Progetto editoriale ideato e curato da Fabrizio Fantoni
con la collaborazione di Luigia Sorrentino
«La fine dell’amore dopo l’amore». Su Dario Bellezza
di Roberto Deidier
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Ogni ossessione genera contrasti, più o meno feroci o invasivi: si viene sempre a creare una pericolosa terra di nessuno tra il dominio del principio di realtà e le spinte centrifughe di un principio opposto. Qualche volta riusciamo a identificare questo secondo principio in un piacere costantemente inseguito (e guai se si dovesse realizzare…) o in una pulsione indefinibile, che comunque devia la nostra percezione del mondo e fa del nostro vivere una dimensione intimamente ambigua. Nei versi di Dario Bellezza questa tensione è palpabile: la si avverte già nella cantilena del ritmo, nei componimenti più ampi, e in un nervosismo finanche arcaico della sintassi che informa di sé tutta la poesia di quest’autore. Il campo che si disegna è delimitato non solo dalla realtà, da un lato, e dall’altro dalla finzione – ciò che semplificherebbe sia il ruolo del lettore e il compito dell’interprete, sia la dinamica stessa dell’officina di Bellezza – ma anche dal modo in cui la realtà quotidiana è filtrata dall’esperienza ancor prima che dalla scrittura; infine, a chiudere questo spazio letterario così fascinosamente ombroso e asfittico, è la proiezione dell’io lirico come protagonista di un teatro della passione erotica, l’amletica rappresentazione di sé tra retaggio cattolico, abito piccolo-borghese, trasgressione e rottura degli schemi sociali precostituiti.
Da qualsiasi punto la si osservi, la poesia di Bellezza appare in fuga, o meglio si costruisce e si atteggia come una fuga. Come un tentativo di fuga, a veder bene, se una certa pesantezza della struttura impedisce movimenti troppo verticali, sollevamenti repentini del senso, scarti ritmici, almeno fino agli ultimi due libri, L’avversario e Proclama sul fascino. Eppure, nonostante il suo movimento più autentico sembri essere quello del nascondimento orizzontale piuttosto che quello dello scandaglio, in un’incessante altalena di simulazione e dissimulazione, nessuna prospettiva è in grado di incorniciarla e comprenderla e inevitabilmente qualcosa si sottrarrà, come alla visuale in procinto di una curva, di una svolta inattesa e in ogni caso sorprendente, come una voluta barocca. Questa tortuosità non è un limite, ma è semmai la forza, la materia più autentica di questo poeta. Così, sia nello spaziotempo della gioventù che in quello della maturità, ciò che può giungere a noi «frettolosi lettori», finale declinazione dell’ipocrisia che già ci aveva attribuito Baudelaire, è solo – e disperatamente, ma fino a che punto? – un «messaggio invivibile», pervenuto da qualche oscura regione del mondo fenomenico o della psiche, come un enigma kafkiano, estremo proprio come un dubbio amletico.
La sostanza del dubbio è quella di potersi tramutare in un’ossessione. Da questo punto di vista Bellezza è rimasto prigioniero dello stesso cortocircuito che ha provocato: l’Amleto che cerca di corrodere dall’interno, con la sua sola ma rumorosa presenza, la sonnolenta borghesia romana, è in realtà l’effigie della stessa dissoluzione in atto di quest’ultima. Ciò che il poeta vuole rappresentare nel vissuto e nella poesia, in una coazione al presente, ad agire nell’attualità del presente, è già avvenuto. La strada dell’eversione, che passa anzitutto attraverso l’affermazione dell’identità sessuale, è percorsa già fuori tempo massimo: quando, nel 1982, viene dato alle stampe il Libro d’amore, la parabola sociale si sta per compiere e già l’anno successivo alcune poesie di io, e quattro anni più tardi quelle di Serpenta, parleranno nei toni nostalgici di una stagione trascorsa, nelle passioni come nei tormenti, nelle lotte come nelle attese, nelle «licenze» delle recite come nella verità degli abbandoni. La Roma ruggente della provocazione, alla quale sono rivolte le «invettive» dell’esordio, si tramuta improvvisamente in una città opaca, finalmente si mostra come una lontana propaggine dell’impero globale, attraversata da migrazioni fino ad allora improbabili.
