Opere Inedite, Giorgio Prestinoni

Opere Inedite
a cura di Luigia Sorrentino

Oggi a Opere Inedite leggiamo la poesia di Giorgio Prestinoni che mi scrive: “Ancor prima che altri mi invitassero a un’assunzione di responsabilità nei confronti della scrittura e mi riconoscessero come poeta, mi sono fatto molte domande sulla poesia e mi son dato molte risposte. Tutte significative, ma personali e sicuramente di poco interesse per chi dovrebbe avere la pazienza di leggere i miei versi. Però vorrei rivelarne una e vorrei farlo perché credo sia l’unica che possa interessare anche altri. Per me la poesia è e resterà soprattutto dedizione alla lettura. Meglio essere buoni lettori che cattivi poeti.
Se vogliamo stare sulle generali, ma mettere un punto fermo imprescindibile, occorre ribadire fino alla noia che la poesia è un linguaggio. Questa semplice definizione dovrebbe bastare per capire quanto l’aggettivo “poetico” e il sostantivo “poesia” siano usati a sproposito. Tutto ciò che non rispetta le regole di questo linguaggio non è poesia (ma tutto ciò che le rispetta non è sempre buona poesia). Così, per esempio, una canzone non è una poesia.

Se è vero che la poesia è un linguaggio allora non mi sembra tanto importante sapere perché un autore lo ha scelto. Di solito per motivi suoi e, di solito, perché gli è congeniale, gli riesce bene. La cosa interessante invece mi pare sia capire come un autore usa questo particolare linguaggio, a quale scopo.
A me piace raccontare e provo ad usare la scrittura in versi per farlo. Racconto storie, a volte vicende di persone e il linguaggio poetico mi dà la possibilità di raccontare a modo mio. Questo modo non è quello del romanzo, della novella, del saggio o altro. Ciò che mi preme fare è raccontare abbandonandomi al flusso della memoria e, soprattutto, alle sue lacune. La memoria umana lavora in modo curioso, sfruttando le sue debolezze. La nostra è una memoria che ricorda poco, ma riempie i vuoti che subito si creano con l’affabulazione e, ne sono convinto, questo ha determinato il nostro essere una specie culturale. Quale altro animale fa dell’affabulazione la base della comunicazione? Noi creiamo miti e leggende perché è l’unico modo che abbiamo per mantenere traccia di ciò che fisiologicamente dimentichiamo. La parola mantiene in vita la nostra umanità e ci rende unici inventando storie, riferendo notizie ma anche offrendoci strumenti per mimetizzare noi stessi attraverso i codici che ci siamo dati. Più in particolare io credo che la parola poetica, pronunciata o scritta, svolga in maniera eccellente la funzione di “notizia” e sia uno straordinario strumento mimetico. Non è, il mio, un pensiero originale, ma mi conforta sapere che anche un grande maestro della poesia contemporanea come Giampiero Neri la pensi così.”

di Giorgio Prestinoni

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da: IL DANZATORE
(cinque pezzi ballabili)
I

Nasce un giorno di gennaio il danzatore,
scosso da tremendi brividi. Se c’è un senso,
oltre la gioia dei polmoni che si scollano
e il selvaggio dolore, se c’è un senso sta
nel ritmo dei ballabili, nella sincronia.

Scopre molte cose, per esempio
di non avere l’indole del fuochista
o suo padre dire: “Diamine!
si muove come un tacchino
furibondo” o sua madre guardarlo
di sottecchi scivolare via leggero.

Ha un cane, lo chiama Blu.
Blu gli insegna il movimento guardingo
e gli dice preciso quando sciogliersi
nella corsa ed essere contento
di queste membra e quando saltare.
In tutto ciò che attira il suo sguardo
c’è un ritmo binario, una sorta
di cadenza, sistole – diastole,
solo questo respiro, questo soltanto.
II

Nel sogno che sogna per varcare la notte
si rappresenta l’intelligenza dei coreografi
costernati dalle sbavature dei gesti
e li vede soddisfatti dal rumore acerrimo
di prodigiose macchine di scena,
finché li sbaraglia una bambina
insistendo sugli acuti della voce:
“Quando chiudo un pochino gli occhi
ecco! … i piccoli arcobaleni”.

Imparerà dall’iridescenza di febbraio
l’orbita cangiante della scintilla
e imparerà a tacere, a disertare ogni luogo,
a dormire, finalmente riverso e inquieto.
III

L’orientamento è chiaro,
delimita uno spazio
oltre ciò che lo confina,
uno spazio da considerare,
forse un’attesa, gli pare;
ma che importanza ha?

Così gode della sorte,
della brevità dei numeri.
Spende piccole sostanze
in cartoline colorate,
largheggia con le speranze,
con le vedute, l’altimetria.

È marzo ed aspetta ancora
un paio di minime epifanie:
quel sorriso squinternato
delle ragazze del corpo di ballo
e l’andatura di certi uomini
con giacche stirate, cravatte sottili.
IV

Allora verrà l’aprile che ben ricorda.
Si dice che verrà e il ragazzo è qui,
lo chiama per nome, lui vorrebbe toccarlo,
sentire di che sostanza sono queste parole.

Verrà con il suo cane sciancato.
Si dice che verrà e la danza così
avrà modo di continuare e la memoria
di ricordare questo e altri privilegi.

Il privilegio di essere ciò che siamo;
e ciò che siamo non ha nome, solo forma
e solo quella. Lo sanno le siepi, gli uccelli
e sospetta lo sappia anche il suo cane.
V

L’orchestra si ostina su cinque pezzi ballabili,
il danzatore osserva i passi di una coppia.
Difettano di grazia, ma non perdono un ballo.
Lei ricorda maggio tiepido e ventoso,
lui somiglia all’orizzonte spazzato dalle correnti.
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Giorgio Prestinoni é nato a Varese nel 1957. Sue poesie sono state pubblicate sul libro collettivo “Mi Ricordo Mauro” (Stampa, 2002, fuori collana), sul magazine “Lo Specchio” del quotidiano La Stampa (2006), sulla rivista di poesia e ricerca Il Monte Analogo, su Copertine di M.meWebb e sull’Almanacco dello Specchio (Mondadori, 2008).
Nel 2007 é uscito il suo primo libro Antologia d’Acqua con prefazione di Maurizio Cucchi, presso la casa editrice Stampa, nell’agosto 2010 la plaquette Giovanni (L’Arca Felice, Salerno, edizione non commerciale) con interventi visivi di Marco Vecchio e, nell’ottobre 2010, “Venne l’angelo boxeur” (Lieto Colle) con prefazione di Tiziano Rossi e disegni di Massimo Dagnino.

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