E’ uscito con Ladolfi Editore un nuovo libro di poesie di Letizia Di Martino, “Ultima Stagione” (2012).
Leggiamo dalla quarta di copertina: “È una stanza, la poesia di Letizia Dimartino. Ci accomodiamo, scostiamo la tenda per vedere che tempo fa fuori, prendiamo un bicchiere d’acqua, è vuoto. E restiamo in piedi alla finestra, in attesa. Che siamo noi lettori, a entrare, o quel “tu” sconosciuto che ogni volta cambia, non importa perché il dialogo infinito è quello di ognuno. L’attesa non è solo dolore, è quasi una condizione da desiderare. «Se io vedessi te / se tu vedessi me / nel dispiegarsi dei giorni»: non è perso il tempo in cui attendiamo di conoscerci. Dalla sperata unione del “Noi” della prima silloge al “Tu” sempre più lontano, è una resa al passare del tempo, finché “Setting” non apre rabbioso alla vita. Una vita di cartapesta, recitata in un solo teatro, ma è tutto quello che abbiamo. E a ripensarci, quanto è successo nel frattempo. La poesia di Letizia Dimartino arriva al suo compimento, raccontando in una quiete apparente in cui si avvicendano mille volti e mille spazi tutta la vita di un individuo, uomo o donna. E così, mentre aspettiamo «che la finestra sfondi / che la strada attraversi / finalmente le stanze e sposti i mobili», impariamo che «ogni cosa è rimasta al suo posto/ e abbiamo vissuto così / non eravamo, semplicemente». E non c’è epilogo più vero.”
—
E avrò giorni immobili
avrò un’altra vita
quella che conosco solo io
quando solo i divani popolano
i giorni solitari
quando la tavola resta in disordine
le finestre oscurate
dammi il tuo saluto
anche vuoto di voce
il sorriso lontano
guardo il mio cappotto appeso
niente serve ormai a vivere,
il mio no risuonò lungo il mattino
lo dissi un giorno, per ripeterlo
per restare sola in questa casa
per distruggere
resta, resta e non andare
dammi la mano, ancora.
E portami via.
Nessun luogo per me. Nessuno.
—
Le vite nostre
sono nuove, come le parole
come questo vestito
che leggero posa
sulle mie gambe
fragili di muscoli,
sembra che piangano
lo sai che sono senza volto
che dormo da sola
che attendo poco
che la voce tua
giunga e buchi
questo corpo
guasto.
E ora che la notte preme il vetro
e la finestra è buia
tu sei qui,
la testa sul cuscino,
sul petto e sembra facile
anche dormire,
dormire in questa notte
che lunga mi aspetta.
Solo che niente è vero
e tu non sai piangere
con me.
—
Vienimi a prendere
bussa più volte
bussa e ti aprirò
le spalle appoggiate alla porta
il respiro che sfuma
i miei capelli sulla fronte
la bocca che non dice.
Siamo noi
ogni angolo che cela del corpo
ogni stanza che stringe e soffoca
noi nel buio
la tenda che scosto
l’abito che indosso
la vertebra che acceca,
di questo dolore mi libero
con la mano
col grido della strada.
Guardo e non esco.
—
Le tue parole non solo per me
le mie spalle al muro, la guancia
sul vetro ghiaccio
strappo il vestito fino a farlo a pezzi
distruggere te e me
tutto il detto che di colpo si perde
il cibo sul tavolo
il pensiero che si spegne
inghiotto aria e frasi
la voce che vorrei
la voce che calma
il sorriso che non ha un sapore,
sei di colpo senza odore
sei fantasma dei giorni,
il corpo che piega
non esisto, neanche fra le stanze,
non esisto, vienimi a prendere
dammi il capo, che possa accarezzarti,
che possa scappare
anche questa volta
lontana la strada mi attenderà.
Niente rimane,
quel selciato che non so attraversare
questa vita che così poco
ci appartiene.
—
Le labbra screpolate di quei giorni
quando allo specchio
non trovavo l’ombra
il rosso di ogni giorno
lungo lo sguardo
finivo per nascondere
per perdere ogni cosa
e la casa taceva nei suoi muri
i divani attendevano
io, come fantasma, cercavo
lungo il maglione che mi sorreggeva
qualcosa che non si doveva perdere
vincere fu facile, vivere un po’
meno.
—
Con quell’impronta della mano
passavo i pomeriggi
l’odore da non togliere
fuori poteva esserci
più niente, il balcone senza una stagione
eppure tu guardavi
la luce nei mattini alla finestra
dicevi di sorridere
io mi confondevo
parole per tirare
per fare corta la giornata
ed essere leggeri.
La nuca, quei capelli ancora neri
salutavi, il braccio a segnare
soffocava il respiro
avevo ore per pensare poi.
—
da: “Ultima stagione” di Letizia Di Martino
Tengo a dire che la quarta citata è di mia figlia Francesca Mastruzzo.
Grazie Luigia, sono felice e tu sai perché ..
Poesia dolorosa, un esserci senza esserci, un abbandonarsi al tempo, confondersi in esso;rannicchiarsi in poco spazio; nessun tentativo vero di uscire dal buio che nasconde, dal vuoto che trattiene. Poesia senza azione,
figlia dell’apatia e dell’inedia, di chi solo finge di essere, di chiedere aiuto, poiché sa che tutto è inutile, che dovunque si sia il tempo ti raggiunge; non c’è scampo, la morte ti conosce e sa in ogni attimo dove sei, come raggiungerti. La poesia della resa, della consapevolezza che il massimo che puoi fare è “fare corta la giornata”, la vita, affrettare i tempi. “Guardo e non esco”. Infatti, a che serve?