Poesie di Guadalupe Grande

La poesia di Guadalupe Grande
a cura di Luigia Sorrentino

Informazioni
Guadalupe Grande
è nata a in Spagna, a Madrid, il 30 maggio 1965. Poeta, scrittrice, critico letterario è laureata in Antropologia Sociale.
In poesia ha pubblicato: “El libro de Lilith”, Premio Rafael Alberti, 1995; “Renacimiento”, 1996 e “La llave de niebla”, 2003; il suo libro “Fábula del murciélago” ha ricevuto una menzione al premio Barcarola nel 1996. Le sue poesie si trovano in numerose antologie spagnole e ispano-americane: “Monographic about feminine poetry published by the Zurgai Review (Vizcaya, Julio, 2004), 33 de Radio 3 (Calamar/Rne3, Madrid, 2004) Writing and voice -80 poetic proposals from the Fridays of The Cacharrería- (Comunidad de Madrid/ONCE, Madrid, 2001), Woman of flesh and verse (La esfera literaria, Madrid, 2001), Poetic Village II (Ópera Prima, Madrid, 2000.)

POESIE DI GUADALUPE GRANDE
(Traduzione di Sara Piazza)

.

Gatte partorienti
.
Così ascolti le cose della tua vita come il miagolio di un gatto in fondo al giardino
.

Ti svegli all’alba e ascolti in fondo proprio in fondo quel remoto miagolio di gatto appena nato
.

E un’estate e un’altra e un’altra ancora fino ad arrivare a questa notte
.

In fondo al giardino in fondo
.

Così ascolti le cose della tua vita così ascolti le cose del mondo
al buio di notte palpando la paura di non capire o quella di non volerlo fare
.

e quel gatto che non smette di miagolare ed è una piccola ferita non sai di cosa non sai di chi ma sta lì insistendo gridando per la fame e per la notte sull’orlo del pericolo sull’ orlo dell’abisso sull’ orlo del giardino un’auto un fanale e poi nulla
.

e continueranno i miagolii più ostinati di te e vedrai la prossima estate fino alla prossima canicola suono indifeso come una onomatopea così poco lirica da non poterla scrivere ti dici
.

cosa penserebbe mai nessuno e chi è nessuno quando legge quella onomatopea così liricamente scritta così ridicolmente sonora così da vignetta del dopoguerra
.
ma suona suona ogni notte
.
e tu per rasentare la ferita ti dici che così ebbe inizio tutto con una onomatopea con un suono tanto innominabile quanto adesso l’insistente miagolio del gatto appena nato convocandoti ma dove chiedendoti che cosa
.
O magari ancor peggio forse nulla ti convoca e solo ti svegli nel cuore della notte per essere il precario testimone che non può tradurre una onomatopea Questo ti dici per rasentare la ferita
.
Ascolti il gatto Dopo hai visto un uomo a torso nudo e senza braccia sul ciglio della strada
hai sfiorato la gamba perduta nel pantalone rimboccato sopra la coscia e hai visto che la morte è un mazzo di rose di plastica legato a un lampione
.
e hai dovuto domandarti quale parola non sia una onomatopea indecifrabile nell’inseguire l’ombra]
.
Un’estate e un’altra ancora in fondo alla vita in fondo al giardino in fondo al suono
.
E le gatte continuano a partorire senza posa e partoriscono onomatopee che in fondo al giardino risuonano come le tavole della legge

****

Meditazioni in anticamera

.
Liverpool non esiste.
.
Questo sa la donna che si siede dietro i vetri dell’aeroporto a veder passare il fiume Mersey,
.
un fiume che assomiglia alla misericordia ma lungo il quale non risaliranno i salmoni: non arriveranno al torrente, non attraverseranno il tunnel dell’orso, non deporranno uova sulla cieca obbedienza delle bussole.
.
Perché Liverpool non esiste, sul fiume Mersey galleggia il guscio di noce in cui naviga il suo dente da latte.
.
Galleggia la matriosca, incinta di sé stessa, galleggia ancora e ancora fino alla sua ultima bambola, minimo racconto d’infanzia, infinito racconto della sublimazione.
.
Galleggia l’ala dell’albatro e sorvola il gabbiano e la cera di Icaro è adesso ruggine nel limo.
.
Dall’altro lato del canale, sul fiume Mersey, galleggia lo scarabeo della vita sui denti del gatto del Cheshire, vale a dire, una foglia sopra la sua ombra, un cerino nel vuoto della fiamma, una piuma nel guscio, e la sua vita in una carta senza bottiglia.
.
Poco importa ormai che Liverpool non esista.

