Rita Montanari, “Caro fratello, cara sorella”

Nello scaffale
a cura di Luigia Sorrentino

“Caro fratello, cara sorella”. Un libro delicato. Una tenerezza complice nasconde un segreto svelato solo in fondo al libro, nella lettera piena di rabbia che Rita scrive al fratello morto suicida.

Dal lontano 14 marzo 1974 non ho mai smesso neanche un giorno di interrogarmi sulle ragioni della scelta di mio fratello, così come i nostri genitori, fino all’ultimo respiro, si sono arrovellati nella disperazione senza risposte.
L’occasione di scrivere quella che sarebbe diventata l’ultima lettera coincise con un concorso – per una lettera, appunto – bandito da l’Espresso nel 1986. Scrissi e inviai. Di lì a qualche mese mi telefonò Saverio Tutini, creatore del Fondo Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano (AR), chiedendomi se avessi custodito anche le lettere scambiate tra noi e mi invitò ad inviarle al Premio Pieve. Arrivai finalista nell’89 e Archinto pubblicò il nostro carteggio. Natalìa Ginzburg e Saverio Tutino vennero a presentarlo a Ferrara, poi fui ospite del Maurizio Costanzo Show. Nel 2006 il testo ormai esaurito fu rieditato da Terre di Mezzo di Milano. Perché? Ho voluto restituire la sua immagine a chi l’aveva amato e ancora lo ama nel ricordo struggente, senza rimedio.

