Nello scaffale “Salva con nome”, di Antonella Anedda
a cura (e di) Luigia Sorrentino
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Le poesie contenute nella nuova raccolta di versi di Antonella Anedda “Salva con nome” Mondadori 2012, (euro 16,00) provocano un’abrasione, una scottatura che brucia sulla pelle viva. Una materia umana – troppo umana – è contenuta nello spazio di questo libro, uno dei più intensi e maturi della sua produzione poetica.
Se qualcuno chiedesse a chi scrive di dare una definizione lapidaria a “Salva con nome” direi “questo è un libro sulla morte”, ma sarebbe una definizione sommaria, sbrigativa, detta per spaventare e togliermi di torno l’interlocutore e per rimanere sola con il segreto di questo libro. Perché quando la poesia raggiunge un livello di consapevolezza così alto, diventa materia pericolosa da gestire per i non addetti ai lavori. E allora provocherei volontariamente l’allontanamento del lettore comune dalla poesia di Antonella Anedda.
Chi scrive sa che un giorno saranno in molti a cercare la parola, spettrale, terrorizzata e vera, di questa poetessa. E quando altri ancora – sempre di più – capiranno, e verranno a cercarla – perché sentiranno la necessità di ascoltarla – vorrà dire che qualcosa è cambiato nella loro vita. Perché la vera poesia salva – ha un’azione salvifica – soprattutto quando vivere diventa improvvisamente difficile, quando si fa proprio fatica.
Quando si è giovani – o ci si sente giovani – non si presta attenzione alla poesia che, invece, porta in sé qualcosa di prezioso. Il contenuto raro che ci offre la vera poesia, spesso lo allontaniamo da noi, lo buttiamo via assieme a quella manciata di cose che scottano. Perché ciò che porta la parola della poesia disorienta, è più facile far entrare nel nostro personale dizionario soltanto il gerundio presente per dire: essendo. Un verbo, il gerundio presente, che ci tiene sotto protezione, ci dà altro tempo – mai il tempo di voltarci indietro – perché piace e fa star bene dire sempre e soltanto essendo. Ebbene la Anedda in questo libro fa, se così si può dire, proprio l’operazione opposta: scardina – ossia, sconvolge e dissesta – la sicurezza del nostro vivere al presente.
“Salva con nome”, quindi, perché solo il nome vero, solo la forza della parola pronunciata in tutta la sua potenza – altre volte in tutta la sua fragilità – riesce a salvare. La parola della poesia, in questo senso, davvero costituisce una forma di protezione, ma è necessario trovare il tempo di leggerla, di ascoltarla, per aprire in noi il varco di un mondo emotivo – anche fisico – con il quale non entreremmo mai in contatto per paura di vedere la realtà.
Partendo dalla materia del titolo del nuovo libro di Antonella Anedda “Salva con nome” ci siamo un po’ avvicinati alla poesia di questa poeta/poetessa che pubblicò i suoi versi giovanili nel 1985, con La Tartaruga. La prima recensione scritta sulla Anedda è firmata da Amelia Rosselli, ed è del 1992. Sono trascorsi più di trenta anni dal suo esordio, “Residenze invernali” uscito in plaquette con due litografie di Ruggero Savinio con l’introduzione di Gianluca Manzi. Poco dopo il libro fu pubblicato da Nicola Crocetti con la nota di un giovane critico, Arnaldo Colasanti. Fu tale il successo di quel piccolo libro che si parlò di un ritorno alla vera poesia, quella che obbedisce al brivido che attraversa la schiena. Arnaldo Colasanti con un piccolo studio, addirittura riferito a un solo testo della Anedda, “un discorso non prefatorio in sé ma inaugurale di un’attenzione, da sempre promessa e vissuta al senso della poesia”, consegnò ai lettori una nuova poetessa italiana.
Fin dal libro d’esordio, “Residenze invernali”, il lettore si è trovato di fronte a versi limpidissimi ed esatti che aprono una nuova percezione dell’umano, nel senso di partecipazione oggettiva attraverso la parola della poesia al destino dell’uomo.
