Opere Inedite, Guido Oldani

Opere Inedite
a cura di Luigia Sorrentino

Oggi a Opere Inedite (foto Dino Ignani) leggiamo la poesia di Guido Oldani, l’ideatore del “realismo terminale, che si appalesa nel terzo millennio. Nella realtà – sostiene il poeta – la natura è divenuta azionista di minoranza, azionisti di maggioranza sono gli oggetti. Si annulla la distanza fra i prodotti e l’uomo che incomincia ad assimilarli.
Nasce un modo radicalmente diverso di interpretare il mondo e di rappresentarlo, anche artisticamente, a partire dalla poesia.”

DINTORNO
la pioggia è intirizzita dentro al freddo,
e cade come il sale sopra al brodo
facendo luccicare la contrada.
la luce si riversa come un olio,
che scende da un versare di bottiglia
e il giorno avanza come una cariola
sia svelta che a rilento, poco a poco,
e sotto una panchina verniciata,
un gatto è secco, lo rosicchia un topo.

GENTE
si danno delle oneste coltellate,
ha ognuno l’arma del suo continente
le loro lingue parlano fendenti.
c’è chi bersaglia meglio nella pancia,
chi taglia al collo come coi capretti
e chi finisce l’altro a calci e pugni
e il vinto cade con un fil di voce,
apre le braccia, per salire in croce.

IL DIALETTO
gli strati sopra, delle genti giunte
parlano lingue tra le più svariate,
quelle più sotto parlano in dialetto.
e i vivi che s’ impilano in galera
li calcano in celle-ripostiglio
e un altro detenuto si è impiccato
e lascia quel che ha : il cacio al topo,
le monetine per il magistrato.

LA FESTA
è uno stormo di biglie a capofitto,
la tempesta che cade sulle teste
e come auto in transito le guasta.
ed il silenzio dello sciame bianco
è il nevicare lieve come il niente,
su chi è straccione o chi veste alla moda
e un cane in giro azzanna chi lo sfiora,
intanto gli fa festa con la coda.


L’INIZIO
c’è una luce che sembra piuma d’oca,
la guancia ha il segno ancora del cuscino
e il colorito è piuttosto strano.
ha le scaglie , il pesce nell’acquario,
somiglianti alle tegole sul tetto
ed il tossire è come guerreggiare
ed è così che inizia la mattina,
prende il caffè, poi l’auto e fa benzina.

L’INCUDINE
somiglia ad un’incudine il quartiere,
su cui siamo battuti e modellati
virilmente dai colpi degli oggetti.
è una forgia la vita cittadina
e siamo insaponati dal rumore
e la neve nasconde il malaffare,
poi la nebbia è l’unico pudore,
c’è un po’ di tutto, meno che l’amore.

  —

GUIDO OLDANI è nato nel 1947 a Melegnano (Milano). È attualmente una delle voci poetiche internazionali più riconoscibili.
Ha pubblicato sulle principali riviste letterarie del secondo Novecento. Inoltre, le raccolte: Stilnostro (CENS 1985),introdotta da Giovanni Raboni, Sapone (2001), edita dalla rivista internazionale «Kamen», La betoniera (LietoColle 2005).
È stato curatore dell’«Annuario di Poesia» (Crocetti) ed è presente in alcune antologie, tra cui Il pensiero dominante (Garzanti2001), Tutto l’amore che c’è (Einaudi 2003) e Almanacco dello specchio (Mondadori 2008). Con Mursia ha inaugurato la Collana Argani, che dirige, pubblicando Il cielo di lardo.

18 pensieri su “Opere Inedite, Guido Oldani

  1. Caro Marco,
    credo tu abbia senz’altro centrato la questione, al poeta è assegnata la funzione di dare voce al proprio tempo. Cosa quasi impossibile perchè la confusione del vivere da spesso luogo a confusione della voce. In realtà, la Torre di Babele è riuscita questa volta e si sta completando: 4 miliardi di noi stiamo accavallati gli uni sugli altri nelle città e sopra gli oggetti che ci dominano.
    Oramai la natura somiglia agli oggetti,ed anche noi..