Di maschera in maschera, di ordalia in ordalia, e per via morantiana, la sola enclave possibile resta quella dell’innocenza animale, del rapporto esclusivo e privilegiato con i gatti. Trattenendosi sulla soglia di questa ennesima proiezione, a lui negata, Bellezza ci restituisce con ogni probabilità l’immagine di sé più densa e credibile; ed è proprio quella negazione a rendere l’autoritratto una rappresentazione tutt’altro che mimetica. I gatti, ai quali sono dedicate alcune tra le migliori poesie, compaiono sulla scena di io come protagonisti in uno scenario ancora soleggiato e si mostrano al di qua di ogni portato simbolico. Non stanno per il poeta, come vorrebbe tutta una tradizione, specie di marca francese, a cui Bellezza comunque attinge, ma incarnano direttamente l’istintiva naturalezza di un mondo creaturale, libero dagli spettri della cultura, e dunque dal peccato. Se di barocco si può parlare, per quest’autore, è soprattutto in virtù di questa anamorfosi, propro laddove il dettato sembrerebbe sedarsi in una serie di immagini pacatamente affettive, in una lingua classicamente meno atteggiata: è lì che Bellezza si rispecchia in una lente deformante e lascia trasparire il fondo della sua più autentica libertà, almeno come aspirazione.
L’altro Bellezza, quello della catarsi erotica, della corporalità tradita e disillusa, domina invece in un immaginario generazionale, prendendo di fatto le consegne, ma solo da questo punto di vista, dal Pasolini che lo aveva eletto quale miglior poeta, tra quelli che si andavano affaciando sulla ricca scena a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. La coazione all’eros, come motivo, sembrerebbe stabilire una diretta linea di discendenza da Penna e dal poeta delle borgate, ma l’immagine innocente del fanciullo, icona di un desiderio assoluto prima che di una pulsione, è assente dal suo orizzonte, frequentato piuttosto da emarginati e da una sessualità spesso in vendita. Quel tanto di maledettismo, comunque recitato, che rappresenta il vero artificio all’interno della psicologia e dell’arte di Bellezza, riconduce il poeta alle esperienze d’oltralpe, a Rimbaud anzitutto; sono gli anni, del resto, in cui il simbolismo e lo sperimentalismo francesi si riaffacciano sulla poesia italiana, dopo la fioritura ermetica, attraverso nuove edizioni e traduzioni, processo al quale non è indenne lo stesso Bellezza. Penna e Pasolini restano, più che mentori, come ombre remote, vessilli fin troppo spesso citati ed esibiti dai lettori, ma le ascendenze deviano piuttosto verso la poesia di Elsa Morante, parlano il linguaggio, lo stile del Mondo salvato dai ragazzini, portato sul piano dello scandalo privato e poeticamente collettivo. L’irregolarità del verso, la sua tonalità cantilenante, fanno pensare proprio a quell’esperienza, così apparentemente marginale rispetto al canone post-ermetico, eppure vitale, a testimonianza di un’ulteriore quanto vana discesa nelle regioni della creaturalità, di un universo offeso dalla storia; non è casuale che dopo l’allontanamento dalla Morante, di cui rimangono lacerti nelle pagine dell’Amore felice e di Serpenta, irrompa un nuovo nume tutelare nella persona di Anna Maria Ortese.
Bellezza è dunque irretito dalle sue stesse proiezioni. Oltre il mondo animale, la realtà urbana che gli si prospetta è quella di un erotismo che non assurge mai a «metafora ossessiva», per dirla con Mauron, ma che ossessivamente ripete se stesso in un teatro distruttivo e rovinoso, di fatto replicandosi e con ciò affermandosi come un espediente ontologico: la maschera sostituisce la persona, il personaggio condiziona il poeta. Così ricca appare la declinazione di questo tema, e pervasiva, da indurre il sospetto che l’attrito fra esperienza e scrittura si sia talmente affievolito in un estremo dannunzianesimo rovesciato di segno. Non è forse una citazione esplicita da La Chimera, dai versi intitolati Al poeta Andrea Sperelli, a sigillare la poesia d’apertura di Invettive e licenze, già nel 1971? «Ma non saprai giammai perché sorrido».
