Nello scaffale: Carlo Michelstaedter
a cura di Luigia Sorrentino
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Le Poesie di Carlo Michelstaedter pubblicate dalla Piccola Biblioteca Adelphi a cura di Sergio Campailla nel 1987 in prima edizione, (ripubblicate negli anni successivi fino all’ottava edizione del 2011), sono ancora troppo poco conosciute e poco lette. Eppure, si tratta di un autore eccezionale e unico nel suo genere, segnato da un’esistenza troppo breve, conclusasi tragicamente, nel 1910 con un gesto estremo, il suicidio, a soli 23 anni.
Ma chi era Carlo Michelstaedter? Qual è la sua storia? E che cosa ha rappresentato la sua opera nel panorama della cultura italiana del Novecento?
Carlo Michelstaedter nacque a Gorizia nel 1887 da una famiglia borghese di origini ebraiche. Suo padre dirigeva l’ufficio delle Assicurazioni Generali di Trieste. L’ebraismo però, non sembrò incidere molto sulla sua formazione culturale. Forse lo influenzarono gli studi, le sue passioni letterarie e filosofiche, ma anche alcuni eventi drammatici: prima il suicidio della donna della quale era innamorato, Nadia Baraden; due anni dopo, il suicidio del fratello Gino, maggiore di lui di dieci anni, emigrato a New York.
All’interno di questo “schema” si inscrive la vita e l’opera di uno dei più grandi pensatori del Novecento italiano.
L’ attività di scrittore, poeta e filosofo di Carlo Michelstaedter comincia subito, fin dall’adolescenza. Dopo la maturità classica si iscrive alla facoltà di Matematica di Vienna. Poi si trasferisce a Firenze, interessato all’arte e pensando di potersi dedicare alla pittura. Michaelstadter continua a scrivere sempre più e febbrilmente . Scrive un’enorme quantità di lettere, pubblicate poi nell’Epistolario, la maggior parte delle Poesie e alcuni dialoghi, tra i quali il più significativo è Il dialogo della salute. Alla fine Michelstaedter decide di frequentare la facoltà di Lettere, indirizzandosi soprattutto allo studio della poesia e della filosofia greca. Influenzato da Platone e Aristotele, concentra il suo genio precoce ne La persuasione e la rettorica, nata come studio per la sua tesi di laurea e diventata la sua opere più importante. La “persuasione” è per Michelstaedter il tentativo di entrare in possesso della propria esistenza e di consumarla nella consapevolezza della manchevolezza, dell’irriducibilità di ogni essenza vivente. La “rettorica” è, invece, l’apparato di gesti, di parole, di istituzioni con i quali si cerca di occultare l’impossibilità di giungere alla “persuasione”. Per dedicarsi completamente alla filosofia e alla poesia il giovane Michelstaedter si isola sempre più. Mangia pochissimo e diventa quasi un asceta. Vede soltanto la sorella e il cugino, Emilio. Al padre – che si aspettava forse qualcosa di più pratico dal figlio – dirà che dopo la tesi farà il professore, ma che appena si sarebbe laureato se ne sarebbe andato al mare, un tema ricorrente nella sua opera di poesia, non meno interessante dei suoi trattati filosofici. Le poesie, infatti, contengono il germe di una condizione esistenziale estrema diretta verso tematiche obbligate che lasceranno un segno indelebile, un marchio proprio, su un’intera generazione, quella nata nel primo Novecento in Italia (n.d.r. quella generazione a cui fa riferimento Maurizio Cucchi nell’intervista in onda su Radio Uno l’8 agosto 2012 e ascoltabile su questo blog qui: “Per il verso giusto” Incontri con i poeti contemporanei).
Le Poesie di Carlo Michelstaedter composte fra il 1905 e il 1910 che risentono solo superficialmente del clima letterario italiano di quegli anni, ci fanno comprendere che la vita di un poeta, di un filosofo, di un pensatore, spesso coincide con la sua biografia. Non a caso proprio nelle Poesie affiorano i temi ultimi a cui l’autore dedicò la sua riflessione filosofica motivato da un’invincibile vocazione a spingersi al di là del confine: amore e morte, universo e nulla. Proprio nelle Poesie inoltre, Michelstaedter svela il suo talento: l’immediatezza del suo pensiero, che conduce a un mare sempre più aperto e pericoloso, il vero “mare, dove l’onda non arriva”, un mare senza mare, arido e deserto, rispetto al quale si può dire : “finché in un punto si raccolga in porto,/ […] in un punto faccia fiamma”.