Rita Montanari

Ferrara, ottobre 1986

Mio caro fratello dissennato,
se per una qualunque inverosimile ragione tu aprissi questa lettera, non so cosa pagherei per avere una risposta; ma bada bene, se la cominci, di leggerla fino in fondo come da piccola mi insegnavi tu, a lasciar parlare le persone senza interrompere, e a rispondere solo quando gli altri hanno finito.
Sono passati più di dieci anni dall’ultima lettera che ti ho scritto e non ho mai concluso, non ricordo più perché. Fino a quel momento avevamo tenuto una corrispondenza strana ed irregolare: cominciava chi ne aveva voglia, a caso, senza nessuna particolare ragione, e l’altro rispondeva quando aveva tempo e umore, ma rispondeva sempre, perché l’indifferenza da noi non era di casa.
Così poteva accadere che ci scrivessimo a stretto giro di posta o che passassero lunghi periodi di silenzio in religioso rispetto del malumore dell’altro; anche se – a dire il vero – erano più frequenti i tuoi dei miei. Ti eri trasferito da qualche tempo a Milano per ragioni di lavoro, e tornavi a casa ogni tanto, sempre più di rado. Io ti scrivevo la vita della nostra nicchia di provincia dove, quando esci, ti par di passare da una stanza all’altra di casa tua e, per quanto giri, ti ritrovi sempre da dove sei partito: un’angusta e immobile città sottovetro, che tanti come te avevano lasciato per cercare un lavoro. Ti raccontavo degli amici che erano rimasti, dei nostri vecchi, dei miei esami, e anche i dubbi e gli interrogativi dei miei vent’anni. Quando stavo a lungo senza scrivere, mi telefonavi sollecitando il bollettino – così lo chiamavi – perché ti sentivi figlio di nessuno a non sapere niente di niente e avevi voglia di aria di casa. A me piaceva un mondo scriverti, soprattutto dopo cena, prima di mettermi a studiare, o a notte fonda, quando smettevo, perché avevo per un attimo l’impressione di evocarti lì. Erano quelli i momenti in cui ci mettevamo seduti in poltrona a chiacchierare o ad ascoltare la musica, ma da quando eri partito mi calava addosso, la sera, una tristezza greve, mai conosciuta prima. Mi aggiravo intorpidita in quella casa lunga e fredda, ciondolando dalla poltrona al tavolo con un libro in mano e con l’orecchio sempre teso ad aspettare qualcuno. Era capitata la stessa cosa a te, molti anni prima, quando se n’era andato il maggiore di noi tre, che aveva portato con sé anche il pianoforte, e i muri erano diventati all’improvviso freddi e opachi, e la stanza rimbombava di vuoto. Quella volta era toccato a te di sentirti defraudato: finito il vostro sodalizio, il “vecchio” aveva preso la sua strada e a te non restava che voltarti dalla mia parte. Fu così che cominciasti a prendermi in considerazione e quel momento segnò per me un vero salto di carriera. Solo ora che ero rimasta da sola con i vecchi riuscivo a decifrare il senso di abbandono che dovevi avere provato a tua volta, ma la mia mi pareva un’ingiustizia ancora più grave: io non avevo altri dopo di me a cui volgermi, e in quel silenzio che mi sembrava assordante mi ritrovavo a misurarmi con le vostre ombre e a ricalcare una mia fisionomia nel vuoto costellato dalle vostre tracce.
Ne parlavo a volte con nostra madre che, con la saggezza sua solita, mi ammoniva ad assecondare il corso delle cose: lei lo sapeva bene fin da quando ci aveva messi al mondo che l’affetto non dà a nessuno il diritto di impicciare gli altri nelle loro scelte e neanche di tediarli con inutili ricordi e malinconie; prima o poi me ne sarei andata anch’io per mio conto e avrei capito che era giusto così. Anzi, era meglio che cominciassi a seminarmela da sola, la mia strada, a misurarmela con il mio metro; mi ero già specchiata abbastanza nelle vostre immagini ed era ora di dare risalto alla mia. E poi dovevo smetterla di emularvi, eravate tutti e due pieni di difetti che, a dirli tutti, non bastava un libro e lo poteva ben dire lei che ci aveva allevati: bravi in tutto, ma risoluti di carattere e anche ostinati. Io non era stata brillante come voi a scuola, ma me l’ero sempre cavata con dignità e adesso studiavo e lavoravo, e sapevo fare una quantità di cose; e poi ero anche più ragionevole e buona di cuore. Non avevo niente da invidiare a voi, salvo il fatto che eravate sistemati, ma se non perdevo tempo in quei noiosi piagnistei, mi sarei laureata anch’io e nel giro di pochi anni avrei cominciato ad insegnare.
Chiudeva il discorso ogni volta così, sentenziando quella profezia, che da un lato aveva l’effetto di scuotermi dal torpore, dall’altro finiva per irritarmi rimarcando a voce alta tutta la mia dipendenza. Ancora mi infastidiva in lei quella serena e lucida capacità di trovare sempre un giusto senso nelle cose e di accomodarvisi senza drammi, come se nulla mai le piombasse addosso all’improvviso, ma ogni cosa si potesse prevedere con l’intelligenza e arginare con la buona volontà. Parlava con quel suo modo ruvido e fulmineo di andar diritto dentro al nocciolo delle cose e dipanare le ragnatele delle nostre difese: una coscienza scomoda e inesorabile, che non indulgeva a lasciarci barare.

In quei momenti, più che mai, sentivo il rammarico di non assomigliarti, giacché – almeno così mi sembrava – tu non permettevi a nessuno di andare oltre le tue parole, e quando anche uno dei vecchi si intestardiva a farlo, ti sigillavi in un silenzio superbo che non ammetteva repliche. Li lasciavi parlare per non essere irriverente, ma li fissavi con uno sguardo accigliato e distante: eri sempre sicuro di avere su di te più diritti di chiunque altro e bastavi a te stesso senza sentire mai il bisogno di compiacere nessuno; per me invece era vitale guadagnarmi il consenso altrui, o almeno provarci, anche a costo di lasciarmi frugare nelle pieghe della coscienza.

Spesso ti scrivevo in quei momenti di dissidio, perché di te non avevo soggezione. Eri stato per me un modello in tutti i sensi, ma discreto e modesto, e sempre schivo di qualsiasi gratificazione; con te avevo preso gusto a leggere, a pensare e a studiare, ma quando te lo riconoscevo, mi firmavi con un brusco gesto della mano e trovavi sempre tutto naturale.
Passavi ogni sera lunghe ore con un tuo amico a preparare gli esami; prendevamo insieme il caffè e poi ognuno si ritirava e facevamo a gara a chi si stancava per ultimo. Ogni tanto si interrompeva un attimo per concederci il lusso di qualche sogno: una fuga in montagna, un corso di roccia, un giro dei rifugi. Avevamo sempre pochi denari e ci servivano per i libri e gli studi; ma tu eri molto bravo, ottenevi sempre l’esonero dalle tasse e non mancavi mai nessuna borsa di studio o sussidio di altro genere. Anche io mi arrangiavo come potevo, dando ripetizioni e lavorando nelle colonie estive o nella raccolta della frutta; mi mantenevo i viaggi a Bologna e tutto il necessario, e dove non arrivavo, contribuivi tu. Le nostre vacanze erano sempre brevi di necessità, ma per me erano il massimo di quanto potessi sperare e conservo annodato a quegli anni il divertimento che non ho più conosciuto in seguito.
Una sera mi dicesti che ti mancava un esame, stavi ultimando la tesi in istituto e contavi di laurearti a giugno. Ero felice per te, che avevi superato ogni aspettativa: una laurea in chimica, alla prima sessione del quint’anno, con la certezza della lode. Con i tuoi amici passai una notte intera a farti il cartellone, ma di tutti i difetti che diceva nostra madre non te ne trovavo neanche uno e mi riusciva difficile metterti in ridicolo. I vecchi fecero una gran festa e tirarono un sospiro di sollievo perché erano arrivati ai due terzi delle loro fatiche: mancavo solo io e poi avrebbero finalmente pensato alla loro vecchiaia. Erano orgogliosi di te e te lo ripetevano, ma tu li fermavi al solito modo, rispondendo semplicemente che ti eri dato da fare, com’era normale in casa nostra.
Avevi sempre un fare modesto e dimesso, e scolpivi parole secche senza eco; eri sobrio anche esteriormente e non chiedevi mai nulla per te, essendo piuttosto propenso a regalare agli altri. Era praticamente impossibile offrirti anche solo un caffè o una sigaretta: eri fulmineo nel pagare per primo e non facevi mai un gesto aspettandotene un altro. Eri solito dire che i signori non sono mai ricchi, dovendo attribuire al denaro quel poco conto che merita; perciò ti infastidivano molto gli avari e quelli che fanno calcolo della generosità altrui. E tuttavia non inveivi mai direttamente, disdegnando le bassezze degli esseri umani, ma con un ghigno sottile o una smorfia lasciavi intendere che non era colpa loro se erano pidocchi, e ringraziavi la sorte di essere nato in una famiglia modesta che non aveva fatto mito né del troppo, né del poco. Raramente davi soddisfazione ai vecchi di come ti avevano cresciuto, ma eri loro grato tuo malgrado con segni minuti e distratti; tuttavia non amavi averne riscontro perché – dicevi – le cose capite non vanno ripetute come fanno i pappagalli.
Avevi, con la vita e con le cose che facevi, un rapporto serio e sempre volto ad ottenere il meglio, che si rivestiva all’improvviso di pungente autoironia quando non riuscivi come avresti voluto; ma non c’era mai verso di sapere che cosa ti deludesse ogni volta. Non usavi lamentarti di nulla, né chiedere aiuto in alcuna occasione, perché non era lecito – dicevi – riversare il proprio fardello in quello degli altri, e ognuno ne aveva abbastanza di portarti il proprio. Solo qualche volta, quando eri allegro di umore, incolpavi i vecchi con accenti scherzosi di avertelo accollato loro, quel tuo fardello, senza neanche chiederti il permesso; e ti pareva un sopruso ingiustificato mettere al mondo un qualunque esemplare senza sapere se è d’accordo. Nostro padre ti fissava allora con occhi freddi e spauriti; poi, ripiegando sul tuo stesso tono scherzoso, esclamava che senza dubbio eri intelligente e laureato, ma quando facevi certi discorsi gli sembravi solo un babbeo.