.
Chi ha messo un piatto di latte al gatto, chi ha saputo vedere l’albero all’ombra della foglia e non dargli fuoco, e chi raccoglierà l’inchiostro con la piuma del merlo che qualche volta attraversò un giardino, chi per scrivere dove, per scrivere cosa.
.
E galleggia il souvenir africano, splendore della pietra che oggi è rovina, pelle nuda in transito che qui si converte in luminosa vertigine degli indumenti.
.
Ma questo legge lei oggi nel fiume Mersey, e si chiede chi ha avuto misericordia delle caviglie, chi delle pupille degli gnu dove abitavano le gazzelle, dei fiumi che straripano dal loro letto. Colui che si è messo il cappotto e ha attraversato la città che non esiste.
.
Questo guarda oggi nel fiume Mersey. Alla fine, tutto ciò che non esiste è una mappa dell’altra sponda.
.
Per questo, oggi, Liverpool non esiste, dall’altro lato dell’acqua. Dall’altra parte del vetro.
*****

 

Cartolina III
(Vista aerea)
.
È sui tetti,
l’importante accade sui tetti,
vale a dire,
ben poca cosa.
.
Ma tu ti affacci alla finestra
e osservi un orizzonte di antenne,
esseri ancor più sottili
della radiografia delle nostre anime.
Quanto sono terribili le antenne,
così regali e inafferrabili,
sempre di profilo!
.
Erette contro il tempo
nascondono sotto una fronda
di foglie perennemente caduche
il loro scoramento verticale.
.
Eppure,
l’importante accade sui tetti.
Vale a dire,
ben poca cosa,
soltanto
questa conversazione di architettura e ombra
inerte come la radiografia delle nostre anime.

******
Natura morta
.

Le nove e la cucina è in penombra:
sono seduta davanti a un tavolo grande come il deserto,
davanti ad alimenti che non so come guardare,
e se li interrogassi, che mi risponderebbero?
.
Sono arance di un raccolto fuori tempo,
mandarini senza impero,
bietole verde lutto,
lattughe verde oblio,
sedani senza testa,
verde niente,
verde dopo,
verde infine.
*****

(Vassoi di promessa
nella contea dell’abbandono.)
.
Il pomeriggio si dilata nella cucina
e non vi arriva il suono del mare.
La solitudine delle arance si moltiplica:
nessuna domanda per tanta opulenza,
qui, nella serenità di questo sgabello a tre piedi,
circondata da una muraglia di mandarini orfani,
da una legione di banane senza macchia,
da un bosco di prezzemolo più frondoso
della selva tropicale.
.
Alimenti muti e senza profumo:
vi guardo e vedo solo una carovana di merci,
il sonno dei conducenti,
un’urgenza di frigoriferi
e un striscia d’acqua sporca che attraversa la città.

******

Fazzoletti di carta
.
Una luce accesa in ogni casa,
qui,
sul bordo senza limite della penombra.
.
Con questi due occhi soli
e questa lingua assurda,
questa bocca rotta,
questo buco pieno di cenere nella gola
ascolto il passaggio di un treno perduto
non so perché, non so per chi.
.
…e chi ti guarda allora, chi?
«Addio e abbi pietà».
.
Ma questa è la luce dei giorni,
questa è l’ombra azzurra della memoria
che illumina nell’ora di punta
le coniugazioni della pioggia sopra le mappe,
sulle planimetrie,
sulla cartografia sotterranea
e la sua strana germinazione.
.
Banchine, strade, vie,
marciapiedi, boulevards, sottopassi,
ponti, piazze, viali:
siamo
davvero
dentro?,
«siamo
davvero
fuori».
.
Nell’ora di punta del non sapere,
un fazzoletto di carta asciuga
il filo di distanza
che scorre sulle guance:
suonano i piatti,
si affannano gli utensili nelle cucine,
si ascolta la conversazione del giorno,
il mormorio della luce che si spegne,
il rumore della luce che si accende,
.
e tutto si dispone a partire o arrivare
ancora una volta.

*****

Farmacia di guardia
.
I
La bicicletta di mio padre
gira all’angolo della città.
Niente più campi di grano, niente più
capre, non i capretti né il ruminare,
tutti riuniti ormai solo nella memoria.
.
Gira all’angolo del viale
e prosegue il suo cammino tra le poche auto.
Rimedi, unguenti, bende
annodano la conversazione che dubita e trema
tra i raggi di questo orologio ossidato.
.
Papà corre, papà pedala in fretta
e crede che grazie al suo poco peso
e alla velocità
le distanze si arrendano ai suoi passi:
la distanza della vita,
la distanza del desiderio,
la distanza bianca della morte.
Corre e teme, mio padre, per le strade della città.
II
E se il viale fosse ancora più grande,
così grande da contenere il mondo intero?
E se potesse pedalare così in fretta,
sudare fino all’ultima goccia di storia
sulla carcassa dell’animale
per sfiorare lì, dall’altra parte della strada,
il volto freddo della felicità?
.
Ma cosa fare allora con le bende,
cosa con gli unguenti, cosa
con i precari arnesi di questa alchimia da post-guerra
che viaggiano tra i raggi delle ruote
per le farmacie della città.
Non più farmacia, non più osteria,
non più giaculatoria nè preghiera
davanti al volto morto della sorella.
III
La bicicletta di mio padre è una benda
che non sa a cosa annodarsi
nell’alba della pensione.
L’ultimo tram incrocia
la scatola delle scarpe vecchie
nella quale i bachi da seta
masticano l’arazzo del tempo,
e mio padre,
come un centauro ippocratico
sulle sue gambe di acciaio,
attraversa i viali della città.
.
Vedo lampeggiare l’insegna che è di fronte a casa mia:
farmacia di guardia, pensione da poco,
stazione di fine corsa.
Tra i capelli bianchi di mio padre
le mie bende accarezzano il tempo,
il «camion della pioggia» raccoglie la bicicletta
e un vento leggero muove i lampioni della città.
.
Papà, senza bicicletta, si è affacciato al ponte:
sullo squallido fiume
navigano verso le mammelle del tempo
i pennelli del nonno morto;
.
un’ambulanza attraversa i campi di grano
mentre mamma rammenda le bende dell’età.
*****

