La vostra voce
a cura di Luigia Sorrentino
Dell’arte del romanzo
di Giorgio Galli
Ciò che rimprovero alla narrativa è d’aver falsificato l’essere umano. Il racconto, il romanzo, il dramma hanno costretto la realtà dei fatti, e quella interiore, in delle strutture, e hanno imboccato così un vicolo cieco in cui non possono più indagare, cogli strumenti a loro congeniali, né l’una né l’altra. Oggi la narrativa -quasi tutta la narrativa- non serve più a conoscere. Ma come è accaduto?
Nel corso del Novecento, i narratori hanno lavorato perlopiù sul ritmo, la struttura, la lingua, anche a scapito dell’elemento umano. Oggi non si può più raccontare un personaggio alla maniera ottocentesca, descrivendo il modo in cui s’agita nell’ambiente e trattando i suoi pensieri e affetti alla stessa stregua delle azioni, come reazioni comportamentali all’ambiente dato, influenzate in parte dalla genetica e dalla storia personale; ma non lo si può neppure scandagliare in una mimesi psicanalitica, come avveniva ai primi del Novecento. Non è possibile perché entrambe quelle culture sono superate: è superato il positivismo, per cui lo scrivere romanzi era come osservare il comportamento umano in un enorme laboratorio ch’era il mondo; ed è superata la cultura del monologo interiore.
La mistificazione ottocentesca, che perdura attraverso il cinema, s’è spinta fino al punto che noi attribuiamo alla realtà -sbagliandoci- i caratteri dell’azione narrativa. Il tale rimasto ucciso, qualche anno fa, in una rapina che non gli sembrava vera perché non era come quelle del cinema ne è solo l’esempio più eclatante. Il dato orribile è che noi veniamo quotidianamente frustrati dalla scoperta di una realtà caotica, mentre le nostre aspettative si riferiscono a una realtà organizzata.
La vera scoperta del Novecento, alla fin fine, non è stata la scoperta dell’inconscio, ma al contrario quella dell’inconoscibilità dell’essere umano, della misteriosità degli altri ai nostri occhi. Da essa discende non solo l’impossibilità di essere narratori onniscienti, ma anche la consapevolezza che l’ultima possibilità rimasta, l’estrema sfida della narrativa è di raccontare il suo stesso scacco, insistendo sulla zona d’ombra che non si riesce a illuminare (Conrad), svelandosi nell’impossibilità di raccontare (Savinio) o rinunciando semplicemente ai personaggi (Pavese).
Ma che cos’è il romanzo? Esso non è una tecnica e tantomeno un genere. E’ un modo di rapportarsi del narratore alla cosa narrata, un modo di rappresentarla che oramai ha permeato di sé tutte le arti narrative -ad eccezione del teatro, che ha una sua forma troppo matura e antica, che è troppo radicato nella sua storia, e che per questo forse non sta sopravvivendo all’urto con la nostra epoca. Il romanzo, in qualche modo, è sopravvissuto. Si è spostato però il suo baricentro: oggi i romanzi più interessanti si scrivono al di fuori dell’Europa, o ai suoi confini. Sembra che la forma-romanzo oggi riesca a dare i suoi frutti più estrosi quando si contamina con una cultura estranea alla sua d’origine. C’è poi da dire che molti romanzieri oggi considerati d’evasione o d’intrattenimento, forse, supereranno il test del tempo meglio di loro colleghi troppo preoccupati d’avere lauree culturali attuali. Questo perché l’odierno mondo letterario è un mondo d’avventurieri, dove si respira un’aria d’ambizione, di competizione, di volontà di potenza; dove si parla della letteratura come d’un oggetto esoterico -staccato non solo dal reale ma persino dalle altre arti- e al medesimo tempo come d’un oggetto tecnologico, che ha per regola l’evoluzione e dove chi non è aggiornato è out. Poeti e scrittori sembrano scegliere la loro voce sulla base d’una specie di ricerca di mercato: seguono i loro contemporanei non per arricchirsi, ma per capire come differenziarsi trovando un territorio vergine ancora da battere, oppure per inserirsi in una corrente. E’ tutto umano, inevitabile ed eterno: ma è diventata esagerata la quantità. La letteratura è una parte del mondo, e il mondo è anche darwiniano. Ma s’avverte la mancanza di figure solitarie, quelle che fanno il lavoro umile d’un Kavafis, d’un Lee Masters o d’uno Sherwood Anderson. Domina la necessità di fare gruppo. Vige il conformismo dell’anticonformismo. Per questo, è probabile che alcuni narratori d’evasione, un domani, siano ancora verdi, perché più genuini, perché autentici narratori e non intellettuali che imbrigliano la narrativa nelle loro idee da intellettuali. Naturalmente, sono concetti che vanno presi col buon senso, evitando di cadere in quel tipo di critica che prescinde dai valori o, peggio, che sostiene il “non è bello ciò ch’è bello ma è bello ciò che piace”. Purtuttavia, è innegabile che la storia abbia reso giustizia postuma ad artisti ai loro tempi considerati leggeri o inattuali. Ed è palmare che forme d’industria culturale siano sempre esistite, e che il buon Shakespeare e il buon Balzac non le schifavano nemmeno un pizzico.
