Più passa il tempo, e sono ormai passati 22 anni dalla sua morte, più Giorgio Caproni (nella foto di Dino Ignani), acquista grandezza e diventa il poeta piu’ amato e letto, specie dai giovani, del secondo Novecento, come è stato ribadito anche oggi 16 aprile 2012 al convegno promosso dall’Istituto Treccani: “L’opera letteraria di Caproni nel centenario della sua nascita”, 7 gennaio 1912 a Livorno, anche se di sé diceva: “Abito a Roma, ma vivo a Genova” sua città del cuore.
Un successo merito evidentemente di quella sua “semplicità interiore e capacità di comunicare” di cui ha parlato Giorgio Devoto, il tutto “portando alle estreme conseguenze quella svolta antiaulica, prosastica, della poesia del Novecento, con un vocabolario comune, senza residui ottocenteschi, anche se inserito in una sintassi complessa e musicale”, come ha sottolineato il linguista Tullio de Mauro, mentre Anna Dolfi ha analizzato quel passaggio “dalla testimonianza di vista alla visione interiore” nei versi di Caproni, che si diceva “poeta capace di guardare in faccia la realtà sino a metterne in dubbio l’esistenza”.
Il Convegno, aperto da un saluto di Giuliano Amato, ha visto interventi anche di Biancamaria Frabotta, Luigi Surdich, Stefano Verdino, Luigi Natale, Adele Dei, Antonio Debenedetti, mentre il figlio di Caproni, Mauro, presente con la sorella Silvana, ha detto che con queste celebrazioni il padre gli “appare come una
nitida figura in bianco e nero, diventata di tutti, entrata nella tradizione e posta sotto la lente degli studiosi”, mentre per lui “rimane una figura a colori affettuosa e complice”.
Tutta l’ultima parte e forse la più alta di Caproni “porta avanti un dialogo sempre più profondo con l’esistenza, dialogo necessario per interrogarsi sul nostro futuro”, sulla fine della vita. E sono sempre più fini, essenziali, apparentemente quotidiani, lo stile della sua scrittura e lo spirito con cui andava affrontando, in modo sempre più tragico, i temi di un esistenzialismo personale, che si asciuga misurandosi
pacatamente con l’assoluto, senza perdere una coscienza ironica dell’ambiguità dolorosa della vita, intesa come viaggio verso una destinazione inesistente. “Congedo del viaggiatore cerimonioso” è del resto stato un altro suo titolo, in cui è l’ imbarazzo sorridente, il malessere e, assieme, una sorta di serenità acquistata attraverso la conoscenza e la coscienza, che uniche possono permettere di trasformare tutto in una sorta
di malinconico ‘divertimento’, in senso mozartiano, con più moderne ombre e scansioni musicali.
I versi di Caproni sono pubblicati in raccolte complete da Garzanti e in un volume dei Meridiani Mondadori, leggendo i quali risulta evidente come il suo punto di arrivo, proseguendo in un impossibile e necessario cammino verso la verità, è che ogni verità esiste nel suo contrario e propone un’ aporia irrisolvibile, che non è, come spesso si è detto, ambiguità o indeterminatezza, ma chiaro conflitto tra desiderio e ragione.
Il discorso allora si fa ontologico e arriva a confrontarsi col problema di dio, cui Caproni dedicò la raccolta “Il franco cacciatore”, che oggi Pietro Citati ha definito “forse il libro più spettrale di tutta la letteratura italiana”. Il dramma e’ che dio esiste proprio nel momento in cui lo si nega, il paradosso della sua presenza, amara e vitale, è, per il poeta, nel suo non esserci, nella continua ricerca che ognuno ne fa e nella continua scoperta di un’ assenza.
“Una poesia dove non si nota nemmeno un bicchiere o una stringa, m’ha sempre messo in sospetto. Non mi è mai piaciuta: non l’ho mai usata nemmeno come lettore. Non perché il bicchiere o la stringa siano importanti in sé, più del cocchio o di altri dorati oggetti: ma appunto perché sono oggetti quotidiani e nostri “.
In questa frase c’è tutta la poetica di Caproni: il “minatore” della poesia italiana, come lui stesso ha definito il poeta per la sua opera di scavo.
Leggerò volentieri le sue poesie…