  2. me lo ha mangiato…ero lietissima rileggere le dolci sferzate epocali di Guido,che calmierando in rima, può fare dell’invettiva un dolce rimare, dei nostri giorni..
    Maria Pia Quintavalla

  3. Cari Amici,
    in effetti credo che si possa fare poesia mentre ci piove intesta tutta la specie umana, con tutte le carabattole che sono i prodotti che ci dominano. Insomma se vivere è una partita di pugilato, con l’altro pugile che ci sta in testa, si può tentare di non finire KO.
    Un caro saluto
    Guido O.

  4. Quasi tutto si inverte negli occhi del poeta: a guardare il mondo noi diventiamo gli oggetti che inventiamo; gli oggetti si impossessano di noi, ci sostituiscono.L’ oggetto è la nuova tirannia del mondo.
    Questo l’ interessante viaggio nella poesia e nel saggio “ Il realismo terminale” di Guido Oldani.
    Un saluto Guido e grazie a Luigia

  5. Caro Aldo, grazie.

    Cara Margherita è proprio così. Un po’ come se un vigile urbano, fermandoci a un posto di blocco, si rivolgesse alla nostra carta d’identità per chiederle di esibire noi in corpo, sangue, ossa e protesi. Il vigile , sempre alla stessa carta d’identità potrebbe contestare la falsificazione del nostro io corporale. Se tale riscontro fosse vero , la carta d’identità potrebbe essere arrestata e sottoposta a un processo nei suoi tre gradi che, stante la poverissima giustizia, potrebbe durare alcuni decenni, tali da far terminare nel frattempo la vita legale della carta stessa estinguendosi con imputato il reato in questione. Scherzi della vernaccia ma soprattutto del realismo terminale.

    un caro saluto
    guido

  6. Leggendo del realismo terminale,mi sorgono spontanee alcune domande:non è che la proliferazione di oggetti, di spazi artificiali, di strutture sta modificando anche la nostra percezione? Non è che i nostri organi percettivi andranno modificandosi e adattandosi a questa nuova moltitudine di stimoli?Oltre le nostre visioni muteranno anche i sentimenti che proviamo nell’osservare?Ciò che proviamo nel guardare una metropoli supertecnologica illuminata era inimmaginabile nel passato lontano.Essendo cambiata la nostra percezione, è necessaria una nuova estetica che sostenga queste nuove visioni quasi postumane.
    …e tanti altri spunti di riflessione, anche di ordine etico,pongono le parole di Oldani:grazie, dunque!

  7. Ora anche il topo che rosicchia il gatto. Nel rivolgimento indignato dell’Oldani, natura e antinatura, come nel mondo delle particelle, si annichilinano non in energia, ma nel vuoto pnuematico dei nostri tempi e nella quasi latitanza del pensare.
    Una poesia sempre più sequenziale e consequenziale, un vero corpo a corpo con gli oggetti o degli “oggetti” che la lingua registra come esito di urti in un acceleratore. Mentore della lentezza l’Oldani ci dischiude nuovi orizzonti di senso.

    Amedeo Anelli

  8. Oggettivismo sostitutivo ovvero: Realismo Terminale

    A distanza di un anno dalla pubblicazione de Il Realismo Terminale di Guido Oldani, sembrerebbe che le questioni poste, anche in ambito poetico, abbiano iniziato a produrre significativi interrogativi, ed interlocuzioni di carattere culturale che cominciano ad avere riferimenti anche oltre l’ambito poetico. Le cosiddette “rubriche” di poesia, presenti più o meno quotidianamente sulle pagine culturali dei giornali, hanno avuto modo di occuparsi dell’agile libretto, edito da Mursia, come pure alcune riviste di poesia che hanno ritenuto di dover affrontare, o meglio scrivere, dei molteplici profili che la cosiddetta vicenda del “canone” riesce a sollevare. È così che allora provo a dire la mia con l’intento di muovere, anzi di movimentare, l’ambito in cui sempre più raramente ci si esprime con libertà di pensiero.

    “Si sa che prima di riconoscere un seme come nuova specie occorre un lavoro di ricerca, esplorazione, analisi ed occorre che i germogli si possano coltivare magari anche in una cassetta sul balcone di casa per impararne qualità e caratteristiche.”

