistenziale.”
Tutto è cambiato quando hai chiesto un parere critico a quello che poi è diventato il tuo editore, la Einaudi che ad aprile di quest’anno pubblicherà la tua prima raccolta di versi dal titolo “Pozzanghere”. Raccontami che cosa è accaduto ad un certo punto della tua vita. Com’è che sei uscito allo scoperto? Cosa ti ha spinto a rivolgerti a un editore?
“E’ stato come nascere. Sbucare nel mondo e dire: ci sono anche io! Bello o brutto, interessante o inutile, io sono qui. Ma non è stato un atto molto riflettuto, è avvenuto da sé quando era il momento, come i migratori che decollano insieme. Chiedere il parere all’editore è stata, però, una specie di ordalia: se avesse dato valore ai versi il mio mondo interno sarebbe nato socialmente, altrimenti sarei rimasto nella tana-incubatrice, nascosto da una timidezza sottilmente codarda e supponente.”
Che cosa è cambiato in te, nella tua poesia, dopo aver rivelato al mondo che sei un poeta e che hai firmato il contratto con l’Einaudi? Ti sei sentito appagato, sicuro, hai capito di essere davvero un poeta? Perché dici che la sicurezza dell’editore ha cambiato anche il tuo modo di scrivere i tuoi versi?
“E’ cambiato molto. Prima mi rivolgevo, nei versi, a un tu rarefatto e piuttosto ottuso. Sentivo la necessità di agitarmi e gridare per farmi ascoltare da un immaginario lettore distratto e forse maldisposto. Dopo il contratto, ho cominciato a dialogare con un tu immaginario attento e sottile. Un dialogo interno più agevole e coraggioso. Credo che i versi ne abbiano giovato. Ho avuto difficoltà, però, a non essere intralciato da pretese di ordine estetico. Mi chiedi se mi sento sicuro, appagato e “poeta”… Beh, mi sento una pozzanghera.”
So che tu hai anche scritto un romanzo, che è in fase di valutazione presso lo stesso editore. Ci puoi anticipare qualcosa di questo romanzo?
“Un personaggio strampalato uccide i benzinai, dando loro fuoco. E’ un serial killer che odia barboni e benzinai, è decisamente pazzo, mosso da una visione del mondo immaginifica ed estrema. Il libro è una sorta di giallo, in cui la polizia ricostruisce la vicenda criminale e nel frattempo si imbatte e si scotta con la strabordante lava immaginale dei personaggi.”
Come coniughi il tuo lavoro di psicoterapeuta e scrittore? Sono le storie dei tuoi pazienti che ti porti a casa la sera? E’ di loro che scrivi?
“Scrivo, quando riesco, dell’esperienza umana, altrui e mia. Sono immensamente grato ai miei pazienti per condividere con me le loro esperienze. Non scrivo, però, storie cliniche.”
Il titolo del libro di poesie che esce ad aprile “Pozzanghere”, richiama un’identità melmosa, come se la vita raccontata nei versi si sia “impantanata” sia rimasta con le scarpe dentro la melma. E’ questo il tema delle tue poesie?
“Avviciniamoci alle pozzanghere, disubbidiamo. Non entrare nelle pozzanghere! Attento che ti bagni le scarpe! Da bambini non vedevamo l’ora di tuffarci dentro a piè pari. Guardiamole con attenzione. Nelle pozzanghere troviamo fango, sassi, pezzi di spago e di luna, monetine, cielo, tetti, stelle. Sono qualcosa di infimo e sublime. Incutono inquietudine. Giordano da Ripalta, un monaco predicatore del ‘300, diffidava delle pozzanghere perché “sono le concupiscenze carnali”! Sono bellissime, quanto c’è di più trascurabile e sublime in noi. Sono tolleranti: accolgono topi e nuvole con equanimità. Le pozzanghere, forse, hanno letto la Tabula Smaragdina: Ciò che è in basso è come ciò che è in alto, e ciò che è in alto e’ come ciò che è in basso, per compiere i miracoli della Cosa-Una.”
L’io di queste poesie di chi è? E’ tuo o di qualcun altro? Intendo dire, è di te che parli nella tua poesia oppure no.
