Altre Scritture, Antonio Celano

 Antonio Celano
a cura di Luigia Sorrentino

«Sono nato nel 1966 in una zona rurale della Basilicata, dalla bellezza scabra, periferica. Ricordo che d’estate, quando tutti avevano preso l’abitudine di riversarsi al mare sulle spiagge della vicina Calabria, a me piaceva fare la strada inversa. Andavo in campagna: mio nonno mi portava a pascolare le vacche, mia nonna si assopiva tardi accanto al fuoco col lavoro in mano. Ne amavo le acque correnti, i pioppi e i vincastri, il sapore dei gelsi e dei fichi. Ascoltavo la notte gli insetti far gemere il legno della scala che portava in soffitta, il soffio delle froge nella stalla di sotto, mentre i cani abbaiavano al buio accecante.

Lassù la corrente elettrica arrivò solo nel ’74: mio nonno tracciò la data nel cemento fresco del traliccio, come ad ammonire per una modernità intempestiva e inutile. In campagna io mi sentivo vivo, ma quello spazio era già un ventre vuoto. In quegli anni persino il paese, così legato al mondo contadino, iniziava a cambiare come di polarità, iniziava a orientarsi alle città, lieto di poterne costituire il cascame. Lo dico perché di questa logica son rimasto vittima: per anni non sono tornato in Basilicata se non per qualche giorno all’anno, ho studiato industrie e operai. Tuttavia, oggi mi rendo conto di aver scelto sempre città-non-città prive di grandi opportunità, di essermi portato dentro un modello che non poteva che naufragare, in seguito, in una nostalgia per la mia terra che non si era mai sopita.
Mi hanno sempre colpito le fasi di transizione, i passaggi storici, la fine di mondi, le catastrofi. E il mio occhio ha sviluppato una sua sensibilità per aggirarsi nelle periferie, nelle città che non contano più, nelle zone industriali. La prima cosa che ho scritto da bambino era una poesia dove la Luna osservava la Terra. Viaggio prevalentemente in treno, in autobus, in non luoghi che uniscono luoghi che solo attraverso, ma che non vivo.

Da piccolo ho sempre letto e sfogliato di tutto: fumetti, romanzi di avventura, fantascienza e racconti, e bellissimi libri sugli animali: mammiferi, avifauna, entomologia. Poi è stato il momento dei saggi e dei testi scientifici: biologia, etologia, storia, sociologia, politica (soprattutto testi sul meridionalismo), anche un’enciclopedia delle religioni che mi piaceva molto e che trovavo nella biblioteca di mio padre, contadino affrancatosi dal lavoro dei campi e poi laureatosi. Oggi mi considero un eclettico, mi innamoro a prima vista di certe tematiche poi sottilmente tradendole, passando lentamente ad altre loro collegate, attraverso un incedere che definirei metonimico. Sono lettore di superficie, estensivo, carsico, frammentario, eppure lento: ogni libro è un luogo dove mi piace stare per un po’.

Pisa, dove mi iscrissi al corso di laurea in Storia contemporanea, è una città dove le discipline mai sono state relegate in asettici poli tecno-scientifici o umanistici. Anche noi studenti abitavamo la stessa città universitaria, spesso imparando sulle materie più disparate. È stato là che ho capito che, mentre i linguaggi tecnicamente intesi si erano ormai specializzati e separati, i saperi potevano provare ancora a stare accanto, a interagire per una comprensione più vasta, meno provinciale del mondo. La storia, che ho abbandonato nello studio dei suoi contenuti, per me ha costituito la disciplina liminare per eccellenza tra scienza e umanesimo.

All’Università mi affezionavo agli insegnamenti, a volte ai professori, e li seguivo per più anni. Ho studiato cercando di costruire in me più di tutto la consapevolezza di un metodo, il rispetto delle fonti, soprattutto la comprensione dell’interpretazione di fondo della parte di mondo che ogni libro cerca di offrire.Leggo più di quanto scriva. Una scrittura, la mia, faticosa, tormentata non stilisticamente (anzi), quanto nella sua costruzione. Non mi appartiene la facilità di scrittura, ma il dovere della chiarezza, che è precisione della parola (o l’uso lucido della sua imprecisione), la pulizia del testo.

Fino ai tredici anni ho scritto con molto piacere. Piccole poesie, brevi racconti. Poi un deserto, un lungo silenzio: la scrittura affidata alla mera funzione scolastica. Qualche singhiozzo, solo ogni tanto. Sono tornato alla scrittura molto dopo. Mi premeva dire nuovamente qualcosa. Ma la lingua non aveva più bisogno dei classici o di ciò che avevo letto anni prima, bensì degli scrittori grandi e piccoli del Novecento. E prevalentemente italiani. Emersero alcuni racconti e corti narrativi molto legati a certe mie paure, a certe mie passioni o ossessioni, al mio passato e al mio presente. Una scrittura basata sul vissuto, sull’esperienza, su ciò che ben si conosce e si può dire. Riguardando oggi quei racconti, mi pare cercassi qualcosa che non ho ancora trovato, e quell’esperienza è come rimasta sospesa, in attesa d’altro. Probabilmente di tornare a crescermi dentro.