La penultima lettera Carlo Michelstaedter la scriverà alla madre, Emma Michelstaedter. […] “La fine è vicina, ed è vicina l’alba della mia vita; presto, come da una serie d’incubi io esco al sole a operare veramente – Tu guardi gli altri giovani che sono al caffè con le loro famiglie e pensi a me con tristezza.” Qui l’autore risponde puntualmente a quanto la madre le aveva scritto in una lettera di a settembre del 1910 e conservata nel “Fondo Carlo Michaestaedter”. L’ultima lettera Michelstaedter invece la scrive da Gorizia il 5 ottobre 1910, ed è indirizzata Al segretario di Studi Superiori di Firenze al quale il giovane spedisce la sua tesi di laurea, annunciandogli che “a giorni spedirà un volume di appendici alla tesi (a proposito di Platone e Aristotele)”. Il 17 ottobre Carlo Michelstaedter compie il suo gesto estremo, si toglie la vita, sparandosi un colpo di rivoltella. Chissà come sarebbe andata se invece qualcuno quel giorno avesse impedito quel gesto d’impeto… sì perché il suicidio d’impeto come mi spiegava ai tempi del liceo Leotta, il mio Professore di Filosofia, è un atto dal quale si può ritornare una volta fermata l’intenzione improvvisa, accelerata, accecata, folle, di farla finita.
(di Luigia Sorrentino)
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Nota a margine:
Tutta la sua opera è stata pubblicata postuma. Carlo Michelstaedter è sepolto nel cimitero ebraico di Rožna dolina (Valdirose), oggi nel comune sloveno di Nova Gorica, a poche centinaia di metri dal confine con l’Italia.
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Poesie di Carlo Michelstaedter
da [a Senia]
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IV
Dato ho la vela al vento e in mezzo all’onde
del mar selvaggio nella notte oscura,
solo, in fragile nave ho abbandonato
il porto della sicurezza inerte.
Al mare aperto drizzata ho la prora,
per navigare, ed alla sorte oscura
la forza del mio braccio ho contrapposta.
Non ho temuto il vento avverso e l’onda
canuta, né la mensa famigliare
e l’usato giaciglio il rimpianto
e il commercio delle care
e dolci cose. Né deserto e triste
m’è apparso il mar sonante nella notte,
anzi la voce sua come un appello
mi sonò in cor della mia stessa vita;
mi parve dolce cosa naufragare
nel seno ondoso che col ciel confina,
né temuta ho la morte…
.
Alla punta del golfo donde il mare
s’apre libero e vasto senza fine
tu m’attendi sicura e fiduciosa,
le vesti al vento, ritta sullo scoglio.
Costeggiar mi conviene la scogliera
per uscire dal golfo, quindi uniti
navigheremo, poiché a me t’affidi:
sì breve tratto da te mi divide
e dal libero mar sì breve tratto!
– Ma perch’io tenti la bordata e tenda
la vela al vento, pur l’inerte chiglia
non fende l’onda, ch’ora sulle creste
spumanti, or negli abissi, or sur un bordo
or sull’altro la trae senza riposo.
E se l’albero gema, se la scotta
a spezzarsi si tenda, e nella vela
ingolfandosi il vento il mio naviglio
minacci di sommergere, pur sempre
alla stessa distanza io mi ritrovo
dalla punta agognata. Col timone
io m’adopero invano al mare aperto
dirizzare la prora: a chiglia inerte
il timone non giova.
.
Il vento e l’onde intanto lentamente
come un rottame verso la scogliera
mi spingono a rovina senza scampo.
Ch’io debba naufragar senza lottare
fra la miseria dei battuti scogli,
presso al porto esecrato, come un vile,
senza esser giunto al mare, e te lasciando
sola e distrutta dopo il sogno infranto
fra le stesse miserie?
.
Gorizia, 15 settembre 1910
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V
Se mi trovo fra gli uomini talvolta,
qualunque cosa io parli, la mia voce
mi par che solo il nome tuo richiami.
Io taccio allora e aspetto trepidando
ch’altri con bocca impura a questa voce
risponda, e del mio bene ascoso mi discorra;
e se pur d’altre cose memorando
mi parlano con voce indifferente,
ma nel loro sorriso, ma negli occhi
mi par d’intravedere ch’altra cosa
vogliono dire, che nel cor profondo
sì mi ferisce. Che da ogni mio gesto,
che dal volto mi par ch’altri mi legga
il pensiero di te che sei lontana.
.
Dal commercio degli uomini rifuggo
allora alla campagna solitaria
o alla mia stanza solitaria e solo
tutto in me mi raccolgo; ma nell’aria,
nel canto degli uccelli e nell’uguale
mormorare dell’acqua, dalle ripe
alte del fiume e pur dalle pareti
della mia ignuda stanza, a piena voce
il tuo nome riecheggia al mio silenzio,
sì che palese a ognuno e manifesta
del tutto, al volgo preda senza schermo,
parmi l’anima mia nel suo segreto.
Ed il sogno che nasce palpitante,
la «storia» che non soffre le parole
ma vuol esser vissuta, il più profondo
e caro senso della nostra vita,
che pur uniti e soli sotto il velo
di parole comuni nascondiamo,
d’atti comuni, con gelosa cura
nascondiamo a noi stessi, ora del volgo
mi par fatto preda contaminata.
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Nei giorni del dolore e nelle notti
senza riposo, nella valle triste
della sorda fatica e del tormento
senza speranza, nel mio dubitare
cieco, quando l’abisso dell’inerzia,
dell’abbandono m’era aperto ai piedi,
allor fioca scintilla io l’allevava
il mio sogno lontano, ancor ch’io fossi
d’ogni certa speranza privo al tutto;
ma da quello una vena mi fluiva
di forza che nel mezzo delle cose
vane e volgari, delle ottuse cure,
indifferente mi facea e sicuro,
e al dolor mi temprava e ogni timore
del mio stesso soffrir, ogni ricerca
di premi, di riposo, di conforto
ogni viltà dal cuore mi toglieva.
Dal più profondo della mia distretta,
nella mente più oscura quella fiamma
mi era sorta, caduta ogni speranza,
e la risposta al tanto faticare
di richieste alla vita per lei chiara
mi rifulgeva: «Non chieder più nulla,
sappi goder del tuo stesso dolore,
non adattarti per fuggir la morte;
anzi da te la vita nel deserto
fatti – che sia per gli altri nuova vita;
non disperare, ma rinuncia ai vani
aspetti della vita, e nel deserto
sarai tranquillo: dalla tua rinuncia
rifulgerà il tuo atto vittorioso,
ΑΡΓΙΑ sarà il tuo porto Ι’ΕΝΕΡΓΕΙΑΣ».
.
E sentii la mia vita fiammeggiare
ed il deserto farsi popoloso,
credetti fosse giunto il luminoso
mio giorno nella notte e consumare
quella fiamma mi parve la mia vita.
Ma per più lunga strada il mio destino
mi volse a far cammino: e vivo ancora
mi trovai nel fittizio riposo,
ma a te vicino per più forte andare;
in te concreta vidi la mia fiamma,
in te il mio sogno fatto era vicino
e la mia vita più certa: ogni ritorno,
ogni vile riposo, ogni timore
era morto per me. – Nel mare ondoso,
sulla brulla costiera solitaria,
sotto la forte quercia, a me vicina
io t’ho sentita siccome nel sogno. –
Non Argia ma Senia io t’ho chiamata,
per non sostar nel facile riposo,
e la lingua la fiamma consacrata
con le parole non contaminò.
Pur or mi trovo ancora nella nebbia
e il camminar m’è vano e la fatica
novellamente mi si fa penosa.
Io sento me da me fatto diverso,
se pur vicina ti sento lontana
ancora come un tempo, e la mia fiamma
geme che pur rifulse nella notte
per sua forza, sicura. Nelle tante
piccole e vane cose nuovamente
io mi dissolvo; nell’oscuro giro
della diuturna noia il nostro sogno
parmi tradito e per ignote voci
con parole di scherno messo a nudo,
pesato, misurato, confrontato…
Come se ignote mani il focolare
andassero scrutando ingordamente,
e alle ceneri insieme le faville
disperdessero al vento…
.