Centro commerciale
.
Negozio degli indifesi
guarda com’eri e come sei.
.
Mi affaccio alla vetrina come se mi affacciassi all’infanzia di mia madre, e mi rimangono le dita ardite sulla vetrata, accecate di fronte a quella desolazione con cui si muovono le lancette quando non rimane altra merce da impegnare che le ore.
.
Negozio degli indifesi,
vengo a comprare un terrapieno.
.
Apro piano la porta. Spingo la porta con una mano cieca, con una mano che ancora non ha imparato a vedere, che non intende cadere. Ma spingo la porta e quando mi tolgo i guanti vedo sul banco le trecce di mia madre: sono lì, mutilate e brillanti come due catene d’orologio in cui dondolano le stagioni, due catene che incrociano i successivi binari che mi hanno portato fino a qui. Due catene da cui pende un tempo di stupore e cenere.
(Ed è ora che devo chiarire che io ho imparato a decifrare il mondo nelle trecce di mia madre, in questo nodo di storia che giace, dal 1942, sul bancone).
.
Negozio degli indifesi,
niente si ricorda come era.
.
Ed io, che non so come guardare, ho imparato a ricordare. E ora ricordo una voce che non ho sentito, una voce che spingeva alla frontiera: «Passate e guardate: vendiamo merci della miglior qualità e riserviamo ai nostri più fedeli clienti miracoli di tempo e solitudine».
.
E’ una verità così grande che ci sta dentro Parigi. E mentre prendo alcuni franchi dalla tasca vedo le trecce di mia madre che galleggiano sulla Senna e corro lungo il quai per non perdere la nave, per non perdere la memoria, per non perdere per sempre la nave che lei non poté prendere.
Le trecce di mia madre, che non hanno mai visto Parigi, le trecce senza nastri dalle quali adesso pendono i miei occhiali e la Torre Eiffel.
Metto dei franchi sul bancone e compro Parigi nel mezzo della sua desolazione.
.
Negozio degli indifesi,
si vive ciò che si ricorda e ciò che si vede.
.
Sono venuta a comprare delle trecce e un balcone. Sono venuta a comprare cenere per i miei occhi. Sono venuta a comprare la valigia in cui mio nonno custodì i suoi dipinti per sempre. Sono venuta a comprare la nave su cui si dovettero imbarcare per continuare a guardare il mondo e che ha finito per incagliarsi in questa casa. Questa casa dalla quale mi madre si affacciò su questa città con gli occhi feriti di stupore, feriti da quell’età più vecchia del tempo, da quell’età che soffrono le trecce quando le pettina la schiuma della morte. Sono venuta a comprare questo balcone e questo corridoio e questa stanza: questa casa trasparente, questa città senza parole; la mia infanzia affacciata a quelle trecce, la mia infanzia incagliata in questa strada senza navi, in questa lavagna sulla quale adesso disegno il quai. Sono venuta a comprare cenere per i miei occhi, cenere con cui imparare a vedere.
.
Negozio degli indifesi,
per guardare bisogna saper ardere.
.
Negozio degli indifesi,
vivere per vedere.
******

 

Giorno di pulizia

I
Spazzare, dormire, vivere,
che tutto è sintomo e anatomia,
che tutto è segno già caduco
di ciò che poteva essere.
.
L’uomo che indossa un abito verde
trascina nella sua spazzola
il nodo dei verbi:
camminare, vivere, gettare,
cadere, guardare, morire,
.
e ora tutto si unisce tra le sue mani,
e ora tutto si arrende davanti ai suoi piedi,
e ora tutto si riunisce in questa epifania
che va dalle coniugazioni alla spazzola,
dalla spazzola al secchio,
e dal secchio alla discarica del non capire.

II
Ma questa è l’epifania,
questo è il momento della redenzione,
questo è l’istante,
il costante giorno di pulizia
che attraversa in solitaria processione
le strade della città
in groppa alla spazzola in cui
«tutto è simbolo e analogia»,
in cui tutto è verbo fatto spazzatura,
in cui tutto arde in prospera comunione.

II
Spazzare, vivere, gettare,
guardare, spazzare, dormire…

Una spazzola attraversa le strade della città.
L’uomo che indossa un abito verde
dirige sui marciapiedi
un ballo di eucaristia e pianto
una danza ecumenica
in cui tutto è anatomia e traccia,
in cui tutto si coniuga nella epifania
di un’ effimera utilità.
Tutto danza tra le setole della spazzola,
tutto salta e vive e tace,
tutto dorme e guarda e gioca
e tutto si converte in questo festino di estrema unzione.

