Nello scaffale, Giacomo Leronni
a cura di Luigia Sorrentino
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E’ uscito “Le dimore dello spirito assente” di Giacomo Leronni, Puntoeacapo Editrice, 2012.
Qui di seguito l’introduzione al libro di Massimo Morasso.
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L’IMPAVIDA POESIA DEI MINIMI SPAZI
Occorre fare attenzione, oggi più che mai. I poeti che “raccontano la realtà” sono di moda. Nel frattempo, la critica militante si sbriciola e delegittima in un pulviscolare auto da fé fatto di sviolinate fra sodali e silenzi incrociati fra combriccola e combriccola, fra rivista e rivista, fra la redazione x e il dipartimento y, e il faticoso percorso del riconoscimento del valore passa ogni giorno di più per vie di negoziazione socio-culturale, quando non di vera e propria melliflua piaggeria; il piccolo gotha dei decision makers cui è possibile accedere tramite relazioni personali, intrallazzi e giochi di micro- o anche non-micro potere editoriale permette a qualcuno di essere esaltato e veicolato a scapito del vero ed ecco un circolo vizioso, da cui non si verrà fuori che a colpi di intelligenza.
Sì, attenzione, esistono poesie e raccolte di poesia che non possono essere familiari, oggi, come quelle – ce ne sono a bizzeffe, sparse qua e là simili a gramigne perfino nelle collane degli editori cosiddetti “maggiori” – che puntano a comunicare qualcosa, un’esperienza di viaggio, un amore andato a male o una catastrofe quotidiana in corso d’opera; ripeto: attenzione! Queste poesie nietzscheanamente inattuali, scritte in Italia, all’inizio del ventunesimo secolo dell’era cristiana, se sono scritte da qualcuno del livello di Giacomo Leronni, sono foriere di un vento nuovo, come l’araldo di un regno d’oltremare che mostri le sue insegne, come un angelo che abbia raccolto le macerie della storia nell’ombra delle proprie ali per poi scagliarle e ricomporle in un ordine a venire.
So che un signor Fine Letterato mi potrebbe dire: «Ah!, sì, il gusto della metafora ermetica, la raffinata calibratura analogica dei testi di Leronni… sì, sì, ma poeti e critici importanti hanno riconosciuto tutto questo e vi hanno speso sopra parole d’elogio, individuando percorsi di affinità o perlomeno di relazione con esperienze contemporanee che contraddicono del tutto il tuo pensiero. Dunque Leronni è un poeta al passo con i tempi. È soltanto che ha scelto metodi di sobria, sprezzante retroguardia per ritradurli in poesia». E so che queste, in un senso superficiale, non sarebbero sciocchezze. Perché è ben vero, per fortuna, ma in un altro senso, più profondo, che Leronni è un poeta al passo con i tempi. Per buttar giù due nomi d’oggi, oltre a un ossificato Bigongiari, mi ricorda per esempio certo Cagnone e certo Cappi, l’ultimo, il più “originario”, per qualità analitica e respiro metafisico. Ma Leronni è al passo con i tempi, ci tengo a specificarlo, come lo è o dovrebbe esserlo ogni poeta in grado di fare i suoi conti con il tempo del segreto che attraversa sottotraccia l’accadere, restituendone i geroglifici al vaglio delle potenze dell’anima.
Questo prezioso neonato Le dimore dello spirito assente lo testimonia in modo inequivocabile. In un modo tutto suo, per ritmo e per tono e anche per altro, che definirei lucidamente impavido, e, a tratti, mi perdonerà=mi capirà, spero, il suo autore, spiritualmente sornione («fingendo il riposo / il pensiero guadagna il tetto / dell’atrocità.», qui a p. 25). Un modo nel quale la carica eversiva della migliore poesia visionaria del Novecento italiano e non solo, appare come sospesa e trattenuta in un limbo infra-linguistico che sta a noi lettori, leggendo, di riconoscere e far emergere in pienezza alla luce del senno – di quel senno «che inciampa nelle prove» a scapito, si badi, della voce «che implode nel suo altrove» (p.31). Con tutta probabilità, il signor Fine Letterato di cui sopra giudicherebbe pericolosamente sapienziale l’atteggiamento di un poeta dal cuore aperto al mistero dell’essere che prendendo lezioni dall’oscurità si dicesse, come Leronni, «isolato, premuto / contro lo spazio» (p. 41), «… oltre il gomitolo delle stelle / invocato per portare il buio» (p. 46) in un tempo senza gloria «che rende illeggibile / l’impronta della guarigione » (p. 153). Ma il fatto è, con buona pace di tutti i lettorucci schiacciati nel poco del già-conosciuto, che il dono della veggenza resta un miraggio per chi non riesce a mettersi in sintonia con quegli spazi interiori (i “minimi spazi” di cui parla la poesia di p. 54) nella legge dei quali «le strade vibrano / dolci come nomi » (p. 53). Leronni lo fa, per tutti e per nessuno, con sobrietà partecipe e appassionata, sapendo benissimo che «non c’è quiete / per chi osserva» (p. 115) e che «lo sguardo che vigila sul caso / dispone l’ignoto in bella forma // insiste, illude» (p. 129). Nessuna voluttà di obscurisme, in tanta appartatezza stilistica e morale. E nessuna necessità, per il poeta, di negoziazione del valore. Quando è l’evidenza dell’autenticità di una voce, com’è nel caso di Leronni, ad attestarne di per sé l’autorevolezza, prima e al di là dei ritorni in termini di notorietà. E quando è il senso preciso, che corrisponde a un’opportunità e a un’offerta, del compito di un lavoro di scavo che penetri oltre quella medietà di lingua e facoltà percettive che sono abitate dai cantori dell’oggi, presi dal loro multiforme ombelico, o al più, quando va bene, à la Jovanotti, da quello spesso fin troppo chiacchiereccio del mondo.
(Massimo Morasso)
*
Quando il fuoco
ha assolto il suo compito
la mente ne svolge l’incisione.
Tizzoni ricadono come rami
di salice
incombono su pianure di carne.
Quando il fuoco
dispone il suo mistero
il falco che si leva in volo
è il nostro corpo
ulcerato, trapassato
nell’involto delle nubi.
*
Ecco, tutto questo
non deve perdersi
munto com’è stato
il suo latte dal fuoco
linfa da punteruolo
carne d’angelo
per cui brigano le piazze
gli occhi si velano d’estate
regge la volta
macchia l’attesa
luminosi i passi del bimbo
che in te
accompagnano alla spoliazione.
*
Dispongo le tempere del giorno
poi le ripongo
il meccanismo s’inceppa
ma io insisto
faccio forza, prevalgo
sorge l’alba
senza che alcuno sappia
spingendo, tendendo i muscoli
altre ore di falsità sono pronte.
*
Sospendere il giudizio
la pietà
conformarsi a ciò che regge
la vertigine come scudo
lo sguardo più della parola.
La mano esitante
che aderisce al buio
un giardino intorno
come arsura possibile:
l’incredibile
a rilento
la perplessità incedibile
più che lo spavento.
*
Opera incidendo, accade
essere frusto che si aggruma
sasso che sollecita la marea
a volte il suo specchio
rigetta il grido
a volte lo assorbe
lo descrivi ma non è così
occulto e colmo di stelle
potrebbe essere un seme
una spilla
è schivo, non comprende
perché vuoi dargli un nome.
*
Invertire l’asse
è un’intenzione
dettare la frana puntiglio
lodare la sete
avventatezza
che può annientare.
Intanto aghi cercano
la pattuglia del nome
quella del solido essere
che esilia la nebbia.
Toccare la pietra
vale il fuoco
il tizzone dell’annuncio
esalta la voce
la luce mirabile
è quella che spegne.
*
Ecco la sera
è questo il suo nome
un acero il seno, derma viscoso
ecco parla
ed io registro
arrivo da voi, piccole mosche
che trattenete il fiato
arrivo licheni, più gagliarda
dal precedente abbraccio
non posso fermarmi
scivolo per chine taglienti
resisto
per accompagnare
tutto questo legno di ore
ad ardere.
Sine die
Mente, che si scompone
in altra mente
resina incisa dalla luce
o piega di creatura assorta
nella notte indulgente
mente china sul segreto
in ascolto
per agganciare il mistero
e formularne il nome
l’essere
in spirito e assenza
e intorno menzogne
esitazioni
esecuzioni.
*
Per te cerco l’orzo
la sua clemenza
e ti reggo ancora
al limitare della meraviglia
ma le mie parole
storpie, corrucciate
nonostante il silenzio
la pace tutt’intorno
senza il tuo morso
non ti diranno mai
*
Vaneggiamento
nel suo omaggio pomeridiano
sproloquio
oltre l’esitazione
percosso il fiato
umiliata la voce:
dico di quella vista che talvolta
s’addensa e fa chinare
il calice al fiore
talaltra
col suo nitore uccide
*
Giungo al respiro
alla mandorla in fiamme
nella palude
si smorzano gli occhi
ancora qualche veto
con i denti giusti
un passeggero tenue
che odora d’intonaco
il contratto con la polvere
ma tu
che ne hai cavato vento
al mio grazie stringi forte
non passare
*
Quale missione
cavare figli al noce
quale candore
incoronare le fragole
la voce
concentrata sul fumo
graffiando, rischiando
i poggi della memoria
quale sibilo
sulla parete della viltà
la più aspra, la più tagliente
da scalare
*
Quelli che approfittano
della loro essenza
per consegnare
un orecchio più docile
al silenzio
quelli che formano
la diga muta della polvere
ancora più lucidi
del loro tormento fiorito
bevono l’argento
spacciano
la loro anonima costanza
avanzano
con la testa piena di neve
*
L’avventura della talpa
ricomincia
manca poco tempo
scava a fondo la sua tana
il cielo è grigio o forse luminoso
d’altronde non ha nulla
da guardare
niente da dichiarare, avanza
verso il suo sole di terra
gli uomini la temono
quando abbraccia radici
sospettano
che morendo di continuo
in qualche modo sopravvivrà
*
Andiamo verso l’eterno
tutti insieme spero
era il tuo nome che ripetevo
nell’ombra, nella nebbia
ma questo percorso
non sembra condurre
in alcun luogo
se lo guardiamo con attenzione
andiamo verso la semplicità
estrema
di ciò che è complesso
il nome violato non garantisce
più nulla
allora
ridivento mia madre
nella lingua dei puri
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Giacomo Leronni (Gioia del Colle, 1963) è insegnante di lingua francese nella scuola secondaria.
Ha pubblicato molti suoi testi su alcune riviste del settore. Ha vinto fra gli altri, per l’inedito, il Premio Nazionale di poesia “LericiPea” (1998) e il Premio Nazionale Castelfiorentino (2009).
Nel 1999 ha partecipato, per la poesia, al convegno/laboratorio “RicercarE” di Reggio Emilia.
Prima del libro “Le dimore dello spirito assente” (puntoacapo 2012) ha pubblicato “Polvere del bene” (Manni 2008; Premio “A. Contini Bonacossi” 2009 per l’opera prima).
A parte l’espressività della sua pronuncia , Leronni pone il proprio “io” ad esperire esperienza del mondo e a descriverla , facendo meritoriamente propria quel “vita fedele alla vita” che spesso vediamo latitare nei poeti della sua generazione .
Solidarietà a Morasso e all’onestà intellettuale del suo intervento .
leopoldo attolico –