“Sai, è tanto difficile dire cosa intendiamo per Io. Siamo percezione soggettiva, ricordi, ma anche guaina mielinica, neuroni, epitelio, tubi, pellicole. Cerco, se possibile, di esprimere un quid universale nascosto nell’esperienza soggettiva. In questo senso, non parlo tanto delle mie piccole vicende. Non interesserebbero a nessuno, neanche a me.”
La poesia che uno scrive, secondo te, può coincidere con un proprio stato d’animo? Se sì, con quale stato d’animo coincide? Se no, perché non può coincidere con un personale stato d’animo?
“A volte si dice che la poesia debba “trasmettere emozioni”. Bene, se ti do un calcio nel sedere ti trasmetto un bel po’ di emozioni: dolore, rabbia, sorpresa, umiliazione. Ma è poesia? Credo che la poesia debba trasformare il modo di percepire sé e il mondo, non debba limitarsi a trasmettere qualcosa, né possa coincidere semplicemente con uno stato d’animo.”
Hai letto molto la poesia prima di iniziare a scriverne? Se sì, quali sono i poeti suoi quali ti sei maggiormente soffermato? E perché? Che cosa ti dicevano questi poeti?
“Ho sempre letto poesia, anche se in modo disordinato, di tutte le epoche e provenienze. Fra i poeti che amo, Amelia Rosselli ha un posto speciale. Rivoluzione copernicana a ogni verso. Una lingua penetrante e sconvolgente, perturbante. Ho avuto anche modo di conoscerla, anche se in una situazione dolorosa, durante un ricovero, poco prima del suicidio. Ne sono rimasto turbato e affascinato.”
Mi stai dicendo – quello che molti poeti dicono della Rosselli – e cioè che incontrarla era sempre un’esperienza profonda, in qualsiasi circostanza. Cosa ti turbò e cosa ti affascinò di lei?
“Ho parlato a lungo con lei ‘aggrappato ai suoi occhi celestiali’, per riprendere un suo verso. Celestiali davvero. Occhi dallo sguardo pieno di terrore e compostezza. Riferisco solo, per ragioni di riservatezza, quello che è universalmente noto. Amelia era magra, elegante, dai gesti aristocratici, ma quando la conobbi era prosciugata dalla paura. Da molti anni riteneva di essere perseguitata dalla CIA, pensava che la seguissero e le mandassero “onde elettromagnetiche” grazie a strani apparecchi. Nel 1973 aveva denunciato l’agenzia americana ritenendo di esserne perseguitata. Anni dopo, nel 1988, era andata a Mosca, accompagnata da Gino Scartaghiande, per chiedere asilo politico all’Unione Sovietica. I funzionari furono gentili, comprensivi, ma non presero sul serio la richiesta. Scrisse anche direttamente, e invano, a Gorbaciov, chiedendo aiuto. Il giorno in cui la conobbi mi raccontò subito dell’Inghilterra, “terra di libertà, lì si vive meglio e si è curati meglio”. Ma presto mi confidò, anche se con difficoltà, la sua paura. La grande paura. La descriveva come fosse un oggetto materiale, un corpo immane, un masso. Qualcosa che non può essere discusso, modulato, attenuato, ma che pesa lì, al centro della mente, come un monolite. Emozioni e pensiero non fatti della materia di cui sono fatti i sogni, ma di roccia e metallo. Non era solo paura, era il corpo fisico dei persecutori che attuano un pogrom nella mente. Avrei voluto parlare della sua poesie, chiedere delucidazione su alcuni suoi versi, ma mi è mancato il coraggio. Soffriva troppo, sequestrata dal terrore. Fu un incontro difficile. Credeva, dicevo, di essere perseguitata dalla CIA, dagli americani. Gli americani! Proprio lei, figlia dell’ebreo Carlo Rosselli ucciso dai fascisti , perseguitata dall’America! La sua mente ragionava capovolta, vedeva nell’America il nemico e non l’alleato che aveva liberato l’Europa dal nazifascismo e dall’antisemitismo di stato. Trovavo questo delirio particolarmente commovente, come se Amelia si sentisse perseguitata dal mondo del padre. Perseguitata, cioè, dal fantasma di un lutto orribile e indicibile che non ebbe modo di soffrire e modulare.”
Amelia si suicidò proprio dopo essere tornata a casa, in Via del Corallo, a Roma, subito dopo il ricovero… Ecco, mi viene spontaneo porti una domanda: si può prevenire un atto totalizzante, come può essere quello del suicidio?