Camminare, vivere, arrivare
cadere, spazzare, dormire…

Qui, nella discarica del non capire,
tra i resti che vanno dalle coniugazioni al silenzio
e dal silenzio al pavimento
e dal pavimento al cielo del come morire,
tutto aspetta le parole che annunceranno il giorno della resurrezione.

Cadere, guardare, vivere,
gettare, spazzare, dormire…
Portico
Ieri e oggi sono già uno stesso giorno nel mio cuore.
A.Gamoneda
.
Sarà verso questa luce?, «vivere è veder ritornare», dunque il ritorno,
tornare per vivere,
ritornare con la pupilla di altri giorni allo sguardo di oggi,
.
come tornano le piante alle loro foglie, come torna la radice alla luce, come giunge il frutto al seme e alla sua intima volontà.
.
Tutti se ne sono andati e non resta che tornare.
.
Non è il ballo della memoria, non sono i passi del ricordo, non è l’ombra di ciò che non c’è più,
.
è la luce in cui solamente avviene il ritorno.
.
Ti vedo tornare, ti ascolto nella luce azzurra del pentagramma.
.
Sai che tutti se ne sono andati e la piccola mano è rimasta nella crepa del muro mentre riponeva la scatola delle ultime cose, la crisalide della libellula, la cicatrice di neve, la lettera che non hai spedito, la chiave di nebbia, la collezione di francobolli per le amanti del padre, il filo che conservava tua madre per il labirinto, le unghie dei gatti morti, il disco che suona sempre, matteo, matteo, perché non mi hai saputo aspettare, la fotografia della sedia dove ti siedi a guardare il mondo, una felce di cristallo, la spiga d’oro, e il becco del merlo e l’ombra invisibile dell’allodola (petali secchi per l’amore, nido di lievito): parole, soltanto parole,
.
un quaderno per ogni parola,
.
e la luce azzurra della memoria, «je reviens, je reviens»
.
e l’angelo che ti aspettava ogni mattina sull’autobus della scuola e che solo adesso puoi vedere.
.
Tutti se ne sono andati e non resta che tornare,
memoria e ombra della pelle, ritorno muto di luce ed erbaroma che attraversa l’infanzia e la sua cicatrice.
.
Rimane nella crepa del muro il piccolo feretro per la tua mano, le ultime cose in un caleidoscopio incessante che gira lentamente nella penombra dei giorni, fumo e ombra nel loro labirinto di specchi, piccoli insetti, quegli ultimi gesti di vita lì, frammenti di tracce, quaderni per la calligrafia del tempo.

******

Postscritto a testi per una poesia cancellata
.

Mamma ha sofferto la fame. Accade spesso dopo una guerra. Restavano le bucce di patata, quelle di arancia in primavera, il pane e ricotta, fiori di acacia, piccoli batuffoli dolci, opulenza dell’immaginazione. Ogni cosa sembra buona per riempire l’abisso della fame, con la fame tutto ha più sapore, soprattutto quel che non c’è.
.
La bisnonna, severa e seria, aggiungeva humour alla penuria -l’universo è un misterioso labirinto di compensazioni: un pezzo di pane di ieri, un ditale d’olio, la povertà, e ci metteva un po’ di paprica: «quel che non c’era, è fuggito».
.
In quel panino c’era dio; dio è invisibile, è colui che è, per questo non c’era maiale ma paprica.
.
I nomi di dio e le sfere che emanano dai suoi nomi: risiederà forse nelle vocali lo spirito delle parole e le consonanti porranno forse fine alla materia? Considerazione banale. Non dimenticare che devo applicarmi allo studio della cabala, lo devo alla sefardita che sono stata.
.
Ma, pur nella mia ignoranza, ho una vaga coscienza di tutto questo, anche se non so cosa voglio dire. Credo che abbia a che vedere con il pane, con la paprica e con le vocali. Anche con i segni, con le loro minute zampine: apostrofi, punti, virgole…, tratti tra le lettere per parlare di ciò che non si può nominare: qui sospendi, qui aspiri, qui ti soffermi un po’, qui alzi la voce a metà frase e interroghi, qui cambi verso. Dio ci assista.
.
Non esiste niente che sia accaduto che non resti sospeso tra gli atomi del lutto, minima vibrazione tra il vivo e il vissuto.
.
Le parole, abitano nel loro segno o nel suono della loro ombra? Chi sono io per risolvere questo enigma. Esisteranno le parole che non si pronunciano? Possediamo solo noi l’anfiteatro dell’eloquenza?
.
Un anfiteatro vuoto, non è forse una poesia? E come raccontare il piccolo volto di quello spazio senza riempirlo: e quanta dismisura, quanta esigenza, quanta ombra, quanta elisione, quanto commento, dialogo, citazione, scenografia, luci, e dove il vestiario nudo per sostenere il viso dell’imperatore, la pietra che cade sul fondo che lascia la sua traccia nei cerchi d’acqua, che lascia il vuoto nella mano che la lanciò.
.
L’amore è eterno finchè dura il compositore di sambe, ma la morte non interrompe niente, e questo sì lo ha scritto il poeta. Tra la durata impossibile e necessaria e la continuità di ciò che è vivo, forse le parole, l’ombra delle parole.
.
Il bisnonno aveva il petto grande come il deserto, mio padre ricorda la pianura di castiglia, ma io vedo uno sconfinato orizzonte di dune. E in quel deserto entravano tutte le speranze di quelli che sperano, e, colui che spera dispera.
.
Il bisnonno si affannava a lucidare ventri di orci come se lucidasse lo stomaco della balena che trangugiò giona. Necessaria speranza impossibile dei diseredati, consolare il dragone, lasciare le briciole sulla via -per gli antenati, per gli uccelli e per chi ne possa aver bisogno-, ripulire le prigioni segrete, convertire lo zolfo in miele; e infine, attraversare lo stomaco del deserto con un chicco d’uva, un ditale d’olio, una buccia di arancia a primavera e una bussola magnetizzata dall’inchiostro con cui si scrive una poesia cancellata.

