Per Natalia Lisi “la poesia è sempre stata una funzione fisiologica paragonabile al respiro, al ciclo cardiaco con le sue sistole e le sue diastole: un qualcosa di intimamente connesso con la propria vita, un organo inalienabile dal proprio corpo. Una seconda voce diversa da quella della coscienza. Inseguire questo canto di Sirene significa scegliere la terra del mito, significa far coesistere il presente con gli infiniti spazi inesplorati che si aprono nella nostra mente: le dita sui tasti di un pianoforte possono creare infinite melodie muovendosi fuori e dentro le scale del sistema tonale, così noi con il sistema delle parole possiamo entrare ed uscire dalla veglia, dal mondo esterno a noi, verso la luce del sonno, la terra delle immagini, della bellezza, dell’eroismo adolescenziale: possiamo provare, senza mai riuscire del tutto, a conciliare i molti mondi, a fermarli, a dare una consistenza alle immagini inconsistenti nate nella nostra intimità.”
di Natalia Lisi
Parabola fra i geli
*
Un volto spicca nella folla, quale fantasma rincorso
il buio brucia fra la passione e il rimorso e increspa
rivoli di sangue nel catrame: la parola nostro unico
legame che cementa anche l’abisso friabile
di neve ci lascia spogli nel limbo a dire verso
muri muti le parole che comprimono il tuo fiato
contro il mio.
*
Gli anni nudi delle lame ci studiarono, fu
uno sbriciolarsi d’atomi, ogni pegno della carne,
ci ridussero ad un grumo di macerie sanguinanti:
anni in cui in cui fu inverno
in ogni poro, porgono i grumi, gli istanti
in cui fummo giovani e morti in cui pulsavano
necrotiche le nostre cicatrici.
*
Ciò che di te ho attraversato
è la voce che mi canta attraverso
il respiro fra violenza della nota straziata
e il bacio incollato a due petali
di labbra, caduti fra nella porta d’acqua
chiara delle lacrime. In due riposiamo
in quel cammino impervio la parabola
arcana di incoscienza e risveglio e stretti
fummo sposi nella carne del mattino.
*
Io che porto un nome da presepe, sono quanto
più lontano dall’inverno sogna in noi, oltre
la spada si Erode e oltre ancora la croce cristiana.
osservo la nuda umanità trascinando i passi
per la Domus Aurea e le erbe calpestate dalle scarpe
da tennista narreranno l’epopea della nostra nascita.
*
Falò di adolescenza nel corpo duro del deserto:
senza sangue sfidammo il terreno, versando l’acqua
delle labbra e la parola solare, furtivi strisciammo fra i roseti
come albe venute a fecondare la nuda inanità
delle rovine e delle strade. Figli della nostra bellezza
pascolammo i canti alla mensa della sera e le foglie
del ginepro frullavano fra i caldi della festa e le nostre schiene
terse di bonaccia e tese alla tempesta.
*
Figli addormentati sulla criniera fulva
della sera, a lungo attendemmo di fare intera
la nostra esistenza e forse domammo in noi
la parola-belva che ebbe dal sangue il suono.
*
Sei anni in cui il tutto condiviso, fondò l’estraneo
presente dei due corpi separati: al laccio ho serrato ogni secondo
dello sguardo sulla mano, un fragore di lancette
che la parola arresta, nella freccia che si spunta sopra al cuore
di un bersaglio.
*
Dormisti nello scroscio imbiancato dei muri
fra l’affresco nudo di sangue e lo sparo
della cerbottana poi filasti da lei lasciando il fuoco
su questa pagina e il gelo in una notte di cammino
che imbianca la tua strada dove amore e morte
si rappresentano nella falce della tua falcata.
*
Falce che nutrì gli occhi di steli, pelle che cuoce
all’infinito dolore del vuoto: ogni marchio è rissoso
che percuote queste ciglia, anche il fango dei ribelli
e il fucile dei reietti, il fuoco povero che consuma
ogni peccato, dei della condanna e del cordoglio
che ci decimarono.
*
Quando renderò il mio canto
al respiro che l’ha generato, la carne
avrà tutt’uno con la nota, un’austera
leggerezza rosso sangue, mentre il bacio
scabroso narrerà alle tenebre
dolci che ci generarono la favola
degli sposi di un attimo, dei bambini travolti
dalla tempesta che generarono, dei figli furiosi
che dimorano fra tormente e cicloni
e immergono ogni sguardo attraverso la cascata.
Le estati che ci generarono
sono l’afa torrida delle pelle sfregata
sulla pelle, il racconto dei corpi sulla strada
dei bambini che corrono, la figlia temeraria
domatrice di cicloni. Fra ciglio e ciglio ella ancora
s’avanza.
[ Ti scrivo fra frattaglie di parole
e tengo stretti i canti a quella soglia di stelle
in cui ho miniati i tuoi occhi nell’arazzo
inviolabile di carne che s’apre sottopelle ]
Natalia Lisi nasce a Roma nel 1982, la città che con le sue macerie e tramontane ha lastricato e disossato ogni sua parola. Comincia fin dall’infanzia ad avvertire il fascino della musica del linguaggio e del linguaggio insito nella musica: studia tecnica vocale, canto lirico, estetica barocca e rinascimentale. Si è laureata nel 2008 con una tesi in Letteratura Italiana Contemporanea sull’opera di Milo De Angelis sotto la guida di Biancamaria Frabotta. Ad Aprile 2009 ha tenuto una lezione dedicata ad Amelia Rosselli nell’ambito del corso tenuto da Biancamaria Frabotta su “Poesia e Testimonianza”.
Due sue poesie sono state recensite in due antologie edite da Giulio Perrone editore. Attualmente è iscritta alla facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università La Sapienza di Roma.
Poesia assestata in uno spazio-tempo apparentemente inaccessibile con l’eco assorbito, “asfaltato” del de Angelis. Mi piace!
Un saluto,
Bruno.
Buon compleanno a Natalia…. Bruno Conte ha riassunto bene la tua poesia. Mi sembra davvero un buonissimo inizio!
Sì Milo De Angelis. Ho scritto parabola fra i geli dopo aver letto “Quell’andarsene nel buio dei cortili”. Devo molto a De Angelis e alla sua epica metropolitana del basso.
Anche se la verità è che ho cercato sempre quanto di femminile potesse esserci nella parola: prendere un suono trasformarlo in un corpo e usarlo per veicolare più che un significato netto, una immagine, un qualcosa che superasse la barriera delle cose comuni. Io ho sempre cercato nella poesia degli altri ciò che non riuscivo a vedere, la voce che restava sempre silenziosa perchè non trovava mai la via per farsi parola e restava…niente? Musica? Il niente della musica che non lascia traccia perchè non assume mai la concretezza del comprensibile?
La donna che vive in tutte le donne e che fece del suo corpo musica? La musica che vive in tutte le donne quando il loro corpo riesce a farsi parola? Magari Biancamaria Frabotta o Amelia ROsselli saprebbero rispondermi….
E’ bello quello che scrivi, Natalia.
Secondo me hai trovato il femminile nella parola. Dunque, grazie, per aver trovato la donna che vive in tutte le donne…
Avendo assistito alla “lezione” rosselliana, in Sapienza, nel 2009, scopro con vivo piacere queste poesie. Che tornerò a rileggere perché dense e degne di attenzione.
Lasciando qui giusto due parole di sorvolo, vorrei insistere sul forse eccessivo marchio deangelisiano – credo, voglio dire, che la potenza, anche linguistica, di alcune zone della sua opera si possa forse slacciare con profitto da una certa attitudine alla mitologia personale e all’acceso, seppure traslato, alterizzato, biografismo, che in qualche modo mi sembra areni la tensione e la buona immaginativa presente nelle poesie qui pubblicate.
Un caro saluto a tutti,
f.t.
Caro Fabio, purtroppo è difficile essere diversi da ciò che si è, in effetti ci sono varie storie personali e non che si intrecciano in questi miei testi, che come attitudine naturale tendo a “sublimare” perchè non riesco proprio a concepire la poesia come “sfogo”, ovviamente il tentativo è quello di “universalizzare” il proprio sentire minuto, puntiforme, parlare dell’Amore e non di un amore, della strada fra il gelo e le macerie che potrebbe essere…hai presente quella sensazione che ti dà Roma a tarda notte d’inverno? I Fori ad esempio. Freddo. Silenzio. Macerie. Le rovine di una gloria passata ( una gloria fondata sulla guerra e sul patriarcato? Eddai concedimelo XD )a cui fanno eco le nostre presenti rovine culturali. Accendi la televisione e cosa vedi? Rovine. Una parabola fra i geli. Rimanere sè stessi è un traguardo. Lottare istante per istante per “identificare” sè stessi in ogni singolo atto è un imperativo quotidiano.
De Angelis: mentre leggevo il suo ultimo libro, mi sorpresi a “rispondergli”: mi gemmavano versi nella mente. Vedevo il mio mondo accanto al suo, lo univo, lo distinguevo, lo separavo. Per essere sè stessi, credo ci sia bisogno che un altro ti mostri qualcosa di abbastanza vicino ad un ideale con cui tu possa fare i conti, non trovi? E’ facile, troppo facile, “identificarsi” da cose inutili e insignificanti, ma di fronte alla “bellezza” cosa fare per non tentare di assomigliargli? E’ una bella lotta secondo me. La stessa cosa mi accade ogni volta che leggo Celan. Spero di averci messo abbastanza passione e femminilità per riuscire ad apparire comunque come me stessa, è la cosa a cui aspiro al di là di ogni giudizio di valore.
La poesia è molto bella; qui in biblioteca di scienze biochimiche, natalia ha lasciato i suoi documenti, qualcuno può avvertirla?