“Ci sono situazioni cliniche caratterizzate da rischio di suicidio. Si può fare qualcosa, certo, dipende da caso a caso. In alcune situazioni, però, la prevenzione del suicidio non potrebbe essere attuata senza intervenire in modo pervasivo sulla libertà delle persone. Questo è possibile per qualche giorno, settimana, ma rinchiudere un essere umano per anni ricondurrebbe alla logica manicomiale. E sarebbe una violenza forse maggiore rispetto a quella inferta dalla patologia.”
Qual è la poesia che ami di più? Una che magari ti piacerebbe leggere più di altre e perché?
“Una poesia che amo e che mi torna in mente come un mantra è “Oltre la spera che più larga gira”, l’ultimo sonetto della Vita Nuova. La ricordo a memoria e mi scopro spesso a recitarla nella mente. Dante si divide in se stesso, il proprio cuore, il sospiro che nasce da lui e ascolta un dialogo prodigioso fra il sospiro e il cuore che tentano di decifrare l’esperienza indicibile della visione di Beatrice.
‘Pozzanghere’ è la tua prima pubblicazione e coincide con la tua età matura. Ti senti in ritardo?
“Sì e mi dispiace. Mi dispiace e basta.”
Continuerai a scrivere? Che giovamento dà scrivere poesie? Che cosa libera, mette in moto la poesia? E infine, secondo te, uno psicoterapeuta non rischia di sorvegliare troppo il tuo io poetico? Non lo mette in soggezione?
“Continuerò a scrivere, non so né quanto, né come.
Poi, sì, un rischio c’è, ma al contrario: il poeta rischia di travolgere il terapeuta, trascinarlo con sé e farlo uscire di senno. Una felix culpa.
Perché si scrivono poesie? E poi la solita domanda.. la poesia nasce con te bambino? E come si sentiva ‘il tuo bambino poeta’?
Il bambino poeta era, ammetto, classicamente poetico. Triste, spaventato, meditabondo, zeppo di pensieri troppo grandi per lui. La mia infanzia, nonostante non sia accaduto niente di grave, non è stata sempre felice. Si scrivono poesie perché la nostra mente è naturaliter poetica e non può evitare di cantare. Basta chinarsi ad ascoltare la sua voce, prima che sia lei a travolgerci.
I tuoi figli come hanno reagito alla consapevolezza di avere il padre poeta? Ne soffrono? Si confrontano con te? Ti fanno domande? Come si relazionano a te?
“Ho provato un paio di volte a leggere loro le mie poesie, sono scappati per tutta casa, nascondendosi dietro alle poltrone. Non sanno bene cosa sia un poeta, ma non posso dar loro torto, non lo so neanche io. Qualcosa di poco appetitoso, sembrerebbe. Direi che, al momento, non ne soffrono affatto, basta che non li affligga io con i miei scritti. Eppure, mio figlio scrive versi. Non so dove li vada a pescare, mi sa che Platone nel Fedro aveva ragione: vengono da altrove. Io lo trovo straordinario.”
**********
Strusciamo ignari i marciapiedi
che coprono l’abisso
dei magmi sconosciuti.
E la mente ruota
su falesie di pensieri
e vola per le strade
la moltitudine delle genti,
avvinghiate come vele ai venti.
Saltellano gli astronauti sulla luna,
danzano sulle pozzanghere
insetti predestinati,
mentre il cosmo equilibrista
oscilla ignaro sulla pelle
dei neonati.
L’universo è un gabbiano morente,
ma s’appende la gente
ai palloncini fra le case
nell’ora che innamora.
Il nostro tempo è una rondine
che ignora dove cada il male,
e intanto vola sulle rocce, i gas,
il sale.
****
Vorrei conoscere gli operai delle cave
quelli che cavano i nostri pensieri
e sanno davvero usare la benna,
quelli che aprono lunghi cunicoli
dove non siamo mai stati
e nemmeno sapremmo entrare.
Forse hanno le mani sporche
e anche i loro sindacati
Vorrei conoscerli perché di certo
non amano il padrone né lo odiano.
Lavorano come noi un po’ di traverso.
Ognuno fa la sua parte più o meno,
ma chi si preoccupa se il prodotto è finito?
Gli addetti alla consegna non sono responsabili,
cosa c’entrano loro se il sogno è scarso?