 
———

POEMAS DE GUADALUPE GRANDE

.
Gatas pariendo

Así escuchas las cosas de tu vida como el maullido de un gato al fondo del jardín

Te despiertas de madrugada y oyes al fondo muy al fondo ese remoto maullido de gato recién nacido

Y un verano y otro y luego otro más hasta llegar a esta noche

Al fondo jardín al fondo

Así escuchas las cosas de tu vida así escuchas las cosas del mundo
a oscuras de noche palpando el susto de no entender o el de no querer hacerlo

y ese gato que no para de maullar y es una pequeña herida no sabes de qué no sabes de quién pero ahí está insistiendo clamando de hambre y noche al borde del peligro al borde del abismo al borde del jardín un coche un faro luego nada

y continuarán los maullidos más obcecados que tú y si no al tiempo al próximo verano hasta la próxima canícula sonido desvalido como una onomatopeya tan poco lírica que no la puedes escribir te dices

qué pensaría nadie y quien es nadie al leer esa onomatopeya tan líricamente escrita tan ridículamente sonora tan de viñeta de posguerra

pero suena suena cada noche

y tú para bordear la herida te dices que así empezó todo con una onomtopeya con un sonido tan inombrable como ahora el insistente maullido del gato recién nacido convocándote a dónde pidiéndote qué

O quizá algo peor tal vez nada te convoque y tan solo te despiertas en medio de la noche para ser el precario testigo que no puede traducir una onomatopeya Eso te dices para bordear la herida
Escuchas al gato Después has visto un hombre con el torso descubierto y sin brazos al borde de la calle has rozado la pierna perdida en el pantalón doblado sobre el muslo y has visto que la muerte es un ramo de rosas de plástico atado a un farol
y te has preguntado qué palabra no es una onomatopeya indescifrable para seguir la sombra

Un verano y otro al fondo de la vida al fondo del jardín al fondo del sonido

Y las gatas siguen pariendo sin parar y paren onomatopeyas que al fondo del jardín resuenan como las tablas de la ley

***** 

Meditaciones en la antesala

 

Liverpool no existe.

Eso sabe la mujer que se sienta tras los cristales del aeropuerto a ver pasar el río Mersey,

un río que se parece a la misericordia pero por el que no subirán los salmones: no llegarán al arrollo, no atravesarán el túnel del oso, no desovarán sobre la obcecada obediencia de las brújulas.

Porque Liverpool no existe en el río Mersey flota la cáscara de nuez en la que navega su diente de leche.

Flota la matrusca, embarazada de si misma, flota una y otra vez, hasta su última muñeca, mínimo relato de la infancia, infinito relato de la sublimación.

Flota el ala del albatros y sobrevuela la gaviota y la cera de Ícaro es ahora herrumbre en el limo.
Al otro lado del canal, en el río Mersey, flota el escarabajo de la vida en los dientes del gato de Chesire, es decir, una hoja sobre su sombra, una cerilla en el hueco de la llama, una pluma en el cascaron, y su vida en un papel sin botella.

Poco importa ya que Liverpool no exista.

 
Quién le puso un plato del leche al gato, quién supo ver el árbol en la sombra de la hoja y no prenderle fuego, y quién recogerá la tinta con la pluma del mirlo que alguna vez atravesó un jardín, quién para escribir dónde, para escribir qué.

Y flota el souvenir africano, esplendor de la piedra que hoy es ruina, piel desnuda en tránsito que aquí se convierte en luminoso vértigo del ropaje.

Pero eso lee ella hoy en el río Mersey, y se pregunta quién tuvo misericordia de los tobillos, quién de las pupilas de los ñus en las que habitaban las gacelas, los ríos que desbordan su cauce. Quien se puso en abrigo y atravesó la ciudad que no existe.

Eso mira hoy en el río Mersey. Al fin, todo lo que no existe es un mapa de la otra orilla.

Por eso, hoy, Liverpool no existe, al otro lado del agua. Al otro lado del cristal.

 *****

Postal III
(Vista aérea)

Es en los tejados,
lo que importa sucede en los tejados,
es decir,
bien poca cosa.

