Giorgio Vigolo, l’eremita di Roma

Altre scritture
a cura di Luigia Sorrentino

Pubblico con molto piacere la recensione di Fabrizio Fantoni al saggio  di Magda Vigilante su Giorgio Vigolo, L’eremita di Roma, Fermenti 2010 (€ 16,00). 
Un saggio importante  perchè Vigolo è uno dei rari autori del Novecento che, come scrive Fantoni, hanno dato alla cultura italiana un apporto rilevante.  Giorgio Vigolo, poeta, narratore, ma anche critico musicale e traduttore ha, inoltre, il grandissimo merito di aver scoperto e tradotto per la prima volta nella nostra lingua uno dei più importanti poeti di tutti i tempi: Friedrich Hölderlin.

 

                                                                             

                                                  di Fabrizio Fantoni

«Sono pochi gli autori del Novecento che hanno dato alla cultura italiana un apporto tanto rilevante quanto quello di Giorgio Vigolo. Poeta, saggista, musicologo, traduttore di autori stranieri – tra i quali Hoffmann e Holderlin – instancabile studioso del Belli – di cui curò nel 1952 la prima e ancora insuperata edizione critica dei Sonetti – Vigolo, nella sua lunga vita, svolse un’attività poliedrica e multiculturale di primo piano che, tuttavia, ancora oggi, a distanza di quasi trent’anni dalla sua morte, stenta ad ottenere il riconoscimento che gli spetta.

Ed in effetti rileggendo la produzione poetica di Vigolo dal 1923 al 1966, radunata nella raccolta “La luce ricorda” (Mondadori 1967) non si può fare a meno di provare un moto di stupore e al tempo stesso di sdegno al pensiero che un autore di tale spessore venga ignorato dalla maggioranza delle antologie e dei repertori dedicati alla poesia italiana del Novecento.

La ragione di tale dimenticanza deve essere ricercata nel carattere difficilmente etichettabile della poesia di Vigolo e, soprattutto, nella sua irriconducibilità ai paradigmi dello sperimentalismo propinati dalle avanguardie che tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Settanta imperavano nel nostro paese. A tal proposito Biancamaria Frabotta nel suo “Quartetto per masse e voce sola” citando Vigolo ricorda: “[…] E anche Giorgio Vigolo, un altro grande innominabile, uno dei pochi veri flaneurs italiani, e lui sì romano dalla testa ai piedi. Non erano tempi adatti alla sua ‘città dell’anima’ così cattolica, barocca, anteguerra, al malsano incantesimo della sua Roma maniacalmente rivisitata, al ‘sogno delle pietre,’ ‘alla luce che ricorda,’ alla sua prosa così visionaria, straniante, grondante. ‘In una notte ormai lontana della mia adolescenza, Roma mi apparve nella sua arcana figurazione di musiche , composte in una corona perfetta’ cit. Chi poteva leggere ad alta voce una frase siffatta senza essere circondata da un imbarazzante silenzio?’ […]”

 

A rivalutare l’opera di Vigolo è intervenuta la recente monografia di Magda Vigilante intitolata “L’eremita di Roma, vita e opere di Giorgio Vigolo” (Fermenti 2010, € 16,00): un’opera questa che, per l’ampiezza e profondità della trattazione e la vastità dei materiali utilizzati, può essere considerata come il più importante contributo critico sull’opera dell’autore romano.

Frutto di un lavoro decennale sull’archivio del poeta, il saggio della Vigilante propone un’attenta ricostruzione della vita dell’autore – inquadrandola nell’ambito dell’ambiente culturale romano del primo e secondo dopoguerra – per poi soffermarsi sullo sviluppo poetico di Vigolo: dagli esordi, avvenuti nel 1935 con la prima raccolta di poesie intitolata “Conclave di sogni” fino alla cosiddetta terza fase rappresentata dal libro “La fame degi occhi” (Edizioni Florida ,1982).

Il quadro che se ne ricava è quello di una poesia che fin dai suoi inizi appare connotata da una “onirica, delirante visionarietà” che trova la sua definizione nella concezione vigoliana della poesia intesa come “clausura”, distacco dal mondo, nel tentativo di recuperare la propria interiorità. Scrive, al riguardo, la Vigilante ” Vigolo evidenzia il passaggio dal mondo esterno a quello interno come caratteristico dell’atto poetico. Seguendo questa intuizione, il poeta deve calarsi nella propria <<camera>> interna, segregarsi in un certo senso, come fanno i cardinali, da quanto avviene all’esterno per esplorare il suo sé più intimo dove trapela la luce soprannaturale. Vigolo affermò infatti che per lui l’invisibile si poneva al limite di ogni sua esperienza poetica, concepita come un atto metafisico a un grado di alta temperatura visionaria”.

Si leggano ad esempio i versi iniziali della poesia “Il ritorno di sera”: ” Un silenzio m’invita/ di perduti sentieri/ a un alto prato ove fra i monti sola/ mi sorprende la sera: e come chiudo/ in me lo sguardo a contemplare intento/ vedo nel cuor sorgere un’alba/ e illuminarsi un ignorato mondo:/ dentro di me nascondo un altro cielo./ E par che il sole che nei boschi cade/ e brune lascia le contrade e i monti,/ in me stesso rinasca ad albeggiare/ e non tramonti.” La poesia per Vigolo è dunque lo strumento per riportare alla luce frammenti sepolti di un mondo interno che, riemergendo come in un sogno, vanno a sovrapporsi agli elementi del mondo esterno.

Lo sguardo visionario di Vigolo non poteva che coinvolgere anche Roma, la città dell’anima oggetto di molte sue liriche. Scrive Caproni in una recensione del 1959: “Nutrito di malinconia e di filosofia (e di musica), invero Vigolo è di tutti i lirici nostri il più fascinato – appunto come può restarlo solo uno spirito candidamente laico – della grande Maliarda: da questa grande fattucchiera ch’è la Roma pagano-cattolico barocca delle romantiche rovine, umide di tempo e di licheni, e delle “chiese vendicative,” tanto da poter addirittura dire che la forma evidente, o recondita, della poesia stessa (del medesimo linguaggio) di Vigolo, altro non è che la medesima forma di questa Roma, capace d’impressionare nei precordi, quasi con maleficio (è la rosseggiante Roma, marcia di tempo e di storia, visionariamente dipinta da Scipione, e in parte anche da certo Palazzeschi) uno spirito per natura, e per scelta di cultura secondo quella natura, predisposto.”

Roma diviene per Vigolo la prigione, la cella in cui i fantasmi che va cercando “in fondo ai labirinti più segreti/ della memoria d’una vita spenta” si materializzano, assumendo la forma delle figura angeliche e demoniache che sogghignano agli angoli delle strade. “Roma, questi fantasmi pietrificati/ fra i quali io mi aggiro da sempre/ e che si disciolgono la notte/ e si rovesciano nei miei sogni/ come un Tevere/ che nel mio sangue s’insala…/ ma poi di giorno, eccoli di nuovo diritti/ agli angoli delle strade,/ sugli sfondi del cielo o fra le nuvole,/ i fantasmi di pietra/ mi guardano, mi aspettano/ che diventi uno di loro.”
Con “L’eremita di Roma” Magda Vigilante porta a compimento un lungo percorso iniziato più di dieci anni fa con il riordino e la catalogazione dell’archivio di Vigolo. Alla Vigilante, a questa appassionata studiosa e bibliotecaria, va il merito di aver rivalutato un grande protagonista della poesia del nostro Novecento.»

Per informazioni sulla biografia di Giorgio Vigolo vai qui

1 pensiero su “Giorgio Vigolo, l’eremita di Roma

  1. Lucidissima. Scivola veloce e diretta questa recensione.
    Complimenti, poi, alla Vigilante.
    Dopotutto, sono tantissimi gli autori che andrebbero rivalutati con cura del nostro Novecento.

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