Nello scaffale, Domenico Arturo Ingenito
a cura di Luigia Sorrentino
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“Se ancora sappiamo dell’umano essere amici”
A sua água era antiga
Herberto Helder
dalla Prefazione di Tommaso di Dio
Un’alta, perpetua ansia di rinnovamento pervade la raccolta d’esordio di Domenico Arturo Ingenito. Per camminare rapidi sulle acque, fin dalle prime pagine, intende trovare le parole esatte per dire addio al secolo appena trascorso e alla tanta sua poesia che ha intravisto esclusivamente nel negativo della parola e nell’agonia di ogni significato la possibilità della propria esistenza. Al lettore – e forse ancor di più al lettore futuro – saranno date le condizioni per verificare quanto l’impeto di questi versi sia un segnale fondato e fecondo o sia una traccia perduta, un tentativo non sorretto da un’istanza storica comune.
Eppure i versi di questo libro sono ogni dove aperti dall’intima esigenza di ritrovare il senso originario della poesia. Nel terremoto dei generi letterari e nel fango della totale mercificazione dell’esperienza, il verso di Ingenito trova la propria possibilità di esistere attraverso un personale percorso di ricapitolazione delle molte strategie poetiche, del recente come del lontanissimo passato. Non è più in questione di quali mezzi la poesia si fregi (“metafora o simbolo non importa”), né a quale corrente letteraria essa voglia ascriversi. Questo libro mostra accanitamente quanto una possibile futura forma della poesia non possa darsi che nel tentativo di riappropriarsi di una Retorica, quale essa sia; di un sistema di espressione che ritorni valido e significante soltanto se scontato dal sangue della propria esperienza, soltanto se capace di mostrare la fatica e il travaglio di questo tentativo. O situiamo a questa altezza la ricerca compiuta in questo libro, oppure facilmente potremmo liquidarlo come un libro esotico, frutto di un attardato eufuista, di un ambiguo traduttore.
Sono le “stagioni antiche”, le “maledette forme antiche” della poesia millenaria a fornire l’orientamento
stellare di questo cammino; da esse èmutuata l’inesausta fiducia che sorregge i versi di questo libro, posti in una forma che, pur sapendosimanchevole, costantemente in difetto, testimonia sempre la volontà di oltrepassare questo diaframma alla ricerca di un rinnovato valore agogico, etico della scrittura. I versi di Ingenito mostrano la consapevolezza di quanto il linguaggio – e la poesia che ne è il precipitato – sia stato da lui ereditato in quanto deriva di segni, erranza costitutiva, sempre aperto fallimento di stringere a sé l’oggetto del proprio dire.
Al contempo, nella sua poesia assistiamo esterrefatti al tentativo di costruire una casa su queste mobili,
liquide fondamenta. Viviamo nella sua poesia le città stravolte, l’abolizione di ogni certezza, l’abbandono
d’amore e la precarietà di ogni lingua; ma in ogni dove sentiamo che con questo materiale tanto friabile e transeunte stiamo innalzando la possibilità di abitare quello che sempre il segno è: continuo rimando,
mobile terreno, là “dove il mondo non tiene” e “la vita non resiste”.
È in questa luce che appare forse più chiara la costruzione del libro, composto attraverso una strategia
di scrittura multipla e variabile. Vi compaiono brani che non stenteremmo a definire pienamente lirici,
accanto a false traduzioni, esperimenti di scrittura plurilinguistica in italiano, portoghese e persiano; brevi e brevissimi frammenti accanto a montaggi composti a partire da versi di così da noi lontane opere, come quelle di Gaspara Stampa e di Jahan Malek Khatun (la Dama del Mondo, principessa persiana trecentesca), di Hafez e di Petrarca. Tutto questo non è esibizione archeologica o erudita manipolazione linguistica, ma attraversamento vitale e vero corpo a corpo con la tradizione poetica alla ricerca di come già, in molte vie e in molti tempi, si sia potuta costituire una parola che ancora sappia dell’umano essere amica, della sua fragilità come della sua grazia. Il lettore al termine del libro è, insieme al poeta, “traboccante di voci, salvo. Pieno”. Perduto nella confluenza di un coro che lo precede, egli sa che soltanto aderendo in corsa al continuo fluire degli eventi, come dei segni che li significano, potrà trovare la possibilità di un fertile rispecchiamento fra la parola e il mondo.
Di questo felice presagio la poesia di Ingenito è colma, rappresentando un episodio di quella linea millenaria che ha saputo esprimere la gioia, la festa di essere partecipi della vita. Di essa è particolare testimone la parte centrale del trittico di Per camminare rapidi sulle acque, la sezione che porta il titolo Il Basilisco.