Pero tú te asomas a la ventana
y observas un horizonte de antenas,
seres aún más esbeltos
que la radiografía de nuestras almas.
¡Qué terribles son las antenas,
qué regias e inasibles,
siempre de perfil!

Erguidas contra el tiempo
ocultan bajo una fronda
de hojas perennemente caducas
su descorazonamiento vertical.

Aún así,
lo que importa sucede en los tejados.
Es decir,
bien poca cosa,
tan sólo
esta conversación de arquitectura y sombra
tan inerte como la radiografía de nuestras almas.

 *****

Bodegón
Las nueve y la cocina está en penumbra:
estoy sentada ante una mesa tan grande como el desierto,
ante unos alimentos que no sé cómo mirar,
y si les preguntara, ¿qué me contestarían?

Son naranjas de una cosecha a destiempo,
mandarinas sin imperio,
acelgas verde luto,
lechugas verde olvido,
apios sin cabeza,
verde nada,
verde luego,
verde enfín.

*****

(Bandejas de promisión
en el condado del desamparo.)

La tarde se dilata en la cocina
y aquí no llega el sonido del mar.
La soledad de las naranjas se multiplica:
no hay pregunta para tanta opulencia,
aquí, en la serenidad de esta banqueta de tres patas,
rodeada por una muralla de mandarinas huérfanas,
una legión de plátanos sin mácula,
un bosque de perejil más frondoso
que la selva tropical.

Alimentos mudos y sin perfume:
os miro y sólo veo una caravana de mercancías,
el sueño de los conductores,
una urgencia de frigoríficos
y un rastro de agua sucia atravesando la ciudad.
*****

Pañuelos de papel

Una luz encendida en cada casa,
aquí,
en el borde sin límite de la penumbra.

Con estos dos ojos solos
y esta lengua absurda,
este boca rota,
este hueco lleno de ceniza en la garganta
escucho el paso de un tren perdido
no sé porqué, no sé por quién.

¿…y quién te mira entonces, quién?
“Adiós y ten piedad”.

Pero esta es la luz de los días,
esta es la sombra azul de la memoria
que ilumina a la hora punta
las conjugaciones de la lluvia sobra los mapas,
sobre los planos,
sobre la cartografía subterránea
y su extraña germinación.

Andenes, calles, vías,
acera, bulevares, subterráneos,
puentes, plazas, avenidas:
¿estamos
de verdad
dentro?,
“¿estamos
de verdad
fuera”.

A la hora punta de no saber,
un pañuelo de papel seca
la hebra de distancia
que resbala por las mejillas:
suenan los platos,
se afanan los utensilios en las cocinas,
se escucha la conversación del día,
el rumor de la luz que se apaga,
el ruido de la luz que se enciende,

y todo se dispone a partir o llegar
una vez más.

***** 

Farmacia de guardia

I
La bicicleta de mi padre
dobla por la esquina de la ciudad.
Ya no son los trigales, ya no
las cabras, no los chotos ni la rumia,
todos no reunidos ya sólo en la memoria.

Dobla por la esquina de la avenida
y sigue su camino entre los pocos coches.
Remedios, ungüentos, vendas
anudan la conversación que duda y tiembla
entre los radios de este oxidado reloj.

Padre corre, padre pedalea de prisa
y cree que debido a su poco peso
y a la velocidad
las distancias se rinden a sus pasos:
la distancia de la vida,
la distancia del deseo,
la distancia blanca de la muerte.
Corre y teme padre por las calles de la ciudad.
II
¿Y si la avenida fuera aún más grande,
tan grande que en ella cupiera el mundo entero?
¿Y si pudiera peladear tan de prisa,
sudar hasta la última gota de historia
sobre la carcasa del animal
para rozar allí, al otro lado de la calle,
el rostro frío de la felicidad?

Pero qué hacer entonces con las vendas,
qué con los ungüentos, qué
con los precarios aperos de esta alquimia de posguerra
que viajan entre los radios de las ruedas
por las farmacias de la ciudad.
Ya no botica, ya no colmado,
ya no jaculatoria y rezo
ante el rostro muerto de la hermana.

III
La bicicleta de mi padre es una venda
que no sabe a qué anudarse
en la madrugada de la pensión.
El último tranvía cruza
la caja de los zapatos viejos
en la que los gusanos de seda
mastican el tapiz del tiempo,
y mi padre,
como un centauro hipocrático
sobre sus patas de acero,
cruza las avenidas de la ciudad.

Veo parpadear el luminoso que está frente a mi casa:
farmacia de guardia, pensión de tercera,
estación terminal.
Entre las canas de mi padre
mis vendas acarician el tiempo,
el “camión de la lluvia” recoge la bicicleta
y un viento suave mueve las farolas de la ciudad.

Padre, sin bicicleta, se ha asomado al puente:
por el escuálido río
navegan hacia las ubres del tiempo
los pinceles del abuelo muerto;

una ambulancia cruza por los trigales
mientras madre remienda las vendas de la edad.

*****

Centro comercial

Tienda de los desamparados
quién te ha visto y quién te ve.