Questo Sperelli, così anti-eroe e vittima del suo stesso estetismo, è un antenato plausibile e concreto, ma resta uno iato tra personaggio e autore; se il primo fallisce, il secondo, D’Annunzio, si ostina ad andare avanti in un’infausta sovrapposizione di due dimensioni, arte e vita, tra la fluidità del vissuto e la fissità del bello eterno. Alla retorica simbolica e decadente del protagonista del Piacere, Bellezza ha invece sostituito se stesso, la propria ingombrante fisicità, l’attraversamento contraddittorio del proprio istinto, tra colpa e riscatto: una sessualità coatta che si traduce, in quanto espressione del poeta, in evento sociale, in atto performativo. Ha traslato l’enigma nel dubbio e il dubbio, ancora una volta, nell’ossessione.
Il corpo, infine, strumento espressivo, veicolo rappresentativo, emblema di un Novecento in perdita, tutto proteso a scandagliare invano nei propri visceri il senso di quel «messaggio invivibile» che la poesia di Bellezza riconosce, ma costantemente elude, nel suo incessante camouflage. Nei suoi versi la fisicità assume le denotazioni più disparate, fino a recitare il ruolo antagonistico più volte evocato e infine temuto, quello di richiamo della malattia e della morte. Ma prima di quest’ultimo, fatale intreccio, in una sorta di carpe diem che riporta la temporalità di questo poeta negli angusti confini di un eterno presente che non vuole e non sa guardare al futuro, né costruirlo, il corpo è la scena primaria di felicità fugaci ed effimere e di ben più reali ripudi. Quella stessa fisicità non tarda infatti a mostrarsi nei caratteri alterni, e ovviamente ossessivi, della ricerca e dell’incontro, del distacco e dell’assenza. Di questo incessante teatro dell’eros restano sulla scena piccoli oggetti, fragili icone, tristi sineddochi di un avvenimento che appare già superato nel momento stesso in cui accade, per lasciare il posto a un altro incontro, e prima di questo, all’inesausto vagare, sola dimensione di confronto serrato con se stessi e con un desiderio di cui si teme ogni volta il compiersi, sebbene lo si annunci. Con il suo atteggiamento Bellezza sfugge a qualsivoglia cristallizzazione del processo amoroso, assestandosi nel limbo friabile e imperfetto di un amore, che per affermarsi come tale, deve rimanere sempre potenziale, possibile e mai realizzato, perché il personaggio torni a dominare la persona e la sua lamentosa carica eversiva possa raggiungere nuovi obiettivi e nuovi lettori su cui rovesciarsi.
Per questo un poeta come Bellezza vive la corporalità come scissione: esiste il corpo dell’amante, quindi il corpo dell’amato, infine il corpo di Amleto; ed è quest’ultimo a condizionare fisiologia e ritmi degli altri, a farne costanti proiezioni di sé sulla scena di una teatralità sempre esibita: «Ho portato il mio vecchio corpo rotto da malattie / che non danno più la pace dello Spirito fino al teatro / dove Amleto carezzava la sua imperatrice madre», leggiamo in Morte segreta. C’è una straziante sincerità in questa recita, e con essa l’anelito a una verità impossibile, perché avvertita come un’utopia sociale: «Non c’è speranza, qui in questa Italia / provinciale ad una vita da poeta, cioè / in una vera società dove il teatro sia / teatro quotidiano di eventi tutti / scombinati dalla clessidra dei sentimenti», scrive Bellezza ancora in Morte segreta. È dunque la condizione pasolinianamente “impoetica” del poeta a scardinare il nesso barocco di vita e sueño e a fare della dimensione drammaturgia il luogo di una verità possibile, dispersa nella quotidianità del sentimento. In questo senso l’atteggiamento fondamentale di tutta la scrittura di Bellezza s’impone sul piano del visivo piuttosto che in un’ottica concettuale; come osservazione di «eventi» che però non vengono semplicemente registrati da un testimone attendibile, i suoi versi mimano il proustiano fluire del sentimento nel tempo («la clessidra»), ne attestano (o ne provocano) l’attrito, il rovesciamento, l’imprevisto, di fatto costringendo lo stesso tempo alla recita di un destino.
Dietro tutto questo c’è l’ammissione implicita di una sovrapposizione tra io, ruolo e personaggio, quale possiamo registrare proprio nella storia della fisiologia di Bellezza, nel crudele antagonismo dei suoi corpi. Il corpo del poeta e quello dell’amato si trovano sempre ai poli estremi di una scala temporale fittizia: invariabilmente giovane e prestante il secondo, immancabilmente vecchio, stanco, appesantito, e soprattutto preda di mali veri e immaginari il primo. Il loro incontro, pertanto, è complesso e in realtà sempre differito in un «eterno ritorno» impossibile, poiché, nel frattempo, un altro antagonista, più volte evocato, interviene a rompere il meccanismo di un corpo ripudiato, socialmente esecrabile, vittima e carnefice di se stesso: «il corpo, baldracco / corpo sfiorato dai mille corpi ragazzi», si confessa, sempre in Morte segreta, come il luogo primario di quella scissione che scardina il tempo del sentimento, rinviandolo, spingendolo fino ai confini estremi e irraggiungibili della morte. L’enjambement è assai eloquente, ribadisce la coazione a un eros insoddisfatto, fa della ripetizione il segnale dell’ossessione e soprattutto ci mette a parte di come Bellezza tenti di risolvere il proprio sentimento del tempo con una banale operazione aritmetica, moltiplicando all’infinito i suoi incontri, i suoi «eventi», in una rincorsa affannosa quanto inutile, come a voler essere più veloce, ma con l’effetto soltanto di anticipare quello che è già contenuto nella sua confessione: il corpo sfiorato è infine il corpo sfiorito, consumato negli eccessi, dai «mille corpi» che restano, per sempre, «ragazzi».
Chiamata sulla scena del proprio dramma come attrice, la morte giunge invece in tutta la ferocia della sua realtà; eppure, la sola arma possibile, contro colei che avrebbe dovuto recitare un ruolo salvifico dalla parte della vita e invece respinge ogni anelito verso il nulla, è ancora una volta lo specchio della parola. L’uso strumentale della poesia è palese in Bellezza proprio nell’effetto melodrammatico di molte sue soluzioni: è una scrittura che si tramuta in «forsennata poesia sospesa fra elaborata perizia / e sincerità programmata». Ancora una volta, una finzione; anzi, il traslato di una finzione, una finzione al quadrato. Come Perseo, ma con la consapevolezza di dover soccombere, il poeta incontra la propria Medusa, o Serpenta, destinato a perdersi nell’infinito rispecchiamento dei propri versi. La «clessidra dei sentimenti» gli ha giocato un pessimo tiro, richiamandolo a una concretezza dell’essere fuori da ogni rappresentazione: Bellezza ha tentato di eluderla moltiplicando ogni esperienza, appiattendola e di fatto annullandola nella dimensione di un eterno presente, ma è un trucco da illusionisti. Appena lo specchio cessa di riflettere l’immagine della Gorgone, appare la figura stessa del poeta nel proprio labirinto arrovellato ed è in quel preciso istante che viene sancita una condanna inappellabile; perché anche la morte ha usato lo stesso stratagemma e si è andata a riflettere dietro il ritratto del poeta. Contemplando se stesso, e pensando così di aver sconfitto il mostro, gli ha invece consegnato la propria vita, quella vera e quella recitata.
È uno scontro impari, ma nell’energia della dissipazione a cui Bellezza si costringe c’è anche un residuo di titanismo, appena sufficiente a motivare il tentativo di un riscatto, ma solo sul piano collettivo. Anche se fosse possibile salvare, imporre il proprio ruolo, sul piano individuale la situazione è compromessa dalla crudeltà dei sentimenti, dall’incapacità di adeguarsi al loro naturale fluire. «Ma il quotidiano insiste», ovvero incombe, si legge proprio in Serpenta, imponendo uno iato tra la scena della rappresentazione, che prima o poi dovrà concludersi, e la sosta necessaria al compiersi di una vera esperienza. Bellezza teme quella verità tanto agognata, si dispone a una fuga continua perché solo il tempo della recita sembra offrire lo spazio illusorio di una salvezza. Così fugge più veloce del tempo della vita, con l’effetto di perdersi ancor più nei suoi amletici angiporti. E anche lo spazio vitale si restringe invece di ampliarsi, la città si riduce alla stanza, la stanza al letto, quel luogo sfatto dove non è più concesso sottrarsi alla proprie contraddizioni, ai propri antagonismi, alla stessa Medusa.
È dunque il corpo lo strumento attraverso cui il poeta esibisce e declina le proprie ossessioni; la sua presenza, così tenacemente pervasiva di libro in libro, non costituisce un ovvio tratto dominante, ma diviene la sostanza più intima di una ricerca destinata al fallimento. Il linguaggio dei visceri rischia di svelare falsi oracoli, di offrire illusioni effimere quanto dannose, di cui Bellezza è sempre dolorosamente cosciente. Questa consapevolezza genera una struttura elegiaca, più evidente man mano che ci si accosti agli ultimi libri; il racconto della fisicità propria e altrui oscilla tra pietà e rimpianto, tra occasione e rimorso senza che sia risparmiato particolare alcuno del degrado, come in una tela caravaggesca. Nell’istante stesso in cui descrive e si descrive, il soggetto ha già indossato i panni dell’attore, così compiendo una rimozione radicale del concreto.
Amleto affronta la sua realtà tragica attraverso lo specchio dell’arte drammatica, denunciando i fatti con la loro rappresentazione per poi subire fino alle estreme conseguenze la catarsi; Bellezza, incapace di sciogliere i propri nodi, rimane al di là della scena da lui stesso allestita con una regia sapiente quanto penalizzante. Di quello specchio resta prigioniero fin da subito, apprestandosi a giocare una partita col destino e con la morte: una partita che è l’anamorfosi dell’invettiva, del tentativo di riscatto sociale, dell’affermazione della libertà dell’eros, del superamento della grettezza piccolo-borghese; perché, di fatto, il poeta che si lancia contro la società «provinciale» resta, anzitutto, il prodotto stesso di quella società, di cui non riesce a cogliere la velocità delle mutazioni. Convinto di potersi rivolgere sempre allo stesso uditorio, Bellezza non si è mai accorto che il pubblico in sala era ormai tutt’altro da quello dei suoi esordi e che l’eros, minacciato da nuove paure e piegato a irreggimentare vuoti immaginari collettivi, non poteva più costitire la ragione sufficiente di uno scandalo, ovvero di una richiesta di attenzione. Continua a cantare il corpo, divenuto sempre più oggetto assente, motivo di ricordo; la sequenza Lodi del corpo maschile, in Serpenta, è il resoconto, il punto decisivo di svolta verso una fisicità sempre più intoccata e inaccostabile, quasi petrarchesca. Ad aprire la suite è un testo che nell’immediato sancisce e narra l’abbandono, Il tuo corpo adorato più non tocco. Non è la semplice separazione, come in molti luoghi precedenti, e neppure un’assenza che sarà facilmente colmata da nuovi eventi, ma l’ammissione di una solitudine radicale, pur sempre istrionesca. Lo attesta la disposizione sintattica dell’avvio, che rompe con la colloquialità standard e indulge piuttosto al melodramma, coniugando, attraverso una doppia dislocazione, un registro da opera o da romanza con una memoria da Catullo o Foscolo («più non»). Bellezza insomma non può scrivere «Non tocco più il tuo corpo adorato», ovvia dichiarazione nostalgica, ma ha bisogno di anticipare l’icona, il correlativo oggettivo dell’abbandono, il veicolo iconico rispetto al tema. Così facendo stabilisce un colloquio in assenza, destinato a infittirsi nei libri successivi («Il tuo corpo») e soprattutto pone al centro del verso il primo segno della corrente affettiva che percorre l’intera poesia: «adorato». La fisicità diviene così il segno tangibile di un eros a più ampio spettro, ma immediatamnete collocato nella dimensione della lontananza; proprio quest’ultima consente all’attore di raccontare un flusso sentimentale altrimenti incoffessabile in tutta la sua fugace concretezza. «Non è tuo quel bianco corpo / diventato brunito per il sole. Non è / mio», scriveva con calco penniano il poeta di Libro d’amore, definendo per questa via un eros quasi astratto, proprio quando ne esponeva i dettagli. Ora il corpo torna ad avere un referente, ma distante, ormai invisibile, mentre se ne ammette a piena voce, ma sempre dal proscenio, l’adorazione; non è più soltanto «il tuo caro corpo / dolce attaccato al mio» di un’antica storia vissuta anch’essa all’insegna di una «passeggera eternità», ma si tramuta in qualcosa di assoluto, perfino in qualcosa di malato.