L’angoscia di non giungere alla vita
e di perire dell’oscura morte
te trascinando nell’abisso, Senia,
mi prende forte sì che dubitoso
mi son fatto di me, che non sopporto
le mie stesse parole, e di me stesso
invincibile nausea m’opprime.
.
Gorizia, 19 settembre 1910
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VI
Ti son vicino e tu mi sei lontana,
mi guardi e non mi vedi, o s’io ti parlo,
pur amando ascolti, non però m’intendi;
ti sono questo corpo e questi suoni,
ti sono un nome, ti son un dei tanti,
come un altro sarebbe
che per nome e per vista conoscessi.
Io non sono per te «io», la mia vita,
io, questa mia volontà più forte,
Il mio sogno, il mio mondo, il mio destino.
Io non sono per te: questo mio amore
disperato e lontano e doloroso
– gli passi accanto e non lo senti amare.
Ma ancor fra gli altri uomini t’aggiri,
con questo parli ed a quello t’affidi,
fra lor vivi e per lor, s’anco a nessuno
dai la tua speme intera e la fiducia.
Ma fra l’oggi e il domani e questo e quello
ti dissolvi, e trapassi senza sole
la tua selvaggia e forte giovinezza,
e la tua speme consumando ignara
sei di te stessa – ed io mi struggo invano.
Mentre mi vince gelosia crudele
non pur di questo giovane e di quello
cui lo sguardo concedi o la parola,
ma d’ogni cosa che ti sia vicina,
ma del sole, dell’aria, ma del pane,
ché di loro ti nutri e a me sei tolta;
gelosia d’ogni giorno, d’ogni istante,
che vivi, che non vivi di me solo,
che l’aria e il pane e il sole, che ogni cosa,
che il mondo intero, che la vita stessa
vorrei esser per te – ma tu l’ignori.
.
VII
Parlarti? e pria che tolta per la vita
mi sii, del tutto prenderti? – che giova?
che giova, se del tutto io t’ho perduta
quando mia tu non fosti il giorno stesso
che c’incontrammo? Che se pur t’avessi
ora, vincendo, mia per il futuro,
mia per diritto, mia per tuo volere,
mia non saresti più che non sei ora,
mia non saresti più che s’altra mano
ti possedesse. Che pur del mio corpo
sarei geloso come or son d’altrui.
Non più sarei per te la vita intera
ch’ora non sono, se già in me non l’ami:
ma se in me non l’ami, se tua vita
crear non so della mia vita stessa,
che più giova sperar, che più volere,
che mi giova la vita e il mio dolore
e questo amor lontano e disperato?
Fatto sono da me stesso diverso
che centra il fato mi dicevo forte,
poiché ho esperta e ancor vivo ad ogni istante
nella tua indifferenza la mia morte.
Né più mi giova mendicare i giorni
né chieder altro più dal dio nemico,
se non che faccia mia morte finita.
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(Traduzione di Sergio Campailla)
Ecco un’anima gemella a quella di Leopardi, sia nell’approccio alla vita e sia nel sentimento d’amore verso l’amata, la quale si mostra (nuova Nerina) del tutto indifferente al suo disperato bisogno…Anche il linguaggio mi appare molto leopardiano, sino all’uso di parole e costruzioni del verso sul modello del Leopardi. Dall’Infinito riporta quasi integralmente un intero verso: “…mi parve dolce cosa naufragar” / “(nel seno ondoso che col ciel confina,/ né temuta ho la morte.)” Il riferimento al Poeta di Recanati nulla toglie alla sincerità del suo pessimismo esistenziale, e al naturale fluire del verso, discorsivo quanto efficace.
Ho di proposito voluto scrivere il commento senza leggere la presentazione. Scopro, attraverso le note critiche e biografiche, redatte da Luigia Sorrentino, che la breve vita del poeta, ( e quant’altro ) racchiude e rappresenta molto di più di quanto potessi immaginare dalla sola e rapida lettura delle poesie riportate. La coincidenza tra poesia e biografia è emblematica della sincerità della sua inquietudine esistenziale che lo porta continuamente a una ricerca febbrile di valori “di sostegno esistenziale”, ricerca che, purtroppo, non gli impedisce il suicidio, a soli 23 anni, recidendo un talento di sicura, ricchissima messe della sua stagione matura.