Gellert Tamas, L’uomo laser, C’era una volta la Svezia
di Nadia Agustoni
Un paese, la Svezia, considerato un modello di tolleranza, ma dove i movimenti e i partiti di estrema destra (apertamente nazisti in alcuni casi) hanno molto seguito. A partire dagli anni 90 hanno ispirato le azioni di cupi personaggi, come il serial killer John Ausonius, che nel 1991/1992, armato di un fucile a raggio laser, colpì una decina di immigrati con lo scopo deliberato di uccidere e terrorizzare chi, arrivando da paesi non occidentali, aspirasse a una nuova vita proprio in Svezia.
Gellert Tamas è uno scrittore e giornalista svedese di origine ungherese, e con “L’uomo laser”, edizioni Iperborea 2012, ha scritto un libro inchiesta durissimo, dettagliato e pensato come un’indagine a tutto campo sulla società svedese. Tamas ha parlato con poliziotti e politici, con la gente della strada, con sindacalisti, con la regina e con psicologi; infine ha parlato con lo stesso serial killer, John Ausonius, incontrato più volte in carcere, dove ribadirà all’interlocutore le proprie convinzioni.
Il risultato sono quasi cinquecento pagine scritte come un romanzo e un reportage insieme, ma che costringono a pensare a cosa è una società evoluta e complessa e a cosa sia l’insorgere in questa del razzismo; ricordo che a Firenze abbiamo avuto la stessa tragedia, già rimossa dalla coscienza collettiva dei più, a dimostrazione di come quasi sempre, a ogni latitudine, identifichiamo il razzismo come tale solo nella forma violenta, mentre rifuggiamo dai sintomi, nascondendo con le parole le discriminazioni.
Il razzismo è un rapporto sociale, ci ha detto l’antropologa Paola Tabet e come tale prima ancora che ideologia è stato, concretamente, colonialismo e schiavitù, L’ideologia legittimava e legittima lo sfruttamento creando luoghi comuni e facendo sì che cresca nell’immaginazione la distorsione dell’umanità degli altri. Ogni volta che categorie e luoghi comuni vengono in essere quello che avviene è una riduzione e semplificazione di vite che qualcuno non vuole o non può significare come pienamente umane.
Il razzismo, in quanto sistema di pensiero, dispone della vita degli altri in modo consumistico; “gli altri” sono intercambiabili, tutti uguali, delinquenti, sospetti, perché “non sono come noi”, sono coloro che diventano “informazione”, “caso”, “svista”, quelli a cui, anche in modo non palese, si chiede in continuazione di dimostrarci che sono nostri simili, pur non accettando che siano davvero come noi nella loro singolarità, nel loro fare scelte e costruire pensiero. Tutt’al più viene loro riconosciuto un “tradizionalismo” che è un modo per relegarli a “insieme” e tornare quindi a un loro e a un noi definitivi.
Discriminare è anche chiedere agli immigrati di essere “autentici”, ovvero di aderire all’idea che si ha di lui/lei come “altro”. In ogni caso il potere di definire qualcuno/a è costruire quella persona secondo la propria immaginazione.
“L’uomo laser” ci mostra che il “noi” è estremamente fragile. John Ausonius prima di essere un serial killer era un aspirante; lui, figlio di immigrati degli anni 50, aspirava ad essere completamente svedese, ma né i capelli tinti né le lenti a contatto azzurre sono bastate a dargli quello che cercava; in tal senso gli spari contro gli immigrati potrebbero essere stati, secondo alcuni psichiatri, una sorta di suicidio. Se ispira contrarietà pensare che qualcuno voglia ad ogni costo essere identificato coi dominanti dobbiamo capire che l’estetica è parte integrante di ogni suprematismo. Le ideologie su sesso e razza sono rimaste un sistema, nemmeno scalfito dagli slogan “nero è bello” e “donna è bello”. Così come nessuno ha creduto che “grasso è bello”. Anoressia, prodotti schiarenti della pelle e, per le ragazze, in alcuni casi e particolarmente in realtà pesanti, cambiamenti di sesso per disagio sociale sono lì a testimoniarlo.
Gellert Tamas rileva, nel suo libro inchiesta, che alcune delle vittime dell’uomo laser hanno rifiutato il ruolo che i mass media destinavano loro in quanto immigrati, cercando con intelligenza di dare un’immagine di sé più aderente al proprio vissuto. L’uscita da una categoria è però pericolosa per un sistema, che soprattutto nei gangli vitali dell’informazione, ha un forte interesse a mantenere luoghi comuni e stereotipi. Vietato pensare, perché pensare la complessità non aiuta il pensiero informe e chi sa servirsene per mantenere saldi i confini che rafforzano certe identità e un’immaginazione che non permette di vedere nell’altro/a un singolo, ma qualcosa che fa “zoo”.
Vivere la discriminazione ogni giorno può portare a capire cosa sia il meccanismo della discriminazione, ma può anche voler dire sentirsi sminuito, oltraggiato fino al punto che si colpisce per non sentire la propria ferita. Se l’assurdo potesse essere una lezione, ogni società umana trarrebbe dai suoi “paria” ispirazione e guarigione.
Mi ripropongo di leggere il libro-inchiesta di Gellert Tamas, che l’introduzione di Nadia Agustoni ha saputo presentare in maniera illuminante, scoprendone il minuzioso lavoro di documentazione e le questioni aperte, interrogativo costante al lettore-attore sociale. Ci sono passaggi, in questa nota introduttiva, che meritano ciascuno ampia condivisione e discussione: la definizione di razzismo come rapporto sociale, di sistema di pensiero che dispone degli altri in modo consumistico, l’intricato rapportarsi di vivere quotidianamente la discriminazione e com-prendere la discriminazione. Individuo il punto centrale, sul quale concordo, da tempo, pienamente, nell’affermazione che parola d’ordine dei manovratori di questi tempi sia “proibito pensare la complessità”. Con slancio moltiplicato raccolgo allora l’invito, che vedo qui formulato da Nadia Agustoni nelle sue note al volume di Gellert Tamas, a pensare la complessità, a rifiutarsi di ignorarla, di banalizzarla, di bandirla.
Non ricordavo questo vecchio episodio, o forse non ne ero mai venuto a conoscenza; ma già vent’anni fa le persone più accorte e oneste erano pefettamente a giorno del problema in questione e dei suoi pericoli. Il fatto è che gli uomini, politici in testa, fintanto che possono ficcano il capo sotto la sabbia, spesso col risultato di lasciarcelo lì sotto per sempre. Realizzando così in modo perfetto l’imperativo “vietato pensare”.
Grazie per la preziosa vigilanza, un caro saluto,
Roberto
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