Me asomo al escaparate como si me asomara a la infancia de mi madre, y se me quedan los dedos ardidos en la vidriera, cegados frente a esa desolación con que se mueven las saetas cuando no queda otra mercancía que empeñar más que las horas.

Tienda de los desamparados,
vengo a comprar un terraplén.

Abro la puerta despacio. Empujo la puerta con una mano ciega, con una mano que aún no ha aprendido a ver, que no se quiere caer. Pero empujo la puerta y cuando me quito los guantes veo en el mostrador las trenzas de mi madre: ahí están, mutiladas y brillantes como dos leontinas en las que se mecen las estaciones, dos leontinas que entrelazan los sucesivos andenes que me han traído hasta aquí. Dos leontinas de las que cuelga un tiempo de estupor y ceniza.
(Y ahora es cuando debo aclarar que yo he aprendido a deletrear el mundo en las trenzas de mi madre, en este nudo de historia que yace, desde 1942, en el mostrador).

Tienda de los desamparados,
nada se recuerda como fue.

Y yo, que no sé cómo mirar, he aprendido a recordar. Y ahora recuerdo una voz que no he oído, una voz que empujaba a la frontera: “Pasen y vean: comerciamos con mercancía de la mejor calidad y guardamos para nuestros más fieles clientes milagros de tiempo y soledad”.

Es una verdad tan grande que en ella cabe París. Y mientras saco algunos francos del bolsillo veo las trenzas de mi madre flotando sobre el Sena y corro a lo largo del quai para no perder el barco, para no perder la memoria, para no perder para siempre el barco que ella no pudo tomar.
Las trenzas de mi madre, que nunca vieron París, las trenzas sin lazos de las que ahora cuelgan mis gafas y la Torre Eifel.
Pongo unos francos sobre el mostrador y compro París en medio de su desolación.

Tienda de los desamparados,
se vive lo que se recuerda y lo que se ve.

He venido a comprar unas trenzas y un balcón. He venido a comprar ceniza para mis ojos. He venido a comprar la maleta en la que mi abuelo guardó sus pinturas para siempre. He venido a comprar el barco en que debieron embarcar para continuar mirando el mundo y que terminó encallado en esta casa. Esta casa en la que mi madre se asomó a esta ciudad con los ojos heridos de estupor, heridos de esa edad más vieja que el tiempo, esa edad que sufren las trenzas cuando las peina la espuma de la muerte. He venido a comprar este balcón y este pasillo y esta habitación: esta casa sin azogue, esta ciudad sin palabras; mi infancia asomada a aquellas trenzas, mi infancia encallada en esta calle sin barcos, en esta pizarra en la que ahora dibujo el quai. He venido a comprar ceniza para mis ojos, ceniza con la que aprender a ver.

Tienda de los desamparados,
para mirar hay que saber arder.

Tienda de los desamparados,
vivir para ver.

*****

Día de limpieza

I
Barrer, dormir, vivir,
que todo es síntoma y anatomía,
que todo es signo ya caduco
de lo que pudo ser.

El hombre que lleva un traje verde
arrastra en su cepillo
el nudo de los verbos:
andar, vivir, tirar,
caer, mirar, morir,

y ahora todo se junta entre sus manos,
y ahora todo queda rendido ante sus pies,
y ahora todo se reúne en esta epifanía
que va de las conjugaciones al cepillo,
del cepillo al cubo,
y del cubo al vertedero de no entender.

II
Pero esta es la epifanía,
este es el momento de la redención,
este es el instante,
el constante día de limpieza
que atraviesa en solitaria procesión
las calles de la ciudad
a lomos del cepillo en el que
“todo es símbolo y analogía”,
en el que todo es verbo hecho basura,
en el que todo arde en próspera comunión.
III
Barrer, vivir, tirar,
mirar, barrer, dormir…

Un cepillo cruza las calles de la ciudad.
El hombre que lleva un tarje verde
dirige por las aceras
un baile de eucaristía y llanto
una danza ecuménica
en la que todo es anatomía y rastro,
en la que todo se conjuga en la epifanía
de su efímera utilidad.
Todo danza entre los dientes del cepillo,
todo salta y vive y calla,
todo duerme y mira y juega
y todo se convierte en este festín de la extremaunción.

Andar, vivir, llegar
caer, barrer, dormir…

Aquí, en el vertedero de no entender,
entre los restos que vienen de las conjugaciones al silencio
y del silencio al suelo
y del suelo al cielo de cómo morir,
todo espera las palabras que anuncien el día de la resurrección.

Caer, mirar, vivir,
tirar, barrer, dormir…

***** 
Pórtico
Ayer y hoy son ya un mismo día en mi corazón.
A. Gamoneda
¿Será hacia esta luz?, “vivir es ver volver”, entonces el regreso,
regresar para vivir,
retornar con la pupila de otros días a la mirada de hoy,

como regresan las plantas a sus hojas, como retorna la raíz a la luz, como llega el fruto a la semilla y a su íntima voluntad.
Todos se han ido y sólo queda regresar.

No es el baile de la memoria, no son los pasos del recuerdo, no es la sombra de lo que ya no está,

es la luz en la que sólo acontece el regreso.