Ma in che consa consiste, una buona volta, la mentalità romanzesca? Essa è, prima di tutto, un’attitudine a rappresentare il reale rispecchiandone la struttura profonda, che è caotica e non teleologica, e dove il “senso” e la “direzione” degli eventi sono dati solo a posteriori, nella nostra immagine mentale. Al di fuori di questa mentalità, è impossibile dare una definizione “tecnica” del romanzo, così come la si dà, in parte, della poesia. Il merito del romanzo moderno è d’aver trovato una forma del relativo. Il teatro e l’epica -e i primi romanzi, nati sotto l’egida del teatro e dell’epica- trasformavano personaggi e situazioni in archetipi. Si può dire: Otello o della gelosia, Eurialo e Niso o dell’amicizia. Anche Gargantua e don Chisciotte non sono un cavaliere folle e un gigante grasso, ma il cavaliere folle ed il gigante grasso, per eccellenza. La realtà sporca, misera, senza senso, le storie e i personaggi non esemplari, privi di grandezza, sarebbero entrati di diritto nella storia della letteratura solo col realismo francese ottocentesco, ed in particolare con Flaubert e col suo romanzo “fatto di niente”.
Il romanzo come rappresentazione di un reale non teleologico non poteva che nascere nella laica Francia. I primi romanzi, protoromantici e romantici, non erano ancora dei veri e propri romanzi. Sterne, Goethe, Scott… tutti costoro hanno scritto delle meravigliose opere in prosa, ma non erano ancora arrivati alla rivoluzione copernicana del romanzo. Il realismo del romanzo moderno ha rappresentato un turning point così radicale che tutti i realismi precedenti ci appaiono… meno realistici. Non si trattava più d’imitare la realtà nelle sue apparenze, ma di rispecchiarne la struttura profonda, la struttura irredimibilmente caotica e ambigua: di organizzare le cose in modo tale che risultassero disperatamente disorganizzate.
La mentalità religiosa italiana ha faticato non poco ad accettare la bella doccia fredda del romanzo. L’idea di un reale non teleologico non attecchisce in noi. Noi pensiamo sempre che “Dio provvede”, anche quando non crediamo in Dio. Lo facciamo a volte per una radicata superstizione, o per pigrizia m0rale, per non assumerci l’intera responsabilità delle cose che facciamo. E quali riflessi ha tutto ciò nel romanzo?
La risposta è nel romanzo italiano per eccellenza: I promessi sposi di Alessandro Manzoni. Manzoni si propone di scrivere un “romanzo realista”; ma poi, sottomettendo ogni dettaglio dell’opera alla dimostrazione dell’esistenza di un disegno provvidenziale superiore, distrugge con le sue stesse mani il realismo da lui teorizzato. Prendiamo i personaggi: i personaggi di Manzoni sono personaggi da teatro, paradigmatici: si può dire Don Abbondio, o della vigliaccheria; l’Innominato, o della redenzione; Lucia, o della virtù… Solo Renzo sembra meravigliosamente scappato al controllo dell’autore. Che nel finale, infatti, tenta di sottometterlo ai suoi intenti pedagogici, senza però riuscirci perché Renzo è un bambino capriccioso, un Pinocchio che non vuole diventare mai ragazzo.
Di solito, fra la concezione e l’esecuzione d’un romanzo passa un filo d’aria. C’è sempre qualcosa che sfugge al controllo dell’autore, per minuziosa che sia stata la preparazione. Quei fili d’aria, quelle sconnessure sono la vera ricchezza del racconto, la sua folgorante ambiguità, la sua polisemia. Soldati diceva che il vero artista ricerca d’esser chiaro, ma il velo dell’ambiguità gli sfugge comunque dalle mani – ed è così che si crea l’opera d’arte. Manzoni organizza tutto il suo romanzo secondo un disegno simbolico: il castello dell’Innominato è un inferno; la notte di Renzo all’Adda è un cammino dell’anima… E quando ormai ci stavamo preoccupando, quando il romanzo stava arrivando agli accordi finali senza che Manzoni avesse perso per un attimo il controllo, senza che il velo dell’ambiguità gli fosse mai scappato dalle mani, ecco checi accorgiamo che a Manzoni è sfuggito di mano addirittura Renzo, e che per merito di Renzo I promessi sposi sono un’opera di poesia e non un sermone. E’ chiaro, sto semplificando: la meravigliosa poesia del Manzoni non risiede soltanto in Renzo – Renzo è solo la spia più evidente che l’operazione manzoniana non è tutta tetragona e dimostrativa, ma ha la bella e calda indeterminatezza di una vera opera d’arte.
Proviamo a prendere un romanzo italiano di un secolo dopo: Porte aperte di Leonardo Sciascia. E consideriamone:
-il lessico e la sintassi legali, giudiziali;
-l’accumulo di prove, fatti, digressioni letterarie, storiche e fantastiche: come un accumulo di materie prime, di detriti che lentamente formano una banchina;
-l’astrattezza: i dialoghi sono condotti in tono formale, sono ellittici, non introdotti né intercalati da alcuna descrizione dei personaggi che vi partecipano e degli ambienti in cui avvengono;
-il cielo sempre basso: mai un’impennata espressiva, uno slancio; anche i passi sul novembre a Palermo hanno un’asciutta poesia proprio perché dati senza lirismo, con la vigorosa desolazione propria dell’autore.
Tutto ciò fa la sensazione di morte, d’immobilità della pagina sciasciana, il suo ellenismo concettoso e impassibile ch’è sublime metafora della Sicilia e della sua storia. La mancanza di volto dei personaggi li rende già statue, erose dal soffiare dello scirocco. Qualche volta l’autore scopre troppo -in parole metafore ecc.- le proprie intenzioni simboliche, fa qualche errore di calcolo dei “tempi”, s’avviluppa in qualche discorso troppo capzioso. Nel fascino dello stile, e nell’incapacità di essere pienamente un narratore, di godere della propria narrativa, sentiamo in Sciascia l’estimatore di Savinio.
Cosa ne ricaviamo? Che forse la nostra cultura non è una cultura da romanzo; che, sebbene siamo un popolo d’affabulatori, non abbiamo la disperata purezza dei veri romanzieri. Che solo alcuni, pochi borderline della nostra cultura sono stati dei narratori puri -Verga, il primo Moravia… Noi italiani vogliamo sempre aver ragione, dimostrare la nostra tesi, e il nostro humus culturale è troppo intriso di Provvidenza e di egocentrismo (spesso fusi insieme in un divertente delirio d’onnipotenza) per poter accettare l’idea di un racconto che non porta a niente, che non è fatto di nulla se non del ritmo stesso del vivere. Perché l’altra scoperta del romanzo, la scoperta nata dalla sconfitta del romanzo, è che non si può imitare la materia del vivere, ma solo il suo ritmo, la sua forma. L’opera d’arte è come l’amore e l’amicizia: non rispecchia il mondo così com’è, ne istituisce uno nuovo. E l’operazione romanzesca, potentissima per un po’, poi s’è esaurita. E’ come se tutti i musicisti avessero tentato di trasformare tutta la musica in onomatopea, come se il canto d’uccelli della beethoveniana Pastorale fosse diventato la ragion d’essere di tutta la sinfonia. E’ come in quelle corrispondenze di guerra dove più si parla della guerra in corso e meno se ne capisce. L’aderenza al reale finisce coll’essere l’anticamera dell’inconoscibilità del reale.
Caro Giorgio Galli,
che confusioone ci abita! Lavoriamo in un labirinto coperto e chiuso. Capire un’epoca che si cerca non e’ cosa facile. Consiglio a tutti gli intellettuali insoddisfatti il duro lavoro dei campi…il nostro pianeta non ammette epigoni.
Ci sono molte cosa da dire, troppe su questo tema. Vado alla rinfusa: il tempo di lettura si è ridotto, la produzione narrativa si è decuplicata e così il numero degli aventi diritto a scrivere, i canali di informazione letteraria frammentati. La cultura e il linguaggio stesso si sono uniformati a specifici diversi; la babele biblica è oggi anche tra persone che parlano la stessa lingua e appartengono allo stesso ceto sociale che si occupino di aspetti diversi del vivere. La descrizione della realtà non riguarda ( e secondo me non deve riguardare più) le nevrosi dell’occidentale ormai ripiegato su una contemplazione nostalgica di un passato glorioso, ma quelle del mondo a noi sconosciuto dei mondi emergenti. La nostra è un’ epoca di disorientamento. Ecco alcune spontanee idee. E mi fermo perchè il tempo di leggermi è terminato.
Caro Andrea Ruffolo,
condivido la sua osservazione sulla babele linguistica. Avevo sviluppato un pensiero simile in un mio articolo sul neodialetto di Camilleri (http://gcgalli.wordpress.com/2012/06/24/sirena-domestica-maruzza-musumeci-di-camilleri/)
In quell’articolo scrivevo che il mondo, e la conoscenza di esso, si presentano oggi frantumati, iperspecializzati, una somma d’autismi, e che non è più possibile a nessuno scrittore –e tout court a nessuno- abbracciare il proprio universo di riferimento con un unico sguardo onnicomprensivo. Quando era possibile ragionare in universali, tutti scrivevano in lingua –anche chi usava il dialetto. Oggi chiunque scriva, scrive in dialetto –anche se usa la lingua. Ed osservavo che il dialetto di Camilleri è un dialetto inventato, comprensibile forse a tutti ma non parlabile da nessuno: insomma, che dallo scrivere in dialetto, si è passati direttamente allo scrivere nell’idioletto.
Credo che questa frantumazione cognitiva abbia un ruolo essenziale nel senso di spaesamento che domina l’ultima generazione di scrittori, perché la babele non solo linguistica, ma cognitiva erode uno dei pilastri del fare arte: la possibilità di condividere, di pensare e comunicare in universali.
C’è poi un altro elemento. Oggi, si dice che le parole non hanno più spazio. E’ un ritornello che ormai, a ripeterlo, paga. Non è così. E’ una bugia. Di parole ce ne sono fin troppe. Siamo sommersi di parole, inondati da parole che spesso non significano niente. La gente non è più disposta ad abbandonarsi alle parole. Perfino i poeti sono più smaliziati, non hanno più quella fiducia assoluta nel proprio mezzo d’espressione. E la sfida di ogni poesia, ch’è dire con la parola ciò che la parola non sa dire, ch’è fare della parola una cosa mentre la parola, per sua natura, può solo girare attorno alle cose, quella sfida diventa difficilissima perché è difficilissimo lanciare una sfida se nel frattempo ci si crede a metà.
In un articolo apparso su questo blog la scorsa settimana, si evidenziava lo scarso senso di appartenenza, il “monadismo” degli scrittori dell’ultima generazione. Chi sa che quel “monadismo” non sia dovuto anche a tutto questo.
Le mie, naturalmente, sono tesi molto personali. Non voglio certo approfittare di questa bacheca per creare un dibattito, ma è chiaro che un articolo come il mio non è scritto per “aver ragione”, ma per lanciare dei segnali che chiedono di essere raccolti: come dei messaggi in bottiglia. La ringrazio perciò di aver raccolto il mio messaggio in bottiglia.
PS: come vede, anch’io nel risponderle scrivo un po’ a ruota libera e mi auguro di essere stato chiaro.
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