Nicola Bultrini
a cura di Luigia Sorrentino
«Vivo la poesia come uno stato del pensiero. Un’esperienza di conoscenza legata ad una differente osservazione del reale (materiale e immateriale). Si legge la filigrana delle cose, si ascoltano i rumori di fondo, si raccolgono le ombre. Naturalmente questo significa guardarsi dentro, tanto a fondo da scoprire un Io che diventa Noi. La radice comune, il respiro condiviso. Questo implica il coraggio di spogliarsi ed esporsi a tutti i venti. Significa confessare l’altrimenti indicibile. Significa riscoprire la propria consapevolezza di appartenere alle cose, più di quanto le cose ci appartengono.
Negli anni della mia poesia lo sguardo è fortemente rivolto alla memoria. Ma non a quella ufficiale (sia collettiva che privata). Ci sono infatti cose che osserviamo attentamente e riponiamo con cura nella nostra memoria. Altre che invece la coda dell’occhio raccoglie e consegna al subconscio. Sono queste le immagini che, conservate nel profondo e non corrotte dalla ragione, riaffiorano nel tempo. Sono i frammenti che costituiscono la trama tenace e più autentica della nostra conoscenza del vivere. Così le ultime poesie vorrebbero la consistenza fossile degli accadimenti più naturali, anche se meno apparenti. Spesso le mie poesie sono notturne (nel senso di ispirazione), lavorate con parsimonia, senza facili esercizi di stile. Non credo di cedere spesso ad una effimera nostalgia, piuttosto cerco di acquisire consapevolezza dell’esistente, quindi della sua attualità, perché siamo sempre più di quello che pensiamo. Vorrei sempre chiamare le cose per nome, senza abbandonarle a sterili sperimentalismi formali, ma consegnandole ad un verso piano e affidabile. Sento la mia scrittura nel solco della tradizione del Novecento, cui credo intimamente di appartenere. Nell’essenzialità della parola un riferimento principe è senz’altro Ungaretti, cui ho dedicato il saggio Pianto di pietra. La Grande Guerra di Giuseppe Ungaretti»
di Nicola Bultrini
La coda dell’occhio di Nicola Bultrini (Marietti, 2011)
“Una poesia che trattiene e offre, senza esibizioni, la forza delle emozioni e dei ripensamenti. Una solida chiara offerta di parole arricchite dalla vita, dai suoi giacimenti segreti, intimi, ma anche dalle sorprese più sfacciate. Un poesia che, quasi con destino ungarettiano, narra il viaggio di un uomo che, viandante, tocca i precipizi di una “impaziente solennità” del pensare, come dice Bultrini. Arretrando da qualsiasi tentazione di gioco, i versi, in una paziente tessitura, si fanno ospiti dei movimenti inquieti di chi intende la vita come viaggio e conoscenza. Questo è un poeta che al centro della stanza del cuore fa suonare i molti giri dei pianeti, il male, la storia, Dio e le minime occasioni. Con lo spudorato, profondo pudore che distingue la poesia autentica, vita vera della letteratura”.
(Davide Rondoni)
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Ma io non sapevo, non potevo sapere,
che il tempo avrebbe, come ha fatto,
la differenza. Quando mio padre
s’affannava al superotto, io non capivo
e a volte distratto non credevo,
che il tempo avrebbe slavato i colori,
i rumori. Guarda, guarda bene,
c’erano tutti o quasi. Il cielo d’alluminio
e un suono dal mare, come d’azzurro.
Queste ed altre cose io non vedevo,
andando via di schiena, o forse
immaginavo, con la coda dell’occhio.
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Ancora il mare, lama tagliente
all’orizzonte. Le prore beccheggianti,
nel silenzio che è furore. E il sole
che s’ infila dappertutto, cerca la pelle,
la scava, la solleva, l’asciuga,
la porta nell’aria, leggera,
come squama di serpe a primavera.
E fa la polvere del mondo
che muore addosso, mentre noi
parliamo, pensiamo e parliamo.
Ma in fondo salvare non possiamo.
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Non è che non mi piaccia l’avventura,
va bene anche sposarsi, avere cura.
La corsa contromano degli eventi,
gridare, nervi tesi, fino al pianto.
Va bene il salto a vuoto, il calcolo del rischio.
Ma è quel passo incerto del pensiero,
lo scricchiolìo del mondo,
talvolta, che mi fa un po’ paura.
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Reggo una terra di tanti.
Reggo la storia, in petto,
il profumo del tempo.
Serbo la brace in gola,
neve negli occhi.
Tutto ho pensato e tutto posso.
Non ho stanchezza mai.
Ma ho una fragilità
di creta in fondo all’anima.
Guardami mentre sogno.
Sono gigante.
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Dietro la curva ancora la salita,
irridente quasi del sentiero
di terra, muschio e schegge di roccia.
L’estate scivola in cima alla montagna
e il silenzio ha uno sguardo severo
su me che spingo il ferro intermittente
e gonfio un mantice di fiato
e di speranza. Non c’è che andare,
figli adorati, avanti e in alto
per arrivare in quota, smarrire
l’orizzonte, come a sopravvivere
e sopravvivendo vivere.
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Vedi la gente sopra al ponte,
lasciami guardare, come sembrano felici
le ombre che s’allungano al canale.
Vibranti come gli anni, lontani,
che puoi solo immaginare.
Nell’aria un cielo di conchiglia,
e tutto sembra desiderabile,
come respirare ogni cosa al proprio posto.
Cos’è che scrivi, per chi?
Non vedi siamo soli, al mondo,
troppo sole attorno, e intanto soli.
Lasciami sognare ancora, non chiamare.
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Prima di tutto la linea sottile
del cielo, come cornice.
Poi il disco solare e netti, attorno
i raggi. Quindi una casa, i muri,
il tetto spiovente, la porta col battente
bene in vista e le finestre appena
sopra e simmetriche. La trama
si arricchisce poi di piante
ornamentali, se capita un uomo,
cespugli e infine una nuvola,
schiumosa e bianca. Più raramente
un cielo nero e gocce di tempesta.
Una volta soltanto, durante la messa,
Gesù disteso, nella nuvola, a mani
aperte, chiaramente sorridente. Così
disegnano i bambini, ed io non più.
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Nicola Bultrini, nato nel 1965 a Civitanova Marche, vive e lavora a Roma. Scrive per i quotidiani “Il Tempo” e “Avvenire”. Ha vinto il Premio Montale 2002, sezione “Inediti”. Tra le sue pubblicazioni: I fatti salienti (Chiari, 2007); La Grande Guerra nel cinema (Chiari, 2008); Pianto di pietra. La Grande Guerra di Giuseppe Ungaretti (Chiari, 2007).
Conosco “La coda dell’occhio”. Si tratta di un bel libro davvero, di quelli che ridanno fiato e ossigeno alla poesia. E smentiscono una volta di più – data di nascita dell’autore alla mano – l’errata convinzione che un’intera generazione (la sua, appunto) non abbia lasciato traccia.
Sono daccordo con Davoli. Al centro del libro è l’uomo, in una nuova positività, in una nuova fiducia. E in due figure principali: il padre, ossia la responsabilità, la cura e la responsabilità che lo fa immenso (“Il padre è sempre una figura immensa, / chiamata silenziosamente a fare, / perdonare, guardare soffrendo, / lentamente il figlio andare”); e il naufrago, colui che perde le cose, per capire (“Come naufrago, che tutto ha perduto / e tutto capito, io vorrei tornare”). Il suo neo- umanesimo lo metterei accanto a quello di Umberto Fiori, di Davide Rondoni, e anche a me.