Te veo volver, te escucho en la luz azul del pentagrama.

Sabes que todos se han ido y la mano pequeña se quedó en la grieta del muro cuando guardaba la caja de las últimas cosas, la crisálida de la libélula, la cicatriz de nieve, la carta que no enviaste, la llave de niebla, la colección de sellos para las amantes del padre, el hilo que guardaba tu madre para el laberinto, las uñas de los gatos muertos, el disco que siempre suena, mateo, mateo, por qué no me supiste esperar, la fotografía de la silla donde te sientas a mirar el mundo, un helecho de cristal, la espiga de oro, y el pico del mirlo y la sombra invisible de la alondra (pétalos secos para el amor, nido de levadura): palabras, tan solo palabras,

un cuaderno para cada palabra,

y la luz azul de la memoria, “je reviens, je reviens”

y el ángel que te esperaba cada mañana en el autobús del colegio y que sólo ahora puedes ver.

Todos se han ido y sólo queda regresar,
memoria y sombra de la piel, regreso mudo de luz y hierbaroma que atraviesa la infancia y su cicatriz.

Queda en la grieta del muro el pequeño ataúd para tu mano, las últimas cosas en un calidoscopio incesante que gira despacio en la penumbra de los días, humo y sombra en su laberinto de espejos, pequeños insectos, últimos gestos de la vida allí, fragmentos de rastros, cuadernos para la caligrafía del tiempo.

 

*****

Postscriptum a textos para un poema borrado 

Madre padeció hambre. Suele suceder después de una guerra. Quedaban las mondas de patata, las de naranja en primavera, el pan y quesillo, flores de acacia, pequeños copos dulces, opulencia de la imaginación. Cualquier cosa parece buena para llenar el abismo del hambre, con hambre todo sabe mejor, sobre todo lo que no hay.

La bisabuela, severa y seria, añadía humor a la carencia -el universo es un misterioso laberinto de compensaciones: un trozo de pan de ayer, un dedal de aceite, la pobreza, y ponía un poco de pimentón: “lo que no hubo, ha huido”.

En ese bocadillo estaba dios; dios es invisible, es el que es, por eso no había cerdo sino pimentón.

Los nombres de dios y las esferas que emanan de sus nombres: ¿residirá el espíritu de las palabras en las vocales y darán las consonantes cuenta de la materia? Comentario trivial. No olvidar que he de aplicarme al estudio de la cábala, se lo debo a la sefardita que fui.

Pero, aun en mi ignorancia, tengo una vaga conciencia de todo esto, aunque no sepa qué quiero decir. Creo que tiene que ver con el pan, con el pimentón y con las vocales. También con los signos, con sus diminutas patitas: apóstrofes, puntos, comas…, rasgos entre las letras para hablar de lo que no se puede nombrar: aquí paras, aquí aspiras, aquí te detienes un poco, aquí alzas la voz a media frase e interrogas, aquí cambias de verso. Dios nos asista.

No existe nada que haya sucedido que no quede suspendido en los átomos del duelo, mínima vibración entre lo vivo y lo vivido.

Las palabras, ¿habitan en su signo o en el sonido de su sombra? Quién soy para solventar este acertijo. ¿Existirán las palabras que no se pronuncian? ¿Sólo nosotros poseemos el anfiteatro de la elocuencia?

Un anfiteatro vacío, ¿no es un poema? Y cómo narrar el pequeño rostro de ese espacio sin llenarlo: qué desmesura, qué exigencia, qué sombra, qué elisión, qué referencia, dialogo, acotación, escenografía, luces, dónde el vestuario desnudo para mantener el rostro del emperador, la piedra que cae al fondo que deja su huella en los círculos del agua, que deja su hueco en la mano que la lanzó.

El amor es eterno mientras dura el compositor de sambas, pero la muerte no interrumpe nada, y eso sí lo escribió el poeta. Entre la duración imposible y necesaria y la continuidad de lo vivo, tal vez las palabras, la sombra de las palabras.

El bisabuelo tenía el pecho tan grande como el desierto, mi padre recuerda la llanura de castilla, pero yo veo un inabarcable horizonte de dunas. Y en ese desierto cabían todas las esperanzas de los que esperan, y, el que espera desespera.

El bisabuelo se afanaba en abrillantar vientres de tinajas como si le abrillantara el estómago a la ballena que se tragó a jonás. Necesaria esperanza imposible de los desheredados, consolar al dragón, dejar las migas en el camino -para los antepasados, para los pájaros y para quien las pueda necesitar-, adecentar las mazmorras, convertir el azufre en miel; al fin, atravesar el estómago del desierto con una semilla de uva, un dedal de aceite, una monda de naranja en primavera y la brújula imantada por la tinta invisible con que se escribe un poema borrado.

1 pensiero su “Poesie di Guadalupe Grande

  1. Di questa poesia piace soprattutto la disinvolta tensione fra la pacatezza del racconto e la rarefazione lirica, che costituiscono i due poli entro cui si muove continuamente il pensiero di Guadalupe Grande, affidato ai versi.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *