Paolo Statuti e la traduzione della poesia
a cura di Luigia Sorrentino
“Le mie prime traduzioni di poesia risalgono all’inizio degli anni Settanta, quando frequentavo la facoltà di Lingue e Letterature Straniere Moderne (ramo slavo) all’Università di Roma. Un giorno chiesi all’assistente del mio professore Angelo Maria Ripellino, quale fosse secondo lui la migliore traduzione italiana del poema “I dodici” di Aleksandr Blok. Egli me ne indicò un paio ma poi, vista forse la mia faccia poco convinta, aggiunse con una velata punta d’ ironia: “Se queste versioni non la soddisfano, può sempre tradurselo da sé”. Accolsi senza indugio l’invito e il risultato fu una nuova versione del poema, che piacque subito e venne pubblicata dalla “Fiera Letteraria” (F.L. n. 18, 13.6.1971). Al poema di Blok hanno fatto seguito numerosi altri “tentativi” personali, a detta di molti pienamente riusciti. Tra i primi successi conseguiti in questo campo, mi piace ricordare l’antologia di poeti polacchi contemporanei, annessa alla “Guida alla moderna letteratura polacca” di Jerzy Pomianowski (Bulzoni Editore, Roma 1973), nella quale figurano 60 poesie di autori diversi nella mia versione.
Oltre ai poeti polacchi, tra gli altri da me tradotti ci sono: Edgar Allan Poe, Thomas Moore, santa Teresa d’Avila, J. Wolker, Karel Havliček Borovsky, A. Blok, V. Chlebnikov, E. Bagrickij, W. Chodasewicz, V. Inber. L’ultimo mio importante lavoro è uscito a novembre del 2010: Marek Baterowicz, Canti del pianeta, Ed. Empirìa, Roma. Attualmente mi sto cimentando con la poesia di Boris Pasternak, un poeta che amo molto e che mi consente in modo ideale di affinare il mio impegno e il mio entusiasmo.
Considero un testo poetico da tradurre come un testo musicale da interpretare, ma mentre il virtuoso concertista deve fare appello unicamente alla sua tecnica e sensibilità artistica, il traduttore deve, in aggiunta, utilizzare un diapason diverso da quello del testo originale, nella speranza di raggiungere, per quanto è possibile, lo stesso effetto e gli stessi pregi nella sua propria lingua. Non ricordo chi disse: “La traduzione è il rovescio di un tappeto: i rabeschi sbiadiscono. E tuttavia i traduttori si sforzano di rendere la vivezza dei colori e le sfumature dei toni”. Ad esempio, traducendo “Il corvo” di Edgar Allan Poe, ho cercato di riprodurre il più fedelmente possibile il suggestivo e arduo gioco di rime, assonanze, allitterazioni, la musica allucinante e patetica che pervade questa funebre canzone del rimpianto, lascio ad altri giudicare se ci sono riuscito.
Si è scritto e si scrive molto sull’arte della traduzione poetica, e sulle possibilità e qualità della stessa esistono pareri diversi. Alcuni, come ad esempio Vladimir Nabokov nel suo articolo “Problems in translation: Onegin in English”, ritengono che ogni traduzione poetica sia una mistificazione, e che sia meglio limitarsi a fornire il senso generale, preferendo la traduzione letterale o addirittura in prosa. P.B. Shelley, perennemente insoddisfatto della sua traduzione del “Faust” di Goethe, nella sua opera “Defense of Poetry”, si dichiara più a favore della imitazione, che della traduzione letterale. Egli intende l’imitazione come nuova creazione poetica e per questo raccomanda che il traduttore sia anche poeta, raccomandazione fatta anche da altri, come ad esempio il poeta russo Nikolaj Gumiliov nel suo articolo “Le traduzioni poetiche”. Questa a mio parere è una condizione molto importante, anche se ovvia. Però, secondo Shelley, il successo è un fatto casuale. Più spesso accade che il traduttore “adombra con il grigio velo delle sue parole la vivida poesia dell’originale e modifica il testo al punto che nelle mani del lettore non rimane altro che un caput mortuum”. In altre parole, qui più che la figura del traduttore-traditore, appare quella del traduttore-uccisore. Malgrado questi timori, Shelley come si sa, tradusse dal tedesco, dall’italiano e dal latino, sempre con grande passione, anche se non sempre pienamente soddisfatto.
