Opere Inedite, Andrea Piccinelli

Opere Inedite
a cura di Luigia Sorrentino

“Questi testi non vogliono essere una mera rappresentazione della tragedia che da molti anni ha come protagonisti i migliaia di immigrati che cercano di raggiungere le nostre coste (con esiti, ahimè, spesso tragici). Sono anche il risultato di uno strappo, di una lacerazione ottenuta ‘per sottrazione’, scarnificando fino all’essenziale il corpo iniziale e cesellando gli elementi residui, come una scultura di Giacometti. E sono soprattutto la presa d’atto della decadenza politica, sociale, economica e morale della cosiddetta ‘civiltà occidentale’: una società fondata sul Profitto, sul superfluo, sulla violenza, sull’intolleranza e sulla sopraffazione del più debole.” […]
[…] Più passa il tempo e più mi convinco che il futuro della poesia (in quanto forma di comunicazione del divenire ed in continuo divenire) sia nell’oralità. Bisogna tornare concettualmente alle origini, al segno acustico primigenio, in una sorta di regressione rigenerante. È necessario ristabilire quei caratteri di ritualità che la poesia aveva quando presso le civiltà antiche fu il primo medium di trasmissione ed immagazzinamento delle informazioni (prerogativa che le è stata completamente sottratta dalla cultura romantica del XIX secolo). Quindi la poesia deve necessariamente essere anche (e soprattutto) didattica, ovvero insegnare qualcosa. Ma come? Il linguaggio nasce poetico, nel mondo, con il mondo, all’interno delle comunità primitive (è poetico nel senso che fa, e nel suo fare si fa ed è fatto). Gli strumenti principali di cui si serve la poesia per veicolare messaggi sono il suono, il ritmo e le pause. Proprio come la musica. E come accade quando si ascolta una musica che ci piace, tali messaggi vengono elaborati in primis dal nostro lato inconscio ed emotivo (mentre solo in un secondo momento saranno sottoposti a processi logici e razionali). Non a caso, il senso più importante dei mammiferi (insieme all’olfatto) è l’udito. E l’udito unisce ed armonizza gli elementi, a differenza della vista che li separa. È assurdo pensare alla langue come qualcosa di immutabile e sedimentato. La lingua, nelle sue caratteristiche di arbitrarietà e convenzionalità, muta progressivamente ed è destinata a cambiare ancora nel tempo (si rassegnino i dotti cruscanti). Quindi, il compito di chi scrive poesia oggi è di assecondare questa lingua magmatica, farsi penetrare da essa (mi viene in mente l’immagine lacaniana della lingua come parassita) per poi plasmarla (essendone nel contempo plasmati) e usare il corpo come cassa di risonanza per instaurare un dialogo (e la poesia è dialogo nella sua forma più alta), per creare imprevedibili ‘luoghi comuni’ (come diceva Edouard Glissant) di incontro in cui costruire insieme un nuovo umanesimo civile.”

Andrea Piccinelli

LAMPEDUSA
I.

tumuli
a gravare mascelle agglutinate.
ossido di machete
sulle rosse cervici.
a sera (caterve in rovina):
pulsano interiezioni
sferze d’ali isosceli – vertigini
sui gangli sfrangiati
sulle orbite lorde d’oblio.
e le rogge. e strie nelle
cune concave (più terse,
più distanti). transito
di strine e ansiti – l’approssimarsi
quando squillano illuni
le lampare.

 

II.

1.
ferri
e suture
immolano i docili fianchi.
dosi intorpidite di bruma
notturna: al centro recide
la colla inguinale.

stille stremate. viscosi
anfratti. lidi fra
alabastro sangue e miti
che si aggrovigliano. luce
spezzata in vitrei frammenti
su incàvi frastagliati
caldi e leggeri.

2.
al fuoco smerigliato
riposano i coturni –
nell’alveo imperlato
di scialbi filamenti.

 

 

III.

pulsa nelle arterie
una febbre d’ignoto.
altrove. sulla battigia
quasi raffiche
che strozzano la pelle.
sono caterve di mani – crune
prostrate di penuria. gravide
transumanze gemono
all’ansia delle vampe.
confitti alle dracene
ondeggiano a ritroso
come lembi stinti
in morse d’afa.

 

IV.

un livore di
stracci accatastati
opprime
i costati.
assolate grisaglie
sulle immani
mulattiere.

mentre
orizzonti cilestri
annegano
in oceani
screziati di luce
(sottile riverbero
di cieli rossi
di braci)

occhi amari
celebrano
con lucido disarmo
la compiutezza
del Divino Disegno.

 
V.

ecco
troppo tardi
ancora si dirada
da noi – ora furente
ora presago – il tonfo
di volte faticose.

ogni approdo ogni asilo
ogni eco ogni sussulto
è un lento abbandonarsi
a correnti irrequiete.

l’amarezza è tutta
nella vertigine
che sgretola i ripari
dove perdurano
sinodi di carovane allo stremo.

 

VI.

sommessamente
si accavallano
nere agonie –
struggono chimere.
avvinti al giogo primitivo
a malapena distinguere
i silenzi immemorabili.
sulle rive spoglie
esitanti
l’arsura di aloni accorati
le crepe dei pontili
le pattuglie al bivacco
i battelli arrugginiti
erompono
come
freddi schianti.
superstiti.