In questo piccolo animale si stratifica l’eco delle più lontane ascendenze: oggi piccolo miracolo dell’etologia,
rettile capace di correre sulle acque grazie ad una rapida e potente flessione degli arti inferiori; ieri antichissimo monstrum mitologico capace di uccidere con il solo sguardo. Terminata l’era pagana, a
causa della sua singolare capacità, non si concluse la percezione prodigiosa del basilisco ed esso fu considerato animale cristico per eccellenza. Proprio per la fusione di così diverse esperienze di senso e di verità, il Basilisco si rivela il più adatto emblema della poesia di Ingenito, nella sua intuizione di una unità
sovratemporale della cultura umana, così come della prossimità che c’è nella sua scrittura fra adesione al
dettato dell’esperienza e tensione incandescente, anagogica, verso una gioia a venire.
Questa sezione centrale riannoda i fili con una certa scrittura breve che ha un’importante tradizione nella poesia al di là dei confini europei, pur avendo trovato esiti nella poesia novecentesca italiana, da Ungaretti a Quasimodo, da Caproni a Penna fino a Porta. I frammenti di Ingenito forse devono più a quest’ultimo che ai pur tanti interpreti trascorsi della brevità. La sua scrittura guarda al poeta Antonio Porta (e in particolare alla sua raccolta del 1983, Invasioni) come ad un sicuro precedente; ma cerca di portare il frammento ad un altro segno che quello di “essere invasi o di invadere”. Nei lacerti di Ingenito, infatti, una potente sospensione immaginifica si alterna ad una forte tensionemorale, estranea al poeta che fu per lunga adozione milanese. I brevi versi spesso mirano a concentrare un’energia che sia capace di spronare il lettore, affinché raggiunga un livello di intensità esistenziale che lo renda partecipe del tentativo della corsa inneggiata dal Basilisco, infiammato ed appassionato compagno di questa risalita verso la possibilità di un rinnovato senso comune. La voce del Basilisco ci giunge come una fra le componenti di un recital per voci e coro; un teatro, dunque, che include il lettore e che ci include ora che leggiamo: “Le gambe potranno poi sostenerci / in strada, ma con braci / nei talloni”. Oppure nel bellissimo: “L’ora di levare i piedi dal suolo / quando è il tempo che tutto si concluda / e s’appresti ad esser detto / in altro spazio”.
Punti di vista differenti animano questa breve sezione: dal tu che ci trova individui testimoni del miracoloso
correre rapidi sulle acque; da un io che rappresenta sia la voce stessa del Basilisco sia l’interiorità di chi gli sta di fronte, a un noi che sancisce l’adesione collettiva all’evento. Questa confusione di
personae, questa trinità esplosa nella brevità del frammento rinvia almessaggio costitutivo della raccolta:
il fiducioso abbandono ad una forza di esistere che non trova tregua e a cui non basta racchiudersi nella prima persona singolare se non per negarla e spingerla verso un’alterità gioiosa. È il brulichio della vita plurale che ronza continuamente nella parola di Ingenito, è la possibilità di dare e avere vita, è la “diuturna concezione” che anima il verso di questo poeta che sa rimanere, pur fra tutta l’amarezza del mondo, attaccato con le labbra ad ogni speranza d’amore in terra. Ed essa, così, risuona: “Mi risuoni dentro come l’acacia / quando a luglio è infestata dalle api”.
(di Tommaso Di Dio)
–
II
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Il Basilisco:
Per caminare rapidi sulle acque
.
Cantavàmo come passeri selvatici
quando i rettili ascesero alle piume
ed il senso affiorava ai suoi segnali.
Nelle foglie una ad una il ripetersi
delle stelle ululate in gola a fiato pieno:
presto il potere di portare in vita
e sigillare con il corpo e con il sangue
la verità dei cuori illuminati.
Cantavamo come passeri selvatici
i versetti serrati dentro il petto,
cantavamo ispirati, ribollenti
ad occhi spalancati.
—
Sono io
nella violenza del vento
non abbiate paura.
*
Come miracolo del Cristo
il Basilisco attraversa le acque
del fiume senza barche.
Maledetta natura
che induci al volo chi gelido ha il sangue.
E ferme nel fango le zampe.
*
Mai come adesso così prossime
le due coste.
Un’ora di silenzio ancora
e l’onda spazzerà via le case.
*
Come ombre di pensieri
tra le vene della nuca
passano nel Bosforo
le navi mercantili.
.
Poveri uccelli schiavi del pane bagnato,
vogliamo mani per nutrirci.
Vogliamo pane, vogliamo acqua.
Voliamo alti con le mani.
*
Pervenire alla visione in milioni d’anni,
una sola notte basta
per staccare i piedi dal suolo
perdere la grazia
di una qualche genuflessione.
.
La fonte si assottiglia
al rosso volge il terreno
le mani come cera
sulla fronte.
Da: Per camminare rapidi sulle acque, di Domenico Arturo Ingenito, Giuliano Ladolfi Editore, 2012 (euro 12,00)
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