Oltre a questi pareri così autorevoli, ma piuttosto pessimistici, ce ne sono altri, secondo i quali, a certe condizioni, è possibile creare delle buone traduzioni poetiche. Artur Sandauer, critico letterario, saggista e traduttore polacco, scrive che “compito della traduzione poetica non è quello di abbigliare semplicemente il contenuto dell’originale con la veste di un’altra lingua, ma quello di crearne una nuova, quanto più possibile simile a quella del testo da tradurre…Il lavoro del traduttore della poesia consisterà quindi nel suscitare un’impressione simile a quella del testo originale…Costretti dalle condizioni della traduzione, che è sempre un sistema di compromessi, a volte rinunciamo ai valori secondari a favore dei principali…purché sia salva la generale identità di senso e stile”. Vorrei riportare ora un bel brano di una lezione dello scrittore polacco Jan Parandowski, dedicata alla traduzione letteraria: “Il traduttore, se vuole essere degno dei suoi autori, non può fare a meno delle proprie capacità creative, dell’inventiva, dello slancio, dell’intuito…Quanta bellezza lo attende per la sua fatica…E quanto è bella la fatica stessa!…E’ un fatto straordinario, una insolita e inebriante avventura. Scegliere la cadenza delle frasi, decidere quale tra dieci sinonimi sia proprio quello che rende il testo comprensibile…e gli dà una nuova vita – non di un automa, ma di una creatura come generata nella libertà dello sforzo creativo”. Proprio queste parole dello scrittore polacco spiegano, tra l’altro, perché io ami tanto tradurre la poesia.
Mi rendo conto che realizzare una traduzione che uguagli perfettamente l’originale è pura utopia, o un caso molto fortunato, come dice Shelley. Personalmente cerco di ricreare con fedeltà il testo poetico, sia pure con certi inevitabili mancamenti. Mi piace conservare le rime, anche se ciò costringe a volte ad allontanarsi dall’originale e a creare nuove immagini, pur restando esse consone al pensiero del poeta e allo spirito del testo da tradurre. Sì, mi piace mantenere le rime perché esse, se non sono banali, costituiscono un’ulteriore sfida, un’ulteriore soddisfazione, e aiutano a conservare la musicalità del verso, come ad esempio in Pasternak.
Da questo punto di vista, vorrei attirare l’attenzione di chi mi legge sulle difficoltà lessicali e fonetiche della bellissima e magica poesia “Trasformazioni” del poeta polacco Boleslaw Lesmian. Nella mia traduzione ho cercato di ricreare ritmo, rime, metro e suono. A volte ho dovuto inventare dei neologismi, come ad esempio “capriolamente”, “si trasanguò”, “si traschiacciò”, o usare parole non comuni, come “scricchiando” anziché scricchiolando o “inciprignito” anziché accigliato. Per via della rima, infine, ho cambiato anche alcune parole, ricorrendo quindi al “compromesso” di cui parla Sandauer.
Potrei dilungarmi ancora su questo tema, ma mi sembra sufficiente quanto già scritto. Per concludere toccherò ancora una volta il tasto della musicalità, raccontandovi cosa avvenne a Nairobi verso la fine degli anni ’70, quando ero impiegato dell’Alitalia presso l’ufficio di rappresentanza per il Kenya. Un giorno l’Ambasciata Polacca organizzò per me un incontro di poesia. Qualcuno leggeva il testo polacco, mentre io leggevo la mia versione italiana. La sala era al completo e l’incontro riuscì bene. Al termine dello stesso l’ambasciatore mi ringraziò e aggiunse: – Non capisco una parola d’italiano, ma il suono delle sue versioni mi è piaciuto molto.”
di Paolo Statuti
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Boris Pasternak (1890 – 1960)
Определение поэзии
Это – круто налившийся свист,
Это – щелканье сдавленных льдинок,
Это – ночь, леденящая лист,
Это – двух соловьев поединок.
Это – сладкий заглохший горох,
Это – слезы вселенной в лопатках,
Это – с пультов и с флейт – Figaro
Низвергается градом на грядку.
Все, что ночи так важно сыскать
На глубоких купаленных доньях,
И звезду донести до садка
На трепещущих мокрых ладонях.
Площе досок в воде – духота.
Небосвод завалился ольхою.
Этим звездам к лицу б хохотать,
Ан вселенная – место глухое.
***
Definizione della poesia
E’ il fischio sparso all’improvviso,
Il crepitìo dei ghiaccioli,
La notte che gela la foglia,
Il duello di due usignoli.
E’ il pisello inselvatichito,
Il pianto del cielo nei baccelli,
Figaro dai leggii e dai flauti
Che sulle aiole cade a granelli.
E’ tutto ciò che alla notte importa
Trovare nei fondali profondi,
E una stella portare nel vivaio
Sui palmi bagnati e tremebondi.
Più piatta d’una tavola è l’afa,
Il firmamento è sommerso di ontano,
Alle stelle si addice ridere,
Ma l’universo è sordo e lontano.
1917
(Trad. di Paolo Statuti)
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Johann Wolfgang Goethe (1749-1832)
Mignon
Kennst du das Land, wo die Zitronen blüh’n,
Im dunkeln Laub die Goldorangen glüh’n,
Ein sanfter Wind vom blauen Himmel weht,
Die Myrte still und hoch der Lorbeer steht,
Dahin! Dahin
Möcht’ ich mit dir, o mein Geliebter, zieh’n.
Kennst du das Haus? Auf Säulen ruht sein Dach,
Es glänzt der Saal, es schimmert das Gemach,
Und Marmorbilder stehn und seh’n mich an:
Was hat man dir, du armes Kind, getan?
Kennst du es wohl?
Dahin! Dahin
Möcht ich mit dir, o mein Beschützer, zieh’.
Kennst du den Berg und seinen Wolkensteg?
Das Maultier sucht im Nebel seinen Weg;
In Höhlen wohnt der Drachen alte Brut;
Es stürzt der Fels und über ihn die Flut.
Kennst du ihn wohl?
Dahin! Dahin
Geht unser Weg! o Vater, laß uns zieh’n!
***
Mignon
Conosci il paese dove fioriscono i limoni,
Le arance dorate ardono tra le foglie scure,
Un venticello soave dal cielo azzurro spira,
Il mirto è placido e alto l’alloro si erge?
Lo conosci forse?
Laggiù! Laggiù
Insieme con te vorrei andare, o amato mio.
Conosci la casa? Su colonne il suo tetto poggia,
La grande sala risplende, rifulgono le stanze,
E le statue di marmo si ergono e mi guardano:
Dicci, che cosa t’hanno fatto, povera bambina?
La conosci forse?
Laggiù! Laggiù
Insieme con te vorrei andare, o protettore mio.
Conosci il monte e il suo sentiero tra le nuvole?
Il mulo cerca la sua strada immersa nella nebbia,
Nelle caverne vive l’antica stirpe dei draghi;
Precipita la roccia e su di essa i flutti.
La conosci forse?
Laggiù! Laggiù
E’ la nostra via! Lasciaci andare, o padre mio!
(Trad. di Paolo Statuti)
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Thomas Moore (1779-1852)
Believe me, if all those endearing young charms
Which I gaze on so fondly to-day,
Were to change by to-morrow and fleet in my arms,
Like fairy gifts fading away.
Thou wouldst still be adored as this moment thou art,
Let thy loveliness fade as it will,
And around the dear ruin each wish of my heart,
Would entwine itself verdantly still.