In “Salva con nome” – un libro che ha il dono di pronunciare la parola, di metterla lì, al posto giusto, con “coraggio” – l’autrice presenta una scrittura eterogenea che spazia, con il suo inconfondibile stile, dalla poesia alla prosa. Il testo consegnato al lettore è corale, si muove nello spazio esiguo della pagina e provoca uno spaesamento collocando chi legge in una dimensione esistenziale che oscilla tra presente e passato. “Essendo”, quindi, ma anche “Essendo stati.” Ed ecco che frammenti di visi avvolti dal vapore che sale dalla terra avvertono ancora il dolore della separazione dall’esperienza umana.
“Cos’è un nome?” si chiede la Anedda nella prosa che apre il libro. “Nulla. Un suono che chiama un corpo, un campanello che ti aggioga. Ricevere un nome è la prima prova che siamo in balia degli altri. Non avere nome significa fuggire: pochi hanno il coraggio di andarsene dal nome che hanno fino al nome che sono.” Più avanti l’autrice dà un’altra informazione: “In questo libro i nomi possono essere dati arbitrariamente da chi legge. Possono essere associati a vecchie foto (ndr. numerose all’interno del libro) di visi che colleziono negli anni e di cui non so il nome”. Poi l’Anedda si rivolge esplicitamente a Hölderlin che vacillante e eternamente minacciato da se stesso, si dava a volte il nome Scardinelli: e, scardinando se stesso da passato e presente, trovava in un altro da sé, “scaglie di pace”.
Il libro si divide in otto sezioni: “Aria”, “Pneumatologia”, “Salva con nome”, “Bambini”, “Acque”, “Cucire”, “Fuochi”, “Terra”. I quattro elementi naturali che hanno dato origine all’universo diventano componenti emotive del ciclo naturale della vita. La voce di Antonella Anedda prova dolore, ha paura. Si leggano i versi delle poesie che si riferiscono a eventi cristallizzati in una data: “Cucina 2005″, “1943″, o “Vallesana, Sondrio, 1950″. Quest’ultima, in particolare, che riferisce di un evento “privato” richiama la condizione di “marginalità” in cui oggi è precipitato l’essere umano. Di fatto la poesia ricorda la degenza della madre ventenne della poetessa, ricoverata in un sanatorio a Vallesana, nel reparto di Pneumatologia – aveva l’aria nei polmoni – assieme a donne operaie che lavoravano in fabbrica. Frammenti che la Anedda cuce sulla pagina – tra passato e presente – nella consapevolezza che tutto è prossimo al dissolversi. Come quando reitera uno dei riti più antichi della Sardegna che ancora oggi si tiene a Oristano, il martedì di Carnevale: la sartiglia. Il fine del rituale è quello di infilzare con la lancia una stella, (in spagnolo sartiglia), sospesa a un filo sottile. Qui l’autrice toglie anche a sé stessa il nome, annulla la sua identità infilando sul proprio volto la maschera con la quale dovrà combattere la paura e l’impotenza, diventando tutti gli uomini e le donne che ciascuno di noi è stato. Oppure quando in “Mala mutas” (“Cattive circostanze”) la Anedda inserisce un dato di cronaca, la storia vera di due fratelli che si uccisero per ripicca sparandosi al volto dentro il cuore della sua Isola, la Sardegna. In quell’uccisione feroce entra anche il “carattere” di un popolo: “cucito dentro l’orlo del vestito listato a lutto”, vendicativo.
Nella sezione eponima “Salva con nome” la Anedda nella poesia “Spazio dell’invecchiare” rivela che “solo la nudità alla fine ci raggiunge”. Più avanti l’autrice chiarisce di non aver voluto scrivere un’elegia della vecchiaia, e precisa che il suo non è un libro consolatorio, morbido, idilliaco. E’ un libro che costruisce brandelli di futuro, scaglie di amore in cui la solitudine di un destino, splende.
Nella seconda poesia della sezione “Bambini” l’autrice rivela ancora qualcosa di strettamente “privato” che entra nell’infanzia di tutti coloro che si sono sentiti soli : “Sogno me stessa/ nell’unico gioco infantile che ricordi,/ costruire un mondo sotto l’anta di un mobile”. Sua madre – che è e non è sua madre – dopo essere stata in sanatorio si era nuovamente ammalata, e lei in quel rifugio cercava, in un luogo interiore, appartato e solitario, “il ritmo che libera i bambini dal terrore”. Le fa da madre, un muro giallo-ocra.