Come vorrei parlare da uomini
e andare con loro all’osteria
un po’ di vino, calcio e allegria,
vorrei mostrare che sono simile a loro
non sono migliore non sono un padrone.
Sono quello che loro mi danno
sassi grezzi e pensieri a volte buoni
oppure solo un po’ d’argilla e terra bagnata,
ma che farci?
Non sanno come mi sento solo
e come vorrei essere loro amico.
Non sanno che simpatia mi fa
il loro mondo scanzonato.
Strizzo l’occhio anche allo sciopero
che mi lascia senza parole.
Io non merito davvero un’altra dedizione,
lo so che sfrutto il loro sudore
e quando dal fondo esce una gemma
non so neanche chi ringraziare.
******
Sono grato all’attesa
e alle sue sale,
nessun luogo è casa mia
più di quella del dentista.
E’ lì che trovo pace
per quello che non c’è:
si giustifica da sé
la mia presenza.
Tamburello quanto voglio
e leggo solo
di sciocchezze.
Non mi chiedi d’essere altro
che quello che non sono:
arcata e premolari
mandibola e dentina.
E’ ben visto che stia poco
e pensi a nulla.
Ho diritto alla paura,
mi fai carico leggero
di un’innata codardia.
Posso attendere impaziente
anche quello che non voglio.
Un corpo aspetta grato
a bocca chiusa.
da Pozzanghere di Filippo Strumia, Einaudi, aprile 2011
Filippo Strumia è nato a Roma nel 1962. Dopo la maturità classica si è laureato in medicina e specializzato in psichiatria. Psicoanalista di orientamento Junghiano vive e lavora a Roma. Pianista classico dilettante. Ha pubblicato diverse opere scientifiche ed è analista didatta della Associazione Italiana di Psicologia Analitica. Nel 2008 ha scritto un’opera teatrale in versi: “Fuori dall’Eden” che è andata in scena con la regia di Laura Giulia Cirino e Antonio Petretto. Nel prossimo mese di aprile, per l’editore Einaudi , uscirà il libro di poesie “Pozzanghere”. Prima del contratto con l’editore, non aveva mai fatto leggere i suoi scritti, né svelato a nessuno la propria attività letteraria. Recentemente ha pubblicato alcuni versi su Poeti e Poesia. Nel 2010 ha scritto un romanzo che è ora in corso di valutazione per essere pubblicato con lo stesso editore.
Ho letto con interesse l’intervista e i versi di F. Strumia.
Mi ritrovo in molte cose, anch’io penso che la poesia debba” trasformare il modo di percepire sé e il mondo”, soprattutto nei tempi in cui viviamo, ma, credo, in ogni tempo, la poesia non può tacere, limitarsi agli impulsi dell’io, deve essere strumento di conoscenza, indagine, per capire, capire di più,non cambierà nulla, ma avrà dato una maggiore consapevolezza, avrà diffuso una luce sulle cose, quello che forse sfugge.
Seguo con interesse questo blog, mi è molto utile per il lavoro che sto facendo, purtroppo, con molto ritardo, per me è davvero una guida preziosa.
Grazie.
Sono contento, Maria Pia, che sia d’accordo con la funzione trasformativa della poesia e la ringrazio del suo commento. Non credo che la poesia possa cambiare il mondo, visto dalle stelle, ma può stravolgere il nostro modo di percepirlo e sognarlo. Forse avevano ragione gli aborigeni australiani: il mondo è nato cantando. I progenitori, camminando nello spazio vuoto, cominciarono a cantare. Cantando i sassi, l’erba, le montagne, i fiumi si solidificarono nello spazio intorno a sé. E’il canto creativo originario. Loro non potevano saperlo, ma le neuroscienze attuali propongono qualcosa di simile: la percezione del mondo nasce nel sogno, nella metafora, nel lavoro dell’immaginazione. Beh, già che ci siamo, oltre a girarci i pollici, partecipiamo della creazione originaria, cantiamo.
Cara Maria Pia, sono felice del suo intervento.
Naturalmente mi piacerebbe conoscere il lavoro che sta facendo, per sapere che tipo di contributo ti ho offerto, senza saperlo.
