Margaret Atwood, L’anno del diluvio

Nicola D’Ugo, poeta, narratore, saggista, comparatista e traduttore ci propone per La traduzione di poesia una sua recensione a L’anno del diluvio di Margaret Atwood Ponte alle Grazie, Milano 2010. Traduzione di Guido Calza. 480 pp. EUR 19,60  Prima edizione originale: The Year of the Flood.  London: Bloomsbury, 2009. 434 pp. £ 18,99.

Nicola D’Ugo (nella foto) dottore di ricerca in Letterature di lingua inglese all’Università La Sapienza di Roma, nella sua originale lettura definisce L’anno del diluvio di Margaret Atwood  “un delizioso romanzo dal sapore di fiaba” che “stabilisce un carattere d’onnicomprensività unitaria tra passato e futuro. Ma anziché poggiare il mito di fondazione d’una cultura su un’epoca idealmente remota e non consequenziale al divenire storico la colloca in un futuro parimenti sdrucciolevole e storicamente solo eventuale, che ha fin troppe caratteristiche in comune col degrado della nostra contemporaneità.”

«L’anno del Diluvio di Margaret Atwood è un delizioso romanzo dal sapore di fiaba. Non mancano personaggi ingenui, spietati, e animali fantastici. Come tutti i romanzi ricchi di poeticità, esso poggia in gran parte sul linguaggio che imprime un senso al materiale espressivo. La storia in sé, stretta in sinossi, è semplice: una setta religiosa si prepara, in un futuro di là dai nostri tempi, a far fronte ad una catastrofe globale che faccia piazza pulita del totalitarismo capitalistico ch’à esautorato ogni residuo statale e gestisce, su base tecnocratica, la vita dei cittadini e qualsiasi forma aggregativa, mafie incluse.
Se non fosse che la storia è raccontata perlopiù al contrario, a Diluvio avvenuto, e non da uno sguardo oggettivo, ma, come piace ad Atwood, dal punto di vista di due donne che si ritrovano, ognuna ignara della sorte dell’altra, a fronteggiare da sole la pandemia, ossia il Diluvio-senz’acqua che dà il titolo al romanzo. La narrazione comincia nell’Anno Venticinque dalla fondazione della setta dei Giardinieri, cui entrambe le eroine hanno aderito, e passa subito all’Anno Cinque, in una rievocazione del passato a corrente alternata che scampi loro dalla disperazione e faccia per noi luce sul misterioso e bizzarro caso della loro congiuntura biografica. Poiché la «memoria» qui ha un valore al quadrato: da un lato, rievocare le proprie esperienze tra i Giardinieri fortifica intimamente le due donne; da un altro, la rievocazione assume un modus narrandi epico e fondativo; da un altro fa luce sull’azione che si snocciola nel finale del romanzo; da un altro ancora, segnala lo stretto rapporto tra scrittura, oralità, esperienza e tramando.

Come avrà intuito il lettore avvezzo all’epica classica, l‘incipit in media res stabilisce un carattere d’onnicomprensività unitaria tra passato e futuro. Ma anziché poggiare il mito di fondazione d’una cultura su un’epoca idealmente remota e non consequenziale al divenire storico, Margaret Atwood la colloca in un futuro parimenti sdrucciolevole e storicamente solo eventuale, che ha fin troppe caratteristiche in comune col degrado della nostra contemporaneità. Tutte le più grandi e quotidiane preoccupazioni dell’attualità nostra, dalle tecnologie ai diritti fondamentali dell’uomo – ma con un occhio sempre rivolto alla spiritualità del passato – sono affrontate da Atwood attraverso espedienti narrativi e fraseologici raffinati, che si fan punto d’arrivo sintetico di tutti i maggiori filoni letterari dall’antichità ai giorni nostri.
La distinzione tra epica e romanzo, che ha caratterizzato gran parte dei discorsi teorici novecenteschi, vien meno, così come la distinzione tra utopia e distopia e tra narrativa fantastica e fantascientifica, proprio in ragione d’una robusta messa a fuoco di ciascuna di queste matrici narratologiche. L’ironia e la sapienza compositiva di Atwood raggiunge uno zenit espressivo che incanta, disorienta e lascia interdetti, con pagine patetiche, esilaranti e sciocchine, le quali non hanno la pretesa di ricomporre il materiale epico in un disegno che si limiti a ricalcare l’Odissea omerica (con cui L’anno del Diluvio ha molti tratti in comune, seppure in chiave satirica). Il suo fine è far pensare, pensare a fondo, all’insensibilità e alle contraddizioni del mondo globale ed anestetizzato in cui viviamo, i cui semi alterati, o meglio geneticamente e culturalmente modificati dall’umana follia, preannunciano l’estinzione del genere umano e la conseguente dolorosa estetica dei pochi sopravvissuti.