C’è poi la sezione intitolata “Acque”, una delle più belle e intense del libro. La Anedda nelle poesie “Spazio dell’acqua domestica”, “Tuffatori”, “Donna che nuota”, “Ritratto di tuffatrice”, “Acquedotto” ingaggia una lotta contro il tempo. Nella prima, (dove “il silenzio è uno smalto”), l’autrice fotografa una donna che sta facendo il bagno mentre “separa i desideri, li striglia con spugne di crine”, e inserisce due parole importanti: “nostalgia” e “distanza”. In realtà – si capisce molto chiaramente – la protagonista (dalla voce inequivocabilmente femminile) “si sta preparando” alla morte. Non dice la parola “distanza” – dalla morte – come forse dovrebbe dire, perché qui un’altra parola va in suo aiuto… e allora dice “nostalgia” – della vita – (dal greco nostòs – ritorno – e algia – dolore: letteralmente “dolore del ritorno”). Qui la parola della poesia viene a soccorrere, e trova la parola che salva, “fugge in avanti” scivolando nell’altra, all’altra confondendosi. Ma “una stella marina morendo si contrae”.
di Luigia Sorrentino
Luigia, trovo intenso e coinvolgente il “racconto” che fai del libro di poesia di Antonella Ledda; metti addosso una voglia di andare a conoscere de visu il contenuto del libro. Il cui titolo: “Salva con nome”, mutuato, credo, da Internet (Salva, Salva con nome, ecc.), è originale e significativo, come si evince dal tuo ampio commento. E’ un poeta da aggiungere agli altri da conoscere e/o approfondire. Complimenti e grazie. Giovanni.
Ho letto recentemente, da un interessantissimo articolo di Roberto Galaversi sul Corriere della Sera, che Anedda è inclusa in una recente antologia di poete e viene puntualmente citata nei motivati meriti che ne riceve l’antologia stessa.
Qui il racconto, accorato e profondo, di rara sensibilità, può essere altro dalla recensione… I libri, soprattutto di Poesia, dovrebbero essere accompagnati così, in questo modo, alla lettura.
Grazie. Matilde
Grazie a Matilde e a Giovanni.
Credo che Roberto Galaverni sia un ottimo critico, peraltro scrive per uno dei più importanti quotidiani nazionali, ‘Il corriere della Sera’. Io, invece, sono una giornalista di Rainews, autrice di programmi radiofonici e scrivo poesie. L’approccio è totalmente diverso. Sono contenta di essere riuscita a trasmettere ‘l’intenzione’ di un’opera di sicuro valore letterario e poetico: “Salva con nome” di Antonella Anedda. Io però credo di aver scritto proprio quella che in gergo si chiama “recensione”.
Ma che bella recensione Luigia! L’Annedda, merita davvero, tutte le attenzioni possibili.
Grazie.
vincenzo celli
scusa, Luigia: Anedda, con una enne sola. Ho scritto di getto 🙂
Ciao Luigia,quando scrivi : “questo è un libro sulla morte”, potresti aggiungere (forse ?)è sullo spazio temporale dell’invecchiare” , sulla trasformazione che l’invecchiare (e avvertirlo poeticamente anche sui cinquant’anni !?” Solo la nudità alla fine ci raggiunge:”), impone non solo al corpo, non più giovane,ma anche alla pagina poetica.
Una riflessione presa dalla penultima opera di Pier Luigi Bacchini (1927) di Parma (Contemplazioni meccaniche e pneumatiche)”…Ho queste ore ultime definitive / dove la mia più grande trasgressione erotica/è lo scrivere senza contare i versi, ritrovandomi bambino e vecchio,/meravigliosa sintesi malinconica / priva dell’età matura:”
Grazie per l’interessante tua recensione, utile per chi produce nel settore della video poesia, e si è avvicinato recentemente all’opera poetica di Antonella.
Giovanni Martinelli
Scoprire un nuovo poeta e sempre grazie a te, al tuo lavoro meraviglioso, alla tua capacita’ di capire e di esprimere, di presentarlo agli altri quando tutti siamo ancora viventi, quando tutti possiamo ancora incontrarci, leggerci, parlarci!
Ed per Antonella un pensiero come un “tiramisu”, un sorriso senza eta’. Non c’e’ alcuna differenza tra vita e morte. Il tutto e’ un’illusione per questo bisogna vivere con gli altri ed essere buoni: “anche una stella marina morendo si contrae”.
Leggero’ le tue poesie Antonella!