Grazie
dato la professione di Filippo e il suo bel raccontare di Amelia Rosselli, mi piacerebbe chiedere la sua opinione riguardo alla scelta del suicidio (con tutte le implicazioni del caso) compiuta da molte poete come Alfonsina Storni, Antonia Pozzi, Sylvia Plath, Anne Sexton (mi sono venute in mente solo donne stranamente )e quanto e se incida l’infelicità nella creatività ( tema iniziale di discussione nel blog ).
Altra curiosità: ma come si giunge a pubblicare un primo libro di poesie già con Einaudi? (domanda forse ingenua)
grazie ciao e complimenti a Luigia per la bella intervista e a Filippo per il suo poetare.
Donatella
Vorrei porre un’altra domanda a Filippo :
se l'”Universo è un gabbiano morente”, il poeta, quando nomina o viene nominato dalla parola, chi è ?
Ho apprezzato questa intervista sia nei contenuti che per i suoi aspetti umani.
Concordo con Maria Pia che la poesia rappresenta uno strumento d’indagine, tanto più se si coniuga con la sorpresa di scoprire qualcosa di inesplorato che ha la capacità di stupire. Come costruire lo sguardo per guardare e guardarsi con occhi nuovi attraverso la proiezione della nostra fantasia.
Nel caso specifico, ho letto e apprezzato le poesie di Filippo Strumia che trovo vibranti e magmatiche, di forte impatto emotivo e capaci di trasformare le singole e molteplici note e sfumature dell’anima in complessa sinfonia, cosicché le immagini solfeggiano e cantano in libertà e il “messaggio nella bottiglia” può arrivare a destinazione. A mio parere la sua poesia curva, ruota, guizza ma al tempo stesso contiene e assorbe concetti e linguaggio in continua palingenesi fra compassione e crudeltà. Sembra che la sua immaginazione riceva continue sollecitazioni ma senza alcun autocompiacimento e senza che il suo vissuto esperienziale soffochi l’ispirazione poetica.
Non sono d’accordo sul sentirsi in ritardo per il fatto di cominciare a pubblicare in età matura.
La creatività non corrisponde ad un’età anagrafica: esplode o implode quando c’è e quando accade. E proprio perché nella maturità si raggiunge una maggiore consapevolezza dell’esistenza che è possibile imbattersi – dopo un periodo di rodaggio – in nuove strade da percorrere, che portano così a “nascere” nuovamente.
Filippo Strumia risponderà puntuale alle vostre domande…
abbiate solo un po’ di pazienza..
Cara Donatella,
ci sono anche Cesare Pavese e Primo Levi! Sono i primi che mi vengono in mente, non so se il suicidio dei poeti sia più frequente nelle donne. Sarebbe interessante verificarlo. Alcune persone nascono e vivono con un particolare ingombro sulle spalle, un fardello psicoemotivo. Tutti noi “cuciniamo” nella mente fatti crudi, percezioni, e le trasformiamo in qualcosa di vivibile, percettibile pensabile e sopportabile. Un eccesso di emozioni allo stato protomentale, non ancora cucinate (i “grumi non mentalmente dissolti” di cui parla la Merini) ingombrano la mente e la vita. Questo carico è doloroso, inquietante, perturbante. Credo che il suicidio abbia a che fare col bisogno di annullare la tortura inferta da questo compito emotivo alto e terribile. La poesia è una cuoca. Aiuta nel compito di rendere commestibile l’indicibile, ma spesso non basta. Credo che non sia la poesia a favorire il suicidio, è semmai la mancanza di sufficiente poesia a farlo. Poi, Einaudi… Guarda, io sono esterrefatto si essere stato pubblicato da loro. Posso dire solo questo: Einaudi e altre grandi case editrici pubblicano esordienti. Non sono un caso isolato. Poi, io sono un esordiente, sì, ma un esordiente tardone. La prima cosa da fare è semplice, ma spesso singolarmente omessa: inviare loro i propri scritti! Conosco persone che scrivono benissimo ma non mandano i propri lavori alle grandi case editrici, per timore reverenziale e per l’idea che “tanto non leggeranno”. Non è vero. Leggono e spesso più seriamente delle case editrici meno conosciute.
Grazie del suo commento e a presto.