Forse ha giocato un carattere eccessivamente analitico, forse l’occasione di poter parlare di scritture e romanzi realizzatasi con il lavoro giornalistico sulle pagine culturali di quotidiani, fogli e riviste, ma in qualche maniera sono poi tornato alla mia formazione saggistica. Dei romanzi mi affascina capirne principalmente l’interpretazione della vita e del mondo e, poi, di quest’ultima in rapporto con il linguaggio reso. Mi rendo conto, a parte le recensioni di puro servizio, di tornare su alcuni scrittori, di girare attorno a certi temi. E scrivendo connoto, cioè scelgo dei temi e dispongo nuovamente, in altra maniera (alla mia maniera), quello che il narratore ha scritto per denudarne meglio il nucleo, la sua weltanschauung. Solo che mi rendo conto che anche io sto narrando e mi sto narrando. Sto nuovamente narrando un libro e un mio percorso all’interno del quale mi dico, e racconto i temi ai quali mi lego.

Tuttavia non mi reputo un critico, ma resto un recensore. Uno cioè che si pone l’obiettivo di ingolosire il lettore, di convincerlo che la lettura di quel libro vale la pena. Le vicissitudini e la spezzata disegnata dalla mia formazione non mi fanno sentire una pianta ad alto fusto nel bosco, ma un arbusto cresciuto sulla roccia. Pure, il senso di ciò che sono non sta nella fuorviante relazione, ma nella consapevolezza di quanto io possa essere pienamente arbusto, totalmente arbusto. Nella consapevolezza che ciò che narro, in forma di racconto o in forma di recensione, è la vita di altri contorti arbusti. Sembra a volte che la vita sia così fragile, che ci voglia un niente a spegnerla, mentre a volte la vita riesce a nascere sul difficile, comunque sofferta, ma caparbia

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Alfabeto
di Antonio Celano

B: Bandiere
Le avevo già notate durante alcune feste e durante i giorni del Mondiale, ma non ci avevo mai riflettuto. Fin quando, quest’estate, tornando da Maratea, seguendo il lungovalle del Noce, ho visto due piloni di cemento dove la bandiera italiana era stata dipinta al contrario. Rosso, bianco, verde. E così molte bandiere – mi sono subito ricordato – appese alla finestra, esposte allo stadio, sventolate in mille occasioni.
Un caso, mi sono detto sulle prime. Ma poi quella sensazione di qualcosa che non torna, ché una bandiera è sempre qualcosa che serve a comunicare all’esterno e agli altri uno spazio, una fede, un’appartenenza, un simbolo, un progetto, al limite una rivendicazione… invece è come se l’appendessero non per esporla, ma per guardarsela. Per offrire, con occhi rovesciati e inconsapevoli, uno spettacolo involuto o dubitativo del tricolore. Come a dire nel migliore dei casi: “l’Italia è certo la mia casa, la mia famiglia, questo balcone, ma di più non so, non so per gli altri” o nel peggiore: “L’Italia è la mia schiera, è il mio orto, il mio clan, il mio interesse. E dunque la mia Italia è più della vostra Italia” magari segnalata dalla stessa bandiera a rovescio…
Forse è vero: vengono prima i nostri occhi che guardano dentro, prima il rosso della nostra carne che ogni giorno sopravvive, prima il nostro sangue sempre meno vivo. Tuttavia varrebbe la pena di attraversare il bianco del silenzio, raggiungere il verde di uno spazio condiviso.

I: Imprenditore
L’imprenditore-editore guarda a destra, poi a sinistra. Tace. L’imprenditore-editore piega il viso: la cravatta poggiata su un poco di pancetta, il ricamo enigmatico delle iniziali. Alza la testa, dice: «E questo è quanto. Per cui, per ora, nessuna novità. Dobbiamo aspettare le banche». Si stringe nelle spalle.
E all’improvviso la giacca di buon taglio dietro la scrivania in radica, l’Ardengo Soffici appeso alle sue spalle, la foto mentre stringe il padre nel segno della famiglia e della continuità, perfino il mappamondo illuminato con tutti i fusi orari, stridono. Stridono e contrastano con i nostri maglioni e pantaloni di mercato, con le unghie laccate delle amministrative, con gli sguardi di sottecchi dei sindacalisti, con i volti contratti delle rappresentanze tutte, riunite al capezzale dell’azienda.
Stridono e paiono cose aliene che irridono il quarto stipendio d’arretrato, le ombre dei colleghi in Cig straordinaria, la caldaia rotta che ha tenuto per la stagione fredda tutti coi cappotti e fosse solo quello. Stridono, contrastano, irridono, ma solo per un momento, ché tutto pare ghiacciato via da un silenzio talmente cristallino e trasparente che risucchia d’un tratto il brusio del traffico impazzito a cinquecento metri di distanza, e satura la stanza dell’ora di chiusura degli uffici.