«Qualcuno lo bacia: me lo ha rubato», prosegue Bellezza. Non è un motivo nuovo, quello del furto d’amore, non per questo banale, almeno per come l’autore lo declina. «L’arcano fascino dell’amore tradito», come dichiara in Proclama sul fascino, riconduce ogni possibile sospetto di autenticità del dolore ancora una volta entro i limiti di una raffigurazione, di un modello culturale ancor prima che psicologico. Ciò che viene sottratto al poeta, insieme all’oggetto, è il sentimento stesso del dolore: l’elaborazione della perdita è tutta affidata alla poesia, ma non in chiave consolatoria e neppure esorcistica. Si tratta invece di narrazione allo stato puro, di fictio che sposta incessantemente l’asse dell’esperienza verso quello della rappresentazione. Non a caso, a questo punto, non rimane che raccontare la scena spoglia, occupata da pochi simboli: «Resta soltanto nella stanza / il tuo odore, gli ultimi vestiti / smessi; un paio di mutandine». L’attore racconta il proprio spazio drammatico, partendo da un dato astratto ma fortemente evocativo, ribadendo nel colloquio l’assenza di una fisicità («Il tuo corpo / il tuo odore») e asserendo, con estrema compattezza visiva, che quel corpo è ormai svanito, lasciando tristi tracce. Si compie così il passaggio da una dimensione tattile a una dimensione olfattiva e si apre, ancora con Proust, la strada alla memoria, che occupa tutta la seconda strofa: «Amore senza indugio con l’acqua / che bolliva sul gas per gli sporchi / capelli, di lontano nella pentola – / borbottando ci chiama senza rancore / di essere lasciata lì a consumare / tutta la sua bollente acqua / un attimo prima gelida».
C’è una dolcezza insolita, già malinconica, in questi versi; e c’è, soprattutto, una dislocazione temporale, dal passato al presente, che è una spia essenziale di come Bellezza corroda l’esperienza nel momento in cui la rende assoluta, per sempre allontanandola. Chi chiama, la pentola? L’amante e l’amato, distratti nel loro eros effimero, o, con un plurale istrionico, il poeta che ricordando scrive quando già l’amato è entrato nel limbo delle icone, dei simboli della «passeggera eternità»? Il linguaggio della poesia può supportare – e lo fa – entrambe le soluzioni. La prima, più esibita e plausibile, se non fosse per quel repentino scarto del tempo verbale; e la seconda, quella per cui l’attore sta recitando, nel presente a cui assistiamo, la perdita del «corpo adorato». Ecco spiegato, allora, lo spostamento retorico di un sentimento possibile alla stessa pentola, che «senza rancore» continua a chiamare, tramutandosi in un ennesimo correlativo dell’abbandono: di un abbandono in atto, che si ripete ad ogni rilettura del testo, evento avvenuto e potenziale al tempo stesso.
È ancora la scrittura, infatti, a offrirsi come moto distraente nell’ultima strofa («te / circuito di certo mentre io / scrivevo nella mia nuova stanza»). E nonostante l’amante abbia consegnato all’amato la chiave della nuova casa, estremo simbolo di una disponibilità concreta solo nello spazio della rappresentazione, il corpo amato se ne va, lasciando solo il poeta. È allora che la traduzione della rappresentazione in scrittura poetica prende l’avvio, inevitabile, inesorabile, a custodire quel «messaggio invivibile» che condiziona l’intero tracciato di Bellezza: «la fine dell’amore dopo l’amore», ovvero quando definitivamente cala il sipario, in attesa non della prossima replica, ma di uno spettacolo che si vorrebbe nuovo e che invece si compie nel dolore di una finitudine coatta e che fa soggiacere tutti, attori e spettatori, allo sguardo pietrificante di Serpenta, come in questi versi da Morte segreta: «Questo nel dolore è compimento felice. / Chi ama la vita lo conservi e bruci, / ma resti impassibile, di marmo / a contemplare la sventura mia / e il disinganno. Ché solo morte / esiste e a lei m’affido, tranquillo / negatore terrestre delle Stelle».
Queste vite tormentate che psichiatri e terapisti vorrebbero aiutare a diventare “normali”,costruzioni individuali di tristezze portate all’apogeo, sono inseparabili dai destini dei loro costruttori. La morte liberatrice non e’ certo una soluzione, solo una pausa.
Liberarsi dall’idea di peccato, accettare il corpo e l’anima nella loro sacralita’ … e’ un cammino faticoso, pieno di ostacoli da sormontare, rimanere in un’agonia colposa, e’ un atto di pigrizia.
Grazie a Luigia che ci ricorda di ricordare…