    La galassia degli oggetti occupa in questo nostro tempo una posizione centrale, pertanto è nei possibili indirizzi poetici che possono essere trovati riferimenti e considerazioni sul tema: Guido porta alle estreme conseguenze questa possibilità fino a proporla come Canone poetico. Anche se mai definita come tale, possiamo arrivare a parlare di poesia Terminalista o meglio ancora, per entrare nel solco della nostra tradizione culturale, Terminalismo. Il secolo scorso ci ha dato, Decadentismo, Futurismo, Ermetismo, Surrealismo, ora è tempo che le varie e numerose prolusioni sul canone trovino una indicazione adeguata alla nostra contemporaneità e così sembra che il Terminalismo possa assumere la veste di una plausibile soluzione alla questione. Ed intendiamoci, come ben ci spiega Oldani, l’aggettivo terminale non deve fuorviarci a nessuna significazione di fine, bensì deve far scattare la riflessione sulla riduzione sempre più consistente della distanza tra uomo ed oggetto. Il merito di Oldani è quello di ripensare il proprio compito, disincrostare dalle opacità di sistema la consapevolezza della propria funzione, riproporre ruolo e attività dell’intellettuale esercitando sì la responsabilità della critica, ma soprattutto quella funzionale del poeta pensante. Nell’attuale organizzazione sociale è venuta meno una chiara struttura della produzione e del ciclo produttivo, la produzione di merci è sostituita dalla produzione di servizi, la fatica del lavoro manuale è quasi totalmente soppiantata dalle macchine, l’alienazione delle operazioni ripetitive è ridottissima. Gli oggetti, soprattutto quelli di consumo, sono fatti altrove da una forza lavoro paurosamente lievitante assimilata all’oggetto “usa e getta” L’emancipazione delle masse con il lavoro è divenuta asservimento delle masse agli oggetti, perdita di riferimenti sociali strutturanti, mancanza di nessi culturali adeguati. Il lavoro, per come lo conoscevamo derivato dell’industrializzazione, è scomparso: non c’è più se non nei paesi in cui ora sono presenti le condizioni di sviluppo industriale e sociale che l’Europa ha già conosciuto. La crisi del lavoro è crisi sociale, crisi intellettuale e culturale. Questa del Realismo Terminale sembra essere una indicazione di percorso, meglio, di svolta. Di riconsiderazione del punto in cui ci troviamo e tutto sommato l’individuazione di un profilo in cui ci dibattiamo ormai da troppo tempo. Ritengo si tratti di una intuizione attorno alla quale sia stato fatto un impegnativo lavoro di scarnificazione e lucidatura che ha iniziato a dare i suoi frutti e che non è affatto concluso, foriero ancora di potenziali iperboli non solo sulla questione del Canone, ma sulla ridefinizione del ruolo dell’intellettuale o sull’inversione della similitudine. Scrivendo del ruolo che incarna, Oldani si sofferma sul poeta metropolitano, privo di senso, cambiato nell’unità di misura ipersproporzionata, “ago in un pagliaio” nell’infinito oggettuale senza più ruolo riconosciuto; idoneo solo ad affrontare il bricolage occasionale del fare, in una urbanità dispersa, trasformata in “pandemia abitativa”. Trovo singolare lo sconfinamento di Oldani, nella disciplina Urbanistica, alla quale sono più abituato, tuttavia trovo esemplificativa la similitudine che efficacemente rappresenta la poetica del Realismo Terminale. Il Poeta ben identifica la condizione di criticità alla quale siamo sottoposti e nella quale ci dibattiamo da almeno un trentennio. Analogamente, da qualche anno gli urbanisti si interrogano sul fenomeno in atto denominato A- crescita, sfida imprevista che comporta la ritirata degli spazi urbani, con ampie parti di città che vengono dismesse e lasciate scivolare verso un predestinato degrado, alla miseria sociale. L’analogia ad una dismissione di “oggetti urbani”, contenitori che non svolgono più alcuna funzione è alquanto evidente. E non si tratta di sole funzionalità produttive, ma il fenomeno coinvolge anche ambiti residenziali. Un esempio significativo è Detroit, diminuita di due terzi della sua popolazione negli ultimi trent’anni, che rischia di diventare una città fantasma. Dunque anche in questo settore si coglie la sfida al ripensamento dell’organizzazione urbana che attualmente nel vecchio continente sembra avere una crescita senza limite, ma che inesorabilmente, proprio per i fenomeni di conurbamento metropolitano, ha iniziato ad innescare elementi di fuga dai grandi centri ed un ritorno a dimensioni vivibili più eque e rassicuranti. Ecco che si prospetta la riprogettazione della città su dimensioni ridotte riportandoci dentro la campagna, facendole rioccupare gli ambiti dismessi e reinventando un riuso di urbanità integrata; così come suggerito da Oldani, occorre ridiscutere alla radice l’imbozzolarsi oggettuale nel quale siamo