 

VII.

adunchi
allo stordimento
muta
nel lezzo viscoso
s’intride
e blandisce
un’aura rutilante
di salvazione.

 
VIII.

1.
ora
che strisciano a scatti
fra stuoie latrati baracche
e tamerici
s’intorbano nella ghiaia
in apolide anabasi.
fiato
e cemento
(e fumo di ristagno). lutee
lumiere attigue allo spasmo
nuovamente raschiando
fosfeni di galaverna.

2.
come misere reliquie
sul riverbero
dell’astro vegetale
(i bisogni sono pietre –
melma feroce la neve)
reietti inseguono
placidi frastuoni
fra anonimi sguardi.

 

IX.

1.
dove in successione erebi e postierle…..
………………….. (dissipazione
di estuari)
(morie di innocenti – crocifissi
lungo le anse arrugginite) facce
vitree come protomi stilizzate
in ambulacri anestetizzati al caos.

2.
al casello – stretti a
diverticoli daltonici
bastioni scorticati
crepacci calcine
e luci intermittenti –
le pecore tra gli olmi
ingrassano sull’erba.

3.
(i tralicci dell’alta tensione
come torri gotiche)
……………………………………………..
(un lungo alito vespertino
a scompigliare le cortine)
……………………………………………..
(mani cadute
in assenti astri d’argilla)

4.
consustanziati ai ciottoli alle scorie
– turbinii in proiezione ortogonale –
persi in enigmi dalle spalle
di vetro – la fuga degli acquedotti
protratti al nulla –
si lasciano avvolgere
da sordi bagni d’ombra.

 
X.

all’alba il rimorso è un sibilo lacerante.
fiochi occhi riflettono i percorsi cancellati
dai passi ostili di livide memorie.
sospinti in attese frivole e opprimenti
tra nuvole marroni e falsi sorrisi
la vita risplende – debole e perversa –
sotto gli arabeschi di favole dorate.
la speranza è un alibi –
oasi desolata
la notte.

Andrea Piccinelli, nato a Orvieto (TR) il 23/08/1980, è residente a Grotte di Castro (VT). Laureato in Storia dell’Arte presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università “La Sapienza”, attualmente lavora come guida turistica a Roma. Una sua poesia è stata inserita nell’e- book “Calendario 2012” del sito www.larecherche.it. La poesia “Le tue mani nude” è stata pubblicata sul N. 29 dell’antologia “Navigando nelle parole” (Ed. Albatros- Il Filo).

6 pensieri su “Opere Inedite, Andrea Piccinelli

  1. Scrittura stridente e asciutta fino all’estremo, urlo che erompe dai sotterranei della storia, trovando la via, sottotraccia, per penetrare nelle coscienze indurite. Grande è la determinazione di questo giovane autore, la coerenza del dettato in relazione al contenuto. “La speranza è un alibi- oasi desolata / la notte”: questi versi riassumono, pur negandolo, il movente di tutte le poesie qui presentate. A mio avviso una grande speranza, ultimo “alibi” prima del silenzio: la speranza di dare una voce, sia pure spezzata, quasi scolpita grossolanamente, al dolore dell’umanità. Sapiente l’uso della sinestesia, emerge particolarmente una notevole sensibilità musicale e timbrica.
    Complimenti e auguri!

  2. Bravo Andrea! hai allargato il tuo sguardo fino ad abbracciare le vicende drammatiche di altri uomini. E hai così ben motivato le ragioni a presidio del tuo procedimento. Personalmente penso che quando il verso si stacca dal proprio privato ombelico e manifesta una forte tensione alla comprensione delle vite degli altri, è allora che il sentimento poetico può dirsi maturo.

  3. Nell’incantatorio verso polimorfo di Piccinelli si sfoglia un vocabolario prezioso di nuove parole totali, straniere alla lingua e costruite attorno a nuclei fissi d’ossido di zinco e blu di Prussia, a evocare orizzonti marini vertiginosi.
    Gli occhi che li contemplano avidi non sono quelli d’un esteta, d’un nuovo alchimista del verbo, ma quelli stessi fiochi e febbrili dei migranti. Vede attraverso quelli, non interpreta, questo poeta. Sua è invece, personalissima, la voce che s’immagina profonda e sussurrante a trapassare l’ovatta dell’oblio e del silenzio scesi su tanto dolore.
    Per altre suggestioni invito gli estimatori di questo bravissimo poeta a riconoscerne gli ascendenti nel “Traité du Verbe” di René Ghil e, meglio, in “Glossolalia – Il Poema del Suono” di Andrej Belyj.

  4. Sono davvero felice di vedere come le tue precedenti ricerche i campo storico-artistico siano confluite, nella tua poesia, in uno sguardo estremamente cromatico e sottilmente descrittivo di fenomeni, tempi e spazi in modo tutt’altro che banale. Complimenti per la “pittoricita’” del tuo fraseggio poetico!

  5. Mi piace la musicalità e il ritmo crescente in questa poesia di immagini crude e intense per una tematica di questa portata sociale. Hai disegnato l’anatomia di un’epopea ben descritta anche grazie a una forte perizia linguistica e ad un encomiabile lavoro sulla parola.
    Monica

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *