da: IL CASO E LA RAGIONE
IN UNA DI QUELLE MATTINE
In una di quelle mattine
d’inverno e di folto dormire
non contano i flauti del giorno
gli accenti l’urgenza l’assillo,
nel cavo del corpo raccolto
si spoglia indistinto l’orgoglio
non s’alza alle cime il vessillo,
tra nuvole basse continua
una veglia di sonno, di nebbia
di assenti ragioni d’assenso.
***
SPAVENTAPASSERI
.
Prima di sparire
di staccare il contatto
prima che ad ogni senso
sia dato scacco matto
occorre scremare gli eventi
trascegliere le carte
le pezze da adoperare
per ricucire l’abito
da spaventapasseri
e gettar via i ritagli
dei ricordi scadenti
riquadri già disposti
ad essere eclissati
e strato dopo strato
ricavare un ritratto
in grado di resistere
appena oltre la fine
negli occhi di chi resta
giusto il tempo di un lampo
quasi immagine vera
di grazia e d’ironia,
per un attimo ancòra
prima che il tuttonero
– come è bene che sia –
riconfermi l’oblio
di meccanica pura
nel vento planetario.
***
FIUMI SILENTI
.
L’impassibile oltranza del nord
è una linea da varcare
o una terra di attese…
siamo nodi, contorsioni
lontani e vicini
diversi come sirene
in fiumi silenti disciolti.
Da nevi che ovattano i sensi
brusìo di ali, farfalle che aspirano
a ritrovare il bozzolo.
***
IL FABBRO
.
Mi dolgono i polsi
e trovo i segni delle catene,
ma dal fabbro io stesso
sono andato a saggiare
la gravezza del metallo
in ellissi di anelli,
il barbaglio di un acciaio
su misura temprato.
Batti e ribatti
avrà sempre un gran lavoro
il fonditore,
un laccio per ogni uomo,
solo che i più,
scontenti, si lamentano
credendo che qualcuno
li abbia voluti intrappolare,
non s’accorgono che
un beffardo ghigno riflettente
rimanda il loro occhio
e le mani rattenute
contano da sé stesse
la paga del carceriere.
***
INVASIONE
.
C’è sempre un tiro molesto
che spalanca le porte,
di luce abbagliante
o intrusione di vento
s’accalca sui vetri un fragore.
Con stridore di ruote e ferraglie
la guerra è dichiarata,
un’invasione di mondi
nella tua capsula di alieno.
***
SENZA SUTURA
.
Si dovrebbe ogni piaga
di vecchio dolore
cucire a mano
con filo di ferro,
ma se si potesse la ferita
con una cerniera
richiudere a piacere
si saprebbe ogni volta
riprovare un tremore
a dare un’occhiata
alla guerriglia mai interrotta,
a quella scalfittura
senza sutura
che resta viva odorosa aperta
sempre succosa
di sangue appena spillato.
***
MI SCRIVO
.
Mi scrivo lettere
e non mi rispondo.
Busso alla porta
e con voce artefatta
riferisco che in casa
non c’è nessuno.
Vorrei proprio sapere
dove sono finita
e chi è quell’intrusa
un po’ triste un po’ schiva
che mi abita adesso,
così remissiva che
non s’altera in nulla,
a tutti sorride
ma son solo fantasmi,
ha fatto la cuccia
nella stanza più interna
e ogni tanto passeggia
compagna degli alberi,
a ogni ramo sfogliato appende
rimpianti d’abbrivi mancati.
***
AUTO DA FÉ
.
Ritornano i fuochi
divampano i roghi.
Io l’eretica la strega
– io che non pretendo abiure
né concedo remissioni –
dispongo che non s’abbia
scampo alcuno
al tribunale
della mia Inquisizione
e brucino in ogni piazza
stolti gretti e arroganti
si colmi di quieta cenere
il sudario d’ignoranza.
***
HAPPY FEET
.
Dicono che per capire un uomo
sia bene fissarlo negli occhi
oppure osservarne la curva
errante delle mani,
ma io, non so perché,
preferisco guardare i piedi,
quel punto di contatto tra l’anima
e la terra dove il passo
misura l’affondo nella vita,
la soglia di equilibrio
tra l’incerto sfiorare
di punte da ballerina
e il pieno espandersi della pianta
a possedere tutta la terra,
e le dita, poi, costrette
dall’involucro delle scarpe
che, più che proteggerle, le nasconde
alla vista di chi potrebbe sbirciare
una contrattura eccessiva
in contrasto al sorriso
o un solletico strano e quasi impudico,
una voglia di libertà
che dal più piccolo nervo
s’irradia con un guizzo
al pensiero più lontano.
***
IL CASO E LA RAGIONE
.
Non tarda l’evidenza
la progressiva coscienza
d’avvento del disamore.
Manca però l’evenienza
di un’altra deviazione
lo scarto la conclusione.
Tra calcoli e pronostici
la conta delle incognite
accanto alle certezze
non dà la soluzione
– il chiaro si muta in fosco
nel rosso già stinge il nero.
Scommessa scombinata
si consuma ogni vita
nella partita ubriaca
tra il caso e la ragione.
***
A MORSI
.
Mentre mordevo la vita
un dente si spezzava,
mi chinavo a raccogliere
il pezzo mancante
e con dita maldestre
rinsaldavo quello
che era stato un incisivo,
ma che ora somiglia
a un insulso canino
la cui natura animale
mostra solo il ringhio
e la vita se la ride
del mio morso a mezz’aria.
***
LA SFERA
.
Un giro di boa
una piroetta
un circolo di lancetta
un’intera rotazione terrestre.
Da un punto d’inizio alla sua fine
completo un ciclo si compie
per breve o disteso che sia.
Poi la vela riprende a salpare
un corpo a danzare
la pendola a battere colpi
il globo a cambiare stagioni.
Ma l’uomo che nasce e vanisce
del tutto dilegua la spinta,
rindossa la veste del nulla
dal nulla che era,
deposta la maschera cruda
che occulti la sua trasparenza,
mai tolta sul filo dell’ora
ricurva che chiude la sfera.
***
I POETI A ORFEO
Noi siamo tuoi figli, Orfeo,
cos’altro da noi puoi volere…
Accogliamo visioni, stormire
di voci, cerchiamo pretesti
per cantare la luce, ma più assorte
amiamo le ombre. Chi meglio di noi
sa scrutare gli oracoli, traversare
la soglia che va verso la morte…
Per ogni velo stracciato ne posiamo
altri cento, siamo i soli capaci
di legare la notte e illesi trattare
col nulla fissando la sua nudità.
—
Daniela Pericone (1961) vive e lavora a Reggio Calabria. Ha pubblicato in poesia: ‘Passo di giaguaro’, ‘Aria di ventura’ e ‘Il caso e la ragione’.
Ho apprezzato molto queste poesie di Daniela Pericone. Nei suoi agili versi, vi traspare, a mio modo di vedere, una pietas per l’uomo che, scopertosi forse inadatto, vorrebbe sparire ma non senza aversi dato un senso, in qualche modo. E incamminatosi per “limpassibile oltranza del nord”, aprire e chiudere con una cerniera la propria ferita per ricordarsi d’essere stato vivo, anche. Una poetica tutta da approfondire, sicuramente.
Ho avuto a più riprese tra le mani ‘Il caso e la ragione’, a lungo cercandovi un filo conduttore, a lungo inseguendolo in percorsi minori, la ‘meccanica pura nel vento planetario’, la ‘Soluzione chimica’, il mito, ove echeggiano risonanze a me più affini. Sicché, inevitabilmente, spesso mi sono perso e spesso ho ricominciato. Un libro problematico, direi, ‘Il caso e la ragione’, alla fine del quale ci si ritrova come al principio, senza risposte e con una non proprio trasparente insoddisfazione, certo non per l’oscurità del linguaggio, ma forse perché è proprio questo il ‘filo conduttore’. Porsi interrogativi, confrontarsi di continuo con le risposte ‘ovvie’ della vita, che tali non sono. Se mai ce ne fossero, quand’anche di complesse, su di esse Daniela sistematicamente richiama l’attenzione. Non pare un mero esercizio, bensì il riflesso di una malinconia di fondo, del suo personale intimo dissidio, ove si avverte prepotente la ‘nostalgia di terre in cui non si è mai stati’.
Di queste poesie apprezzo la pulizia formale, il gioco di rimando dei sensi e dei suoni, la risacca pacata dei ritmi appena scalfiti da qualche elegante enjambement.
La prima poesia, in particolare, è un meccanismo compiuto, una perfetta coppa di cristallo.
Alfonso Lentini