It is not while beauty and youth are thine own
And thy cheeks unprofaned by a tear,
That the fervor and faith of a soul can be known,
To which time will but make thee more dear:
No, the heart that has truly loved never forgets,
But as truly loves on to the close,
As the sun-flower turns on her god when he sets
The same look which she turn’d when he rose.
* * *
Credimi, se tutti i tuoi diletti incanti
Che oggi ammiro sì teneramente,
Domani si rivelassero infranti,
Per magia d’una fata, di repente,
Saresti ancora adorata come adesso.
Se la tua grazia dovesse svanire,
Ogni mio desìo come verde amplesso
Ti farebbe di nuovo rifiorire.
Non quando possiedi gioventù e beltà
E mai versi una lacrima amara,
Si riconosce l’ardore e la fedeltà
Dell’anima cui sarai ognor più cara:
No, chi ama davvero ignora l’oblio,
E ama sempre fino all’ultima ora,
Come il girasole rivolge al suo dio
Lo stesso sguardo al tramonto e all’aurora.
(Trad. di Paolo Statuti)
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Cyprian Kamil Norwid (1821-1883)
W Weronie
Nad Kapuletich i Montekich domem,
Spłukane deszczem, poruszone gromem,
Łagodne oko błękitu –
Patrzy na gruzy nieprzyjaznych grodów,
Na rozwalone bramy od ogrodów,
I gwiazdę zrzuca ze szczytu –
Cyprysy mówią, że to dla Julietty,
Że dla Romea, ta łza znad planety
Spada – i groby przecieka;
A ludzie mówią, i mówią uczenie,
Że to nie łzy są, ale że kamienie,
I – że nikt na nie nie czeka!
***
A Verona
Dei Capuleti e dei Montecchi le magioni,
Slavate dalla pioggia, squassate dai tuoni,
L’occhio mite dell’azzurro osserva.
Si posa sui ruderi dei manieri avversi,
Dei giardini scorge i cancelli riversi,
E lascia piovere una stella.
I cipressi dicono che per Giulietta,
Che per Romeo, una lacrima da un pianeta
Cade, e nelle tombe discende;
Ma la gente dice, e dice accortamente,
Che non sono lacrime, ma pietre,
E che nessuno le attende!
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(Trad. di Paolo Statuti)
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Boleslaw Leśmian (1878-1937)
Przemiany
Tej nocy mrok był duszny i od żądzy parny,
I chabry, rozwidnione suchą błyskawicą,
Przedostały się nagle do oczu tej sarny,
Co biegła w las, spłoszona obcą jej źrenicą, –
A one, łeb jej modrząc, mknęły po sarniemu,
I chciwie zaglądały w świat po chabrowemu.
Mak, sam siebie w śródpolnym wykrywszy bezbrzeżu,
Z wrzaskiem, który dla ucha nie był żadnym brzmieniem,
Przekrwawił się w koguta w purpurowym pierzu,
I aż do krwi potrząsał szkarłatnym grzebieniem,
I piał w mrok, rozdzierając dziób, trwogą zatruty,
Aż mu zinąd prawdziwe odpiały koguty.
A jęczmień, kłos pragnieniem zazłociwszy gęstem,
Nasrożył nagle złością zjątrzone ościory
I w złotego się jeża przemiażdżył ze chrzęstem
I biegł, kłując po drodze ziół nikłe zapory,
I skomlał i na kwiaty boczył się i jeżył,
I nikt nigdy nie zgadnie, co czuł i co przeżył?
A ja – w jakiej swą duszę sparzyłem pokrzywie,
Że pomykam ukradkiem i na przełaj miedzą?
I czemu kwiaty na mnie patrzą podejrzliwie?
Czy coś o mnie nocnego wbrew mej wiedzy – wiedzą?
Com czynił, że skroń dłońmi uciskam obiema?
Czym byłem owej nocy, której dziś już niema?
***
Trasformazioni
.