Caro Bruno,
il poeta, cioè noi tutti quando mettiamo il naso nella fabbrica di immagini che sta da qualche parte nella nostra mente, trasforma il gabbiano morente in un dente strappato. Sì, mi viene in mente uno splendido verso della Rosselli: Il mondo è un dente strappato. Più che dire cosa faccia il poeta mi limito a cercare di comprendere cosa faccia l’immaginazione. Aiuta a “fare anima”. Come nel bel verso di Keats: “Il mondo è la valle del fare anima”. Cioè concepire il mondo in sé, sognarlo, trasformarlo, stravolgerlo e riconsegnarlo al suo posto. Ho risposto?
Monica! Grazie per le tue bellissime parole. Sai quanto apprezziamo reciprocamente le nostre poesie. Riguardo all’età matura, credo che tu abbia ragione. La creatività è Puer, sempre e comunque. La cosa però, nel mio caso, è semplice: io rosico. Proprio così. Avrei preferito pubblicare prima che la barba mi mettesse in concorrenza con Babbo Natale.
Ho appena postato il video di “Caino” di Mariangela Gualtieri in scena da domani al teatro Palladium di Roma. Vi consiglio di dare un’occhiata al video…
Per quanto riguarda l’intervista a Strumia, mi sembra che abbia sortito un enorme successo. Sono felice. Sempre nel nome della poesia.
Si Filippo, sei stato chiarissimo.
Sulla scia di ciò che dici, e magari continuando, mi viene in mente una frase da ” Lettere a un giovane poeta ” di Rilke :
“Chi crea deve essere un mondo per sé e in sé trovare tutto, e nella natura sua compagna”
grazie Filippo, le sue annotazioni mi hanno fornito interessanti spunti di riflessione.
Quanto ad Einaudi è molto confortante scoprire che ancora la buona poesia si impone da sé.E dunque ancora tanti complimenti, leggeremo le sue ” Pozzanghere ”
Per il resto, a quanto ne so, nel 90% dei casi ( percentuale forse stimata per difetto) i libri di poesia presenti sul mercato editoriale vengono pubblicati perchè l’autore sborsa cifre consistenti. Pratica leggermente umiliante anche se comprendo tutte le motivazioni che sottendono tale scelta ( e prima o poi anch’io mi adeguerò, anche se per il momento resisto, preferendo i concorsi e le antologie ) Spesso mi chiedo come mai dalla rete, con tutte le possibilità che offre, non sorga un movimento spontaneo e rumoroso di rifiuto e di denuncia, da parte di chi fa poesia, di talune pratiche che, nei casi più eclatanti, rasentano la truffa.
Per contro, e per fortuna, esistono moltissime realtà- anche piccolissime- e persone che, spendendosi molto, divulgano poesia in modo gratuito spinte solo dall’amore e dalla passione. Vedi Luigia e questo blog.
grazie tante per l’attenzione buona vita e buona ispirazione…Donatella
Bella, Bruno, la citazione di Rilke. Senza dimenticarci che, dopo aver ingoiato, digerito e trasformato il mondo, lo dobbiamo collocare di nuovo al suo posto; far sì che sia un luogo di scambio e condivisione con gli altri. (Anche col linguaggio). Altrimenti ce la cantiamo e suoniamo.
Cara Donatella,
il problema dell’editoria a pagamento riguarda anche la narrativa. Un fenomeno sempre esistito ma adesso imperante. E’ un grosso guaio e, credo, non risolvibile. Si scrivono più testi di quanti il mercato possa assorbire. L’importante, però, è che gli autori siano a conoscenza della situazione e non risultino turlupinati. Grazie di cuore del suo apprezzamento.
Gentilissimo Filippo, noi poeti , a volte, siamo un po’ ermetici, tortuosi… Un amico affettuoso, nel giorno del mio compleanno, mi ha dedicato una tua poesia di cui non conosco il titolo. Parla di una clessidra, una capriola con la testa nelle mani………parla di giorni acrobati …
Sono rimasta sconvolta, confusa…non capendo appieno se le tue parole sono la celebrazione di un addio o di un’attesa, una lunga attesa. Mi piacerebbe sentire da te il significato del contenuto. Ti ringrazio. Simonetta
Gentile Simonetta,
perdona il ritardo ma ho letto solo ora il tuo commento. Direi che riguarda un’attesa ma, sai, attesa, ripetizione e addio a volte si fondono in un’esperienza sospesa. Non credo di poter dare una risposta univoca alla tua domanda perché credo che la chiarezza nei rapporti umani sia un’illusione. Grazie dell’attenzione. Filippo