E: Etica del lavoro
«Mai ne cuntentamu. Lavoramu e lavoramu e mai ne cuntentamu. Pure ca nun ce manca nente, mai ne cuntentamu. Ed è ggiusto!»
(Colto dal dialogo tra due donne in treno poco prima della fermata Genova P.P., 2006)
N: Not in my backyard
Stazione di Empoli. Balza sul treno un tipo atticciato, i capelli grigi corti e dritti, tre rughe profonde sulla fronte bassa, la pelle quasi un po’ cotta. Appena nei corridoi, lascia sedere l’amica cotonata e ossigenata che s’è portata dietro e finalmente, tra la gente che a quell’ora del mattino legge o dorme, bercia verso la porta: «Mauro! Mauro, c’è posto qui!». E mentre l’altro gli urla «ma che ti urli, arrivo!», lo aspetta, si siede e domanda alla compagna di viaggio: «Allora, la situazione in Giappone?». L’amica fa per rispondere, abbozza un gesto. Il tipo: «Mh… e la Giovanna poi l’è tornata?…». L’amica dice: «Beh, sai…». Il tipo tronca: «Mah! Io domani so’ in trattoria a Sovigliana e poidomani a mangiare a casa della Teresa, sai a Spicchio?».

X: Xeno
Davanti, una strada. Tra i capannoni, dei pioppi. Nello slargo invaso dall’erba, una baracca. Assi appoggiate alle lamiere. Per porta una tenda. Dietro la tenda, mi pare, nessuno.
Fuori, un vecchio che scruta, a distanza, i miei possibili gesti. In mano un bastone. Marocchino, egiziano, somalo… vuol dire? Sembra venuto da un mondo più alto, la tunica scura, la fronte rugosa, le dita indurite. La mano al petto: «Ahmed», dice – e poi un rapido gesto d’invito.
Dietro la tenda, uno spazio. Sull’unico muro, una mensola. Per terra un baule, due sedie spaiate. Sulla tavola una fruttiera sbeccata. Sul portafrutta un’unica pesca appena avvizzita.
Attorno alla sfera, gravitati dal profumo, tre moscerini indolenti. Plutone, Xeno, Caronte. Mi chiedo, a un tratto, quanto avranno dibattuto gli astronomi su forma e grandezza di sassi così lontani. Mi chiedo se qui la domanda abbia un senso, se qui abbiano un senso – per dire – gli antichi Rudimenta di Alfergano.
Invece, sulla mensola, un Corano. Ahmed sorride con occhi d’antilope. Indica la sedia. Versa un bicchier d’acqua, mi invita al suo convivio.

10 pensieri su “Altre Scritture, Antonio Celano

  1. Pingback: Altre scritture (a cura di Luigia Sorrentino) « Antonio Celano

  2. Devo dire che mi sono sentito a casa quando ho letto il tuo testo, perché la pulizia del testo di cui parli è una cosa importantissima per la trasmissione di un messggio e perché il linguaggio ha bisogno di vocabolario, e ho notato che l’uso disinvolto ma autentico e discreto del tuo vocabolario produce un’immagine tersa e luminosa…

  3. Rispondo a Davide dicendo che la qualità che mi ha maggiormente colpito di Antonio Celano è la trasparenza del linguaggio. Credo che corrisponda, anche, alla sua natura umana. Quindi non è solo una scelta stilistica, e questo mi piace, perchè avvicina la sua prosa alla poesia, o a una scrittura ‘altra’.

  4. Posso allora ringraziarvi, Luigia e Davide, per i commenti? Perché mi aiutano a chiarire alcuni aspetti della mia scrittura e a proseguire più spedito sulla strada già intrapresa.

  5. E’ una trasparenza che invita l’occhio a spingersi oltre la superficie fino a scandagliare i fondali dell’anima. La cura nella scelta dei vocaboli si accompagna a un’attenzione speciale per la resa musicale della frase. E’ una scrittura che – anche a mio avviso – molto si avvicina alla poesia, pur restando sempre concreta e aderente alla realtà.

  6. Leggere questo testo mi ha emozionato. Mi ha coinvolto. Mi ha fatto venire voglia di rileggerlo, subito, appena terminato. L’ho anche stampato. Vorrei che Antonio Celano scrivesse un romanzo perchè vorrei leggere più di lui. Sarebbe un’emozione più estesa, da diluire nel tempo, da assaporare con calma.
    Complimenti per la sceta.

  7. Beh, se non fosse stato per Luigia che mi ha dato spazio… e colgo l’occasione per ringraziare tanto anche Elena e Roberta, solo aggiungendo che il mio modo di scrivere è quello dell’introduzione, ma soprattutto quello dei pezzi “in presa diretta” di “Alfabeto” che giustamente Luigia ha voluto pubblicare.

  8. La tua rosica perenne, l’erosione delle superfici e dei fondi, a creare polveri che il tuo vento non disperde ma organizza, divampa, sconvolge,condensa e spalanca. Le tue parole,le tue frasi, restituiscono sempre a noi che ti seguiamo gli occhi della tua mente e della tua anima. E questo è solo l’inizio del tuo proseguimento, Antonio. I miei complimenti.

  9. Denise, grazie per le tue parole. Che leggo amiche e sincere anche ora che la distanza ferroviaria è tornata a farsi sentire. Sei una grande creativa, ottimi traguardi anche a te.

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