“Il sogno e la sua infinitezza”

Ninnj di Stefano Busà, L’arc-en-ciel
di Sandro Angelucci

Nell’immaginario di chi sta scrivendo, Il sogno e la sua infinitezza di si è rivelato un subitaneo manifestarsi, l’immediato formarsi di un arcobaleno. L’itinerario tracciato dall’autrice ha, in effetti, nei suoi punti di partenza e d’arrivo, e nel suo svilupparsi, i tratti caratteristici di un luminosissimo arc-en-ciel.
Ci spieghiamo meglio: la raccolta si apre (già prima del suo vero e proprio inizio) con un esergo, dell’autrice stessa, che recita così: “La Poesia è nel destino. / Sinapsi ascensionale che sublima. / (Come a un cielo l’ala), / dagli abissi del male, spicca il volo / e il mondo viene avvolto / di assoluto.”. Bene, ci è parso di scorgere in questa “sinapsi ascensionale”, in questa congiunzione – come anche l’ètimo suggerisce – lo sfocato contorno, perché “avvolto di assoluto” e, dunque, di mistero, della genesi di un che d’inafferrabile ma sufficiente a legare la terra al cielo: allo stesso modo del sorgere dell’iride, così nasce il sogno di questa scrittura.

Ma è soltanto lo schiudersi: poi, i colori si fanno sempre più vivaci, senza perdere la loro inconsistenza divengono eterei, s’impadroniscono della loro vera dimensione. “Rinascere” – scrive la poetessa – significa “tentare / quel poco che non conosciamo. . .”, e qui la tensione, oltre ogni apparenza, è massima: è il luogo in cui la corda s’annoda all’arco, comincia a tendersi perché sente che l’arciere è pronto a scagliare la sua freccia. Passa ancora qualche istante – il tempo di puntare verso l’alto – e il sogno comincia a descrivere la sua parabola: “la visuale delle cose diventa già memoria”, ma sono già stati elargiti i doni (“lo strappo dell’abbraccio, / il fiore d’innocenza, la melagrana spaccata / al solleone.”).
Eppure, ogni freccia “lascia dietro di sé / scie di felicità incompiuta” ma bisogna “trattenerla” adesso, ora o mai più, che il canto della terra è “certezza” di luce; ed eccola la liturgia della parola, la sua sacralità: la recapita il silenzio del mare, “il suo cobalto”, che “c’insegna” una morte nuova, “un approdo senza agguati che ci stringa / al suo infinito.”. E, comunque, di morte si tratta, giacché di quel tempo in cui beltà splendea tutto è destinato a perdersi: “a scaglie come l’albatro”, la giovinezza “si spiuma sul greto del torrente. / Lascia piumaggio e sofferenza tra i rivoli / sfrangiati, pure se al becco porta ancora / i segni d’alba. . .”; è un morire, però, che coincide con una nascita: il morire indispensabile della carne che fa tornare “al brivido primo” la “rosa candidissima” del sogno.
Quanto esposto – sarà bene precisarlo – non deve autorizzare a pensare ad un nostalgico, incongruente e debole ritorno, ché nulla, in questo percorso, indica qualcosa di statico, tanto meno, di ripetitivo: qui, al pari della mutevole cangianza iridescente del fenomeno naturale, al pari del sogno, la trasformazione è continua. Le piccolissime gocce, sospese in aria, a volte rifulgono, altre s’adombrano, altre ancora si spengono per riaccendersi in un angolo qualunque dell’orizzonte (“Mi oscuro alla mia infanzia, zolla terrosa / privata dall’acqua, vita secondaria / che più non arde, ma brucia.”).
“E’ la milizia terrena che combatte la sua impietosa guerra contro la fuga del tempo. . . quel tempus fugit. . . che riguarda l’intero e integro percorso del nostro diurno tracciato, compreso dall’equazione vita/morte. . .”, sostiene Walter Mauro.
E la Di Stefano Busà sembra rispondergli: “Il divenire d’acqua, la filigrana a sciami / si sciolgono da noi come parole mancanti, respiro di cose perdute. / Ma il limite sempre mancato induce / a negare la sabbia alla clessidra.”.
I confini – quelli della nostra finitudine – sono gli stessi estremi dai quali ha origine e fine la volta luminosa dell’arcobaleno. Ma esistono altre eternità che ci è dato conoscere, altre Colonne d’Ercole da oltrepassare? No, perché il mondo ha principio e termine laddove, e nel momento in cui, ognuno di noi ha scelto di nascere e morire: l’illusione, ma – si badi bene – non l’utopia, il sogno è la forza maggiore, la più imponente e imbattibile arma di difesa che abbiamo; e, davvero, “giace addormentata nel folto della sabbia”, quella stessa sabbia, forse, che ci manca per colmare d’infinito il vuoto di quella clessidra che, volenti o nolenti, dobbiamo riempire.
Vogliamo, però, tornare all’allegoria sulla quale abbiamo fondato l’intera esegesi, e questa volta desideriamo farlo da un punto di vista più strettamente semantico.
Lo studio di questa parola ci porta, prima di tutto, a metterne in evidenza la naturalezza, che è sempre sintomo – in poesia – del raggiungimento del più difficile dei traguardi: vale a dire la maturazione di una semplicità tutt’altro che agevole perché conquistata sul campo e, conseguentemente, di uno stile coerente e fluido.
Si dirà: e il nesso, la relazione con la metafora sulla quale abbiamo a lungo insistito?
Invitiamo il lettore a riflettere sui versi che seguono:
“Ti trovo / come l’erba tagliata sul muro / . . . . / un sogno dentro un altro che sopravvive / . . . . / Lì la parola divampa di sillabe redente / . . . . / Un sogno la vita, che accompagna / grani di poesia, mentre spalanca l’anima alla fonda.”.
Se, attraverso la lettura, si riuscirà a percepire quella “involontaria fragilità e forza” di parole “tremanti” e “dirompenti” ad un tempo, non potranno, le stesse, non disporsi a scomporre la luce per stupirci ancora – magari illudendoci – con un nuovo arcobaleno.

 Ninnj Di Stefano Busà. Il sogno e la sua infinitezza (Edizioni Tracce)

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