inabissati. Stringere la cintura urbana anziché allargarla all’infinito ed esaltare tutto ciò che può essere messo in “rete”, a partire dal trasporto pubblico, ha lo stesso valore di ripensare la moltitudine di oggetti simbolo per affrancarli dal superfluo e ridefinirli nell’essenziale. Eccoci di fronte a grandi sfide, ma se ci si pensa e si specula intellettivamente, altre ne emergono. È tempo dunque di tornare all’idea della trasformazione attiva, con atteggiamenti consapevoli personali e radicalmente altri, frutto di una ritrovata coerenza per troppo tempo delegata a soggetti diversi dal personale. È tempo di individuare il proprio filone di impegno trasformativo virtuoso che assuma funzione di esempio per gli altri, soprattutto per le nuove generazioni abbandonate alla vaghezza inconsistente di una speranza vana. L’idea del Realismo Terminale appare una proposta in tal senso, almeno sotto il profilo dell’esercizio poetico. Non si può evitare di documentare l’epoca che si rinviene e farne poetica, soprattutto se nell’esercizio di critica intellettuale si assume la responsabilità di interpretarne il ruolo e manifestarne la consapevolezza. E qui si manifesta una proposta forte da parte di Guido. Se gli oggetti si sostituiscono alla natura perché non farne oggetto di poesia come lo è stato la natura in passato? Il passo successivo è: tale condizione può divenire “canone di riferimento” a cui rapportare l’azione poetica ed il versificare? Accade? Posso riferire, nella mia limitata conoscenza, di testi poetici quali “La pazienza degli oggetti” di Serena Focaccia, dove il vento è quello delle ruote di bicicletta, o l’uniforme volta di porcellana blu che ci ricopre, o ancora spilli le file di cipressi. Oppure ne “L’indifferenza dal punto di vista delle cose” di Fabio Ciofi: Come contravviene la stagione/ delle bollette all’urgenza/ di un porto da cui salpare/ per una disfatta dello stabile…ed ancora in “All’ora dei pasti” di Anna Toscano possiamo leggere: … potessi liberarmi da pugnali intercostali… o … bruciatemi con i miei stivali/ e borse e scarpe e occhiali. Si tratta di citazioni esemplificative ma significative di come l’oggettivismo sostitutivo si insinua lievemente ma sempre più spesso nella versificazione poetica. Di contro, come risposta all’invasività dell’oggetto, per una sorta di reazione all’azione, componimenti e testi poetici rifuggono in un forsennato intimismo che devia nel mimetismo, abbandonando oggetti e quant’altro rifluendo in una centralità individuale, che sembra essere il solo luogo rifugio dove il disagio dell’esistere si attenua e si fa sopportabile, come nel caso del sottoscritto, o nei testi di Guido Turco (“L’indizio della grazia”): Sciocco ero poi tra te e quel fiore /indicandolo mi avevi detto /non lo recidere /nel gesto che avevi fermato c’ero io… e ancora:
    …Dove troppo angusto è il posto /per decantare le immagini è lecito riconsegnarsi al volo.
    In quelli di Angela Chermaddi dalla silloge “Mi sono persa il mare” … si è chiuso il buio ignoto del giardino/ nascosto dentro l’urna di se stesso/ o soffre del rifiuto del mio gesto? E più profondo: … la pelle di carta velina aspetta /che il silenzio-ferita scoppi/ parole come dita di balsamo/ a pettinarmi il cuore. E in ultimo approdo di lettura, Anna Bergna con “Crocevia”. La morte toglie alla materia/ nome e indirizzo /l’identità// Sono nostra proprietà i mattoni degli edifici/ crollati prima del vagito /di una nostra supposta unicità? Ancora molti altri possono facilmente individuarsi ed anche più conosciuti di quelli citati a titolo esemplificativo. Basti qui, il solo riferimento a meglio specificare le considerazioni svolte.
    L’oscillazione della poetica del quotidiano tra il dissolvimento del soggetto nell’oggetto e il rifluire del soggetto nell’astrazione metafisico-mimetica sintetizzano i due “corni” della questione Terminalista : campo di battaglia o confortevole rifugio? Al di là della registrazione di fatto, Oldani non partecipa dell’una o dell’altra, né indica la via, solo rinviene e documenta nei suoi versi l’epoca dell’oggettivismo diversamente da quanto fa la cultura attuale che sembra non percepire il presente in essere. Nelle sue considerazioni, ancorché aspre ed ironiche, lascia aperto il dilemma e la prospettiva. L’interrogativo sul futuro possibile, assimilato metaforicamente ad un baco da seta, potrebbe ben essere quello del bozzolo-farfalla oppure quello del bozzolo–sarcofago: la responsabilità ricade su ognuno di noi e per quanto a quella del Poeta, sembra che la partita sia stata aperta con assunzione in proprio di incombenze che hanno travalicato ben oltre la funzione dei versi e sembrano assumere forme di onde sonore in cerca di trombe di Eustachio in grado di recepire e comprendere il suono dell’intellettuale pensante.

