Nello scaffale Cesare Viviani
a cura di Luigia Sorrentino
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di Loretto Rafanelli
Ci sono libri di poesia che sanno rispondere alle tante domande che l’uomo da sempre si pone: Infinita fine di Cesare Viviani (Einaudi Editore, p.168, euro 12,50) ha questo raro dono. I suoi versi permettono di allargare lo sguardo sul versante della interrogazione, divenendo preziosa, ulteriore e necessaria prova di disponibilità e di resistenza al senso di disagio e di dolore, sia individuale che storico, del nostro tempo. Sicuramente una poesia la sua che, come poche altre nell’ultimo Novecento (giustamente, per questa sensibilità, e per alcuni tratti della sua scrittura, accostato a Luzi), sa farsi pensiero, seppure pensiero che intende non rappresentare o costruire un “sistema” alternativo, piuttosto conoscere, osservare con intelligenza, saper mettere in atto la propria responsabilità. I libri di Viviani hanno una straordinaria tensione etica, ma sono privi di quella perentorietà propria dei moralisti, egli semplicemente racconta ciò che non si riesce a evincere, perché siamo impantanati in una cecità perversa. Egli ci avverte che “nessuna cosa è più silenziosa della vita”. E il rumore del mondo deve essere tramutato in attenzione alla natura, allo scorrere del tempo, ai rapporti tra le persone, al sacro. Crediamo che molto possa spiegare del suo modo di pensare e di scrivere, l’adesione alla psicanalisi. Egli infatti procede attraverso l’ascolto e l’accoglienza di una parola altra, anziché porsi come costrutture di certezze e di ideologie. Nei suoi scritti emerge la convinzione che non sono le prove di forza che cementano il percorso, bensì “l’ardore del silenzio/ dell’incertezza, del timore…”. Perché “ci vuole paura per vivere, e non il coraggio/ che porta fuori strada/ e fa desiderare altri mondi”. Questo significa profondo, totale, rispetto per tutto quello che scorre attorno a noi, seppure vi sia anche sgomento per la grandezza di ciò che ci circonda. La nostra, si può dire, deve essere soprattutto la ricerca di una identità: “a chiederci chi siamo, l’identità,/ eravamo/ quell’esitazione, quel tremore,/ e nient’altro che quello”. Fragilità, debolezza. Sono insite nell’uomo ma pure possono essere fonti di salvezza, in quanto ci fanno capire i limiti che ci caratterizzano. E avverte che c’è qualcosa che si può dire solo se ci si pone sul lato della comprensione e della carità: “Finché l’altro è presente/ non sappiamo cosa siamo./ Cominciamo a saperlo/ quando l’altro scompare”. È il richiamo a valutare la nostra inadeguatezza ad affrontare i semplici passaggi della vita; a porci di fronte alle domande fondanti. Sul tema della fine, a partire dal bel titolo, Infinita fine, che pare già più che una indicazione, un pensiero; è infinita fine perché siamo “inseguiti dai mesi/ che ci spingono, quelli aggressivi,/ e poi tutti ci superano velocemente,/ volano”, una vorticosa realtà che incombe e ci annienta (siamo “…ogni giorno/ alla progressiva diminuzione/ di forze”) e che non si può fermare, perché siamo solo parti che in fretta deperiscono. Neppure la bellezza rimane, e comunque, per quanto necessaria, non potrebbe bastare. Il degrado è parte di noi, eppure esiste un’armonia che sottintende tutto, che ci sovrasta, ma che pure ci sostiene e a cui è indispensabile tendere. Dice Viviani in un decisivo slancio vitale: “il sentimento, la natura e Dio/ sono le tre verità a cui appigliarsi”. Dobbiamo allora non temere la fine, in quanto “le divinità ci accompagnano generose/ dalla mattina alla sera,/ parlano con noi, consigliano,/ e rendono sopportabile il silenzio,/ l’abbandono, la fine”. Dobbiamo pensare alla sacralità della vita e proteggere il mondo in cui viviamo, affinché non sia propria una finita fine.