Le vicende delle due donne, Toby e Ren, ci offrono la visione del mondo da due prospettive diverse, che coincidono con la differenza ventennale d’età delle eroine, per cui nell’anno del Diluvio (l’Anno Venticinque, con cui si apre e chiude il romanzo) Ren ha l’età che Toby, ormai donna matura, aveva nell’Anno Cinque: tra le due date la narrazione assume le caratteristiche tipiche del Bildungsroman, ma doppiato. Il rapporto padre-figlio tra Ulisse e Telemaco (Odissea), e paterno-elettivo di Leopold Bloom con Stephen Dedalus (Ulisse joyciano), vien qui declinato al femminile, e non sarà un caso, rispetto al carattere materno-elettivo di Toby nei confronti di Ren, che quest’ultima sia abbandonata dai genitori e che la prima s’accorga improvvisamente del desiderio di diventar madre nell’Anno Cinque, quando, per aver venduto i suoi ovuli, le consegue un’insanabile sterilità, ridottasi, come ogn’essere umano in difficoltà, a valore d’uso piuttosto che di mercato, secondo la reificazione costitutiva del capitalismo che solo gli ammortizzatori del welfare, qui del tutto assenti, possono mitigare. Così come non è un caso che l’ottica femminile del romanzo ci presenti un variegato ventaglio di personaggi muliebri, laddove quelli maschili son più apollineamente stereotipati, in quanto descritti solo esteriormente dalle protagoniste.

A fronte del superamento della dicotomia tra epos e romanzo (quest’ultimo in veste di romanzo «speculativo», secondo la classica nozione offertane nel 1947 da Robert A. Heinlein in «On the Writing of Speculative Fiction»: un tema cui Atwood, dopo varie interviste e saggi, ha dedicato un libro, In Other Worlds: SF and the Human Imagination, che uscirà ad ottobre), L’anno del Diluvio non sancisce la crisi del romanzo. Si pone invece come romanzo della crisi di un’epoca, la nostra, mossa dall’anonimia delle strutture sociali a svantaggio dell’autorevolezza dei politici in quanto uomini, dei quali, smantellato dalle grandi Aziende lo stato, non v’è più ragion d’essere. Il potere senza volto contro cui si battono gli strampalati e buffi Giardinieri è affatto impersonale: non v’è un leader o un’oligarchia individualmente riconoscibile a capo delle multinazionali. Di contro Adamo Uno e Adamo Sette incarnano, col loro carisma, l’ideologia politica e la sua attuazione nella prassi belligerante dei Giardinieri.
L’anno del Diluvio è una scrittura parallela del romanzo di Atwood L’ultimo degli uomini (2003), visto da un’altra ottica: i protagonisti di quel romanzo son qui figure marginali e minute sotto lo sguardo sgranato di Toby e Ren, in lotta per la propria sopravvivenza. Di là dai continui ammiccamenti di Atwood, ritenere che i simpatici Giardinieri esprimano le sue idee tout court appare una forzatura. La scrittura di questa grande autrice canadese offre, pur dal punto di vista privilegiato di Toby, Ren e Adamo Uno, uno sfaccettato dialogismo ricco di contraddizioni, opinioni e incertezze. I dubbi euristici delle protagoniste son senza soluzione di continuità ed ogni evento, pur negativo, assume un risvolto di segno opposto, sulla scorta di Franz Kafka, così come il registro memorialistico-interpretativo dei fatti che si dispiega in molte pagine de L’anno del Diluvio riecheggia la scrittura di Anne Frank, combattuta, qual è quest’ultima, non meno di Toby e Ren, tra clausura, livore e aspirazione che la strappi dalla stretta procellosa del totalitarismo nazista.

Eppure, nonostante la distopia d’un universo degradato dalla tecnocrazia, la cifra più considerevole de L’anno del Diluvio è l’ottimismo, fatto d’affetti e solidarietà tra diseredati e fuoriusciti dal ‘sistema’: sono i buoni sentimenti ad emergere con prepotenza in questo romanzo epico di Margaret Atwood, pieno d’edificante didattica, spiritualità sincretica non fideistica e squisiti motti proverbiali. Il tono fiabesco e le immagini splatter s’alternano a sermoni religiosi ed inni corali d’impronta blakiana, l’arguzia comica e mordace si sposa come per miracolo ad un lirismo delicato e toccante, che conferma il posto di eminenza dell’autrice nel panorama della letteratura contemporanea di lingua inglese.

L’anno del Diluvio è sì un gran bel romanzo, ma non privo di recondite insidie. La maggiore consiste nella troppo esibita impostazione tassonomica mutuata dai «modi» proposti, a partire dagli anni Quaranta, dalla teoria critica di Northrop Frye, essa stessa ispirata al comparativismo antropologico di James G. Frazer e alla psicologia analitica di Carl Jung, basati sugli archetipi e le ricorrenze tipologiche. Toby che ritorna a casa dopo vent’anni per dissotterrare il fucile con cui uccidere l’antico nemico ricalca il mito di Ulisse che, fatto ritorno ad Itaca, recupera l’arco in disuso per uccidere i proci: e questo è solo uno dei tanti esempi del genere che si potrebbero segnalare.

Il voler poi costruire un romanzo a tesi di questo tipo ha indotto Margaret Atwood nello stesso rischio dell’Eliot dei Quattro quartetti e, in misura minore, di Luce d’agosto di Faulkner: quello di coniugare l’impareggiabile duttilità stilistica ed il vivido realismo ad una visione onnicomprensiva ed unitaria basata su una tradizione mitica, in un’epoca in cui tale approccio unificatorio appare una forzatura. L’età nostra, e prima di noi dei nostri trisavoli, è frammentaria, ineludibili i suoi contenuti, incerta la nostra presenza nel mondo, eterotopico e straniante l’accostamento dei saperi: la chiusa utopica de L’anno del Diluvio, pur nel segno d’un commendevole impegno militante di Atwood, si profila come controtendenza perniciosa alla sua scrittura rispetto ai grandi romanzi degli ultimi cento anni, votati quali sono, quest’ultimi, ad esprimere – e non a imitare – un universo senza via d’uscita, nel quale occorre fare i conti coi problemi mutevoli, senza l’ausilio di saperi ‘alti’ che, discendendo come il deus ex machina del teatro, indichino una retta via.

Tale distinzione tra «espressione» ed «imitazione della natura» Atwood l’aveva ben delineata nel suo primo romanzo del 1969, La donna da mangiare, dedicandovi diverse pagine. In quel romanzo, a dire il vero, l’espressività era piuttosto enunciata che realizzata artisticamente, mentre lo stile appariva immaturo, soprattutto nel fraseggio. Averne abbandonato l’idea di fondo a vantaggio della raffigurazione d’un mito di fondazione declinato al futuro ci consegna un romanzo indubbiamente più artisticamente valido rispetto al suo primo tentativo, ma in qualche modo paradossalmente alleviato nei contenuti dal ricorso all’abbondante sostegno architettonico che ne fa da struttura portante e del quale se ne intravede l’ossatura. Sotto questo rispetto, Margaret Atwood, nei limiti qui indicati, è comunque meritoria, di là dagli indubbi pregi de L’anno del Diluvio, d’aver tentato una via sperimentale che la mettesse in giuoco come autrice. Seppure tale via vada forse sfrondata dai fittissimi richiami mitici, se è vero che un vero poeta ruba e non prende mai in prestito. Forse, dico, perché l’ironia satirica di Margaret Atwood si diverte a mettere in crisi e ridisegnare grottescamente i miti patriarcali che l’hanno preceduta. »
di Nicola D’Ugo

Sito ufficiale del romanzo (in inglese):
http://yearoftheflood.com/

Sito ufficiale di Margaret Atwood:
http://www.margaretatwood.ca/

Blog di Margaret Atwood:
http://marg09.wordpress.com/

Margaret Atwood su Twitter (ufficiale):
http://twitter.com/MargaretAtwood

The Margaret Atwood Society:
http://themargaretatwoodsociety.wordpress.com/

3 pensieri su “Margaret Atwood, L’anno del diluvio

  1. Solida recensione. Il lettore ama la critica versatile, oggi più di un tempo.
    La Atwood probabilmente, come Eliot, con questo libro ha puntellato le sue rovine.

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