Soffocante era il buio e di brama – una morsa,
E il fiordaliso, schiarito da un lampo muto,
Trafisse le pupille ad un capriolo in corsa
Nel bosco, sorpreso da un occhio sconosciuto –
E il fiore, azzurrandolo, saltava capriolamente,
E alla fiordaliso guardava il mondo avidamente.
Un papavero, là, nel campo senza fine
Si scoprì, e con un grido privo di suono
Si trasanguò in un gallo in piume porporine,
E la scarlatta cresta scosse con frastuono,
E cantò nella notte con terrore insano,
Fino all’eco dei galli veri da lontano.
L’orzo, indoratosi d’anelito addensato,
Rizzò le spighe dalla rabbia avvelenate,
Si traschiacciò scricchiando in un riccio dorato,
E corse via pungendo verdi barricate,
Guaì, e ai fiori tenne il broncio, inciprignito,
E nessuno saprà mai ciò che ha visto e sentito.
Ed io – per quale ortica or l’anima mi brucia,
E tra i campi, furtive, le mie gambe vanno?
Perché ora i fiori mi guardan con sfiducia?
Forse qualcosa oscura di me – chissà – sanno?
Che ho fatto per premermi le mani sulla testa?
Chi ero quella notte di cui più nulla resta?
(Trad di Paolo Statuti)
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Jan Lechoń (1899-1956)
Spotkanie
Dzisiaj nocą samotną, spędzoną bezsennie,
Po promieniach księżyca, jakimś dziwnym tchnieniem,
Sam nie wiem, jak się nagle ocknąłem w Rawennie
I z dawno utęsknionym spotkałem zwidzeniem.
Przez otwarte ktoś okno grał cicho na flecie,
I wiatr lekki woń przyniósł duszącą, upojną –
Jak w mistycznym w nią szedłem wplątany bukiecie,
Pod nieba wyiskrzoną kopułą dostojną.
“Będziecie wysłuchani tęskniący, więc proście!”
Jak przez Boga zaklęty przymknąłem powieki –
I tylkom jakiś dziwny posłyszał szum rzeki,
A później, później Danta ujrzałem na moście.
“Tyżeś to, ty mój mistrzu! Dlaczego tak blady
I czemu taki dziwny niepokój cię żarzy?
Przychodzę cię ubłagać o sekret twej twarzy.
Nic nie wiem. Zabłądziłem. I proszę twej rady”.
On to rzekł, czy rzekł księżyc, czy woda to rzekła,
Padłem, głowę ukrywszy rękami obiema:
“Nie ma nieba i ziemi, otchłani, ni piekła,
Jest tylko Beatrycze. I właśnie jej nie ma”.
(A Maria Bogdzinska)
***
L’incontro
A Maria Bogdzinska
Oggi in questa notte, insonne e abbandonato,
Tra i raggi lunari, spinto da un soffio strano,
Non so come a Ravenna mi son ritrovato
E ho visto ciò che da tempo sognavo invano.
Le note d’un flauto da una finestra vicino,
La brezza che porta un profumo inebriante –
Ed io come tra mistici fiori cammino,
Sotto la celeste cupola scintillante.
“Sarà pago chi beve alla divina fonte!”
Ho chiuso gli occhi come chiamato da Dio –
Udivo solo del fiume lo strano brusìo,
Più tardi, più tardi ho visto Dante sul ponte.
“Sei tu, Tu, mio maestro! Bianco come un giglio,
Perché mai Ti brucia questo strano sconforto?
Svelami, Ti prego, il segreto del Tuo volto.
Non so niente. Mi son perso. Dammi un consiglio”.
Egli disse, o disse l’acqua, oppure la luna,
Caddi in ginocchio, coprendomi il viso triste:
“Non c’è inferno, né cielo, non c’è terra alcuna,
C’è solo Beatrice. E proprio lei non esiste”.
1922
(Trad. di Paolo Statuti)
Bellissime!
Che gran lavoro che fai Paolo, ti rinnovo i complimenti.
Tanti complimenti signor Statuto! E grazie infinite di donarci queste meraviglie.