    Scontex

  9. In questi inediti, risuonati nella mia mente con l’autentica voce del poeta, di Guido Oldani, come fosse lui stesso a leggere, ho trovato, al di là del contenuto abbarbicato sulla cifra del realismo terminale, ormai acquisito come poetica oldaniana, il suono di un canto genuino.
    Quello che a mio giudizio risalta nei versi qui proposti è una maturazione dell’espressività nelle sue componenti sonore e ritmiche.
    L’espressione è fondamentale per la poesia e il verso la scelta del verso del metro del ritmo donano alla poesia quanto il meglio del concetto non può donare. Altrimenti faremmo esplicita filosofia.
    L’espressione è l’incarnazione del concetto, ma soprattutto dei sentimenti e solo il poeta può permettersi il lusso di creare plasticamente l’espressione lavorando non solo sul significato ma anche sul significante.
    Il canto di Oldani è modulato sull’endecasillabo e la misura del respiro gioca un ruolo molto alto nel dare la possibilità al lettore di immergersi in una mediazione immediata di coinvolgimento appercettivo ed emotivo nello stesso tempo.
    Spero di leggere quanto prima questi componimenti in silloge insieme ad altre poesie, che sicuramente confermeranno Guido Oldani tra i migliori poeti del nostro tempo, nella misura in cui egli riesce abilmente a donare senso all’espressione poetica facendo un’operazione contemporaneante estetica ed etica. E cosa non da ultima, rimanendo nell’alveo di una tradizione tutta nostrana, che parte da molto lontano e lo analoga a Dante, per quanto oggi ci sia stato un capovolgimento allegorico giocato nell’ambito del realismo terminale.
    Maurizio Soldini

  10. Caro Guido
    Temo che la natura sia stata sconfitta fin dal primo oggetto costruito, la prima pietra scheggiata – due milioni e mezzo di anni fa – da un ominide il cui cervello pesava la metà del nostro e non aveva idea di cosa fosse un linguaggio sia pure rudimentale.
    Però, scheggiando quella pietra, le aveva conferito una qualità: dei bordi taglienti che raschiavano i residui di carne dalle ossa e dalla pelle degli animali che lui aveva sottratto ad altri più dotati predatori (eh, sì: siamo nati ladri di carogne, non fieri cacciatori…) molto meglio delle sue unghie: ma la natura non aveva saputo fornirgli altro che quelle unghie. Se quella pietra avesse potuto parlare, avrebbe detto: “Forse tu, cara natura, sai fare molte cose. Ma questa, riconoscilo, io la faccio meglio di te”. Il realismo terminale è nato in pieno pleistocene: dopo è solo cresciuto.
    Il primo colpo assestato alla natura da quell’oggetto è lieve, quasi inoffensivo, come, all’inizio, la rossiniana calunnia: “…un venticello/un’auretta assai gentile/che insensibile, sottile/leggermente, dolcemente/ incomincia a sussurrar…”. Poi passano i millenni e “…nelle orecchie della gente/s’introduce destramente/e le teste ed i cervelli/fa stordire e fa gonfiar…”. Ma, in un vertiginoso crescendo (e siamo arrivati ad oggi) “…alla fin trabocca e scoppia,/si propaga, si raddoppia/e produce un’esplosione/come un colpo di cannone…”.
    La natura è prossima al KO e il realismo terminale è giunto, o sta giungendo, all’acme. Prima o poi non sarà più sostenibile. E allora, ti domandi tu, quando questo realismo non sarà terminale ma terminato, che sarà di noi, avvolti nel bozzolo/sarcofago degli oggetti? Farfalle o mummie?
    La tua intuizione è un segnale, una lucina rossa che invita a percepire l’allarme, riflettervi sopra e, nel caso, a prepararsi a vender cara la pelle: magari cominciando a gridare sin d’ora.
    Del resto, essere lucine rosse è la funzione dei poeti, degli artisti: a cosa servono, se no?

  11. Caro Francesco Piscitello,
    queste colonne mi stanno insegnando non poco. Prima Andrea Vigentini coglie la mutata percezione, poi Amedeo Anelli individua la possibilità della dilatazione dei significati quindi Salvatore Contessini avvia i riscontri presso i giovani autori per approdare a Maurizio Soldini che afferra come il RT, rovesciando la tradizione , in realtà finisca con sposarla in nuove nozze.
    La metafora della calunnia che da venticello giunge a un colpo di cannone è esattamente la pietra sbozzata, primo manufatto,che diviene la totalità dei manufatti nostri signori attuali. Siamo sicuramente di fronte al produttore di senso che genera la contemporaneità. Produzione di senso, credo, totalmente sfuggita a più di un accademico. Un po’ come chi, tutelandosi dalla pioggia con l’ombrello, non si accorga di essere, nel frattempo, annegato nel fiume.
    Lavoriamoci dunque! il RT è persino divertente oltre che tragico.
    Guido Oldani

  12. Da anni i versi di Guido accompagnano il mio fare d’artista e la mia esistenza di uomo. Da ultimo il suo “Realismo terminale” ha centrato il bersaglio verso cui lo sguardo possa concentrarsi. Mentre la maggioranza parla d’altro, impegnata com’è a farsi vivere, Guido vive con noi e con la sua poesia ci aiuta.

  13. Penso una cosa completamente opposta alla poetica di Oldani – non me ne voglia; ciò non toglie che io non lo consideri un grande forgiatore di nessi originali di grande ardore allusivo -. Ma credo che il movente primo dell’atto poetico non sia la realtà che ci cade quotidianamente sotto gli occhi. Quella realtà che ci aggredisce quotidianamente. La maggior parte di tutto ciò che viviamo all’istante è destinato a scivolare nell’oblio, perché non ha avuto una presa importante sulla nostra intimità o ha avuto quella presa non determinante. L’arte si ciba di ciò che rimane, di ciò che è degno di restare. Un fatto, un incontro, un quadro naturale che sul subito non possono avere avuto effetti sulla nostra sensibilità, o hanno avuto effetti non storicizzati (Oldani ci riporta i fatti, così come sono), col passare degli anni saranno affiancati da stati d’animo (o d’amore, o d’odio, o di melanconia, o di nostalgia: indispensabile situazione emotiva per l’atto estetico) che li colorano. Mi riferisco al potere dell’immagine. Ed è tutta qui la sostanziale differenza fra realtà e rivisitazione della stessa. E credo che sia proprio questo carico interiore a determinare il terriccio fertile di una buona poesia. La realtà scussa (pur tragica, comica, vera, …) non è condita da quella diegesi emotiva che si crea col passare del tempo. La vera vita è quella che rimane in noi; quella degna di fare la nostra storia. Non quella che viviamo momentaneamente. Comunque si parla di teorie che avrebbero bisogno di maggiori spazi per essere trattate a dovere.

    Scusate i rifusi o la costruzione morfosintattica: ho scritto di getto.

    Un caro ed affettuoso saluto a tutti
    Nazario Pardini

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