L’estate del tuo congedo ti vidi un giorno arrivare in colonia. Era la prima volta che mi venivi a trovare e non avevamo mai trascorso una giornata insieme. Andammo a mangiare all’aperto. Volevi sapere come stavo, quali progetti avevo per il mio ritorno, se pensavo di dare esami e quanti me ne mancavano. Non ti avevo scritto perché molto impegnata: lavoravo come notturna e perciò di giorno dormivo e di notte mi era possibile studiare mentre sorvegliavo i bambini; avevo dato così due esami a luglio e stavo ripetendo il terzo; era a pari con la tabella di marcia, ma mi dovevo ancora iscrivere al quarto anno e non sapevo proprio quando mi sarei laureata. Indugiavi ostinatamente a chiedermi dei particolari che non ero nemmeno in grado di fornirti, perché, non frequentando la Facoltà, disponevo solo d’informazioni generiche raccolte in treno o nei corridoi, in occasione degli esami. Non mi lasciavi spazio per chiederti di te. Ad un tratto, bruscamente, dicesti che ti avevano proposto di lavorare in Università nell’istituto in cui avevi fatto l’internato, ma l’idea non ti allettava. Avevi anche sostenuto diversi colloqui di lavoro fuori città e stavi vagliando le varie prospettive; avevi inoltre trovato casa a Milano, perché quella era la zona giusta per il genere di lavoro che ti interessava; avevi appena fatto le pubblicazioni e in ottobre ti saresti sposato. Ormai non avevo più bisogno del tuo aiuto per finire gli studi e anzi, non avendo altri a cui pensare, potevo dare una mano in casa e alleggerire i vecchi in quell’ultima corsa. Parlavi con l’aria di chi ha già deciso tutto e sta solo facendo ad alta voce il bilancio della situazione. Mi passavi la staffetta e adesso toccava a me. Brindai alla tua salute trangugiando quella sfilza di novità affastellate in poche battute e domandandomi in cuor mio quale furia improvvisa ti avesse preso di fare tutto così di corsa; ma poiché non erano affari miei, mi guardai bene dal fare domande o commenti, e del resto il tuo tono non ne richiedeva. Confessai onestamente di non essere pronta a questo nuovo assetto, ma avrei fatto del mio meglio per abituarmi. Ti infastidiva quando giocavo a fare la parte lesa, perché non sapevi consolare né rincuorare, ed eri solito dire che la forza, se ci si crede, viene sempre a galla in ragione delle necessità.

Comincia così a venire periodicamente a casa vostra, trattenendomi per qualche giorno nelle pause tra un esame e l’altro. Aspettavo sempre che fossi tu ad invitarmi, temendo di essere invadente o inopportuna, ma quando ricevevo la tua telefonata, non riuscivo a contenere la gioia. Organizzavi sempre una quantità di cose; radunavi i vecchi amici trasferiti lì da tempo e mi raccontavate i vostri giri in montagna; oppure mi conducevi per la città che non conoscevo, mostrandomi i locali, le piazze e le vie di cui avevo solo sentito parlare; andavamo a la Scala o al Palasport, o a Monza, o a Lugano, e avevi da propormi tante possibilità, che ne restavo confusa e imbarazzata e finivo per fare scegliere a voi. A volte ringraziavo il cielo che piovesse, per restare in casa seduti in poltrona come ai vecchi tempi; ma mi pareva che non ci riuscisse più naturale come allora; scricchiolavano i raccordi tra il dentro e il fuori, e scadevamo spesso nelle minuterie quotidiane e nella banalità concreta delle cose da fare. Parlavi poco volentieri del tuo lavoro, specie negli ultimi tempi, e rispondevi distrattamente alle mie domande precise: non escludevi di cercarne un altro, ma era sempre tutto da vedere. Non so dirti ora se mi sembravi contento, perché non era facile per me decifrare i tuoi gesti; ma di certi eri sempre eccitato e mi apparivi preoccupato più di mostrarti in forma, che di esserlo realmente. Talora ti canzonavo di essere diventato superficiale, perché ora guadagnavi bene e potevi soddisfare ogni desiderio senza troppo attendere; ti eri circondato di cose belle, ti vestivi con eleganza, non fumavi più le Nazionali e concepivi viaggi e progetti di nuova portata. Mi rispondevi lapidario che faceva tutto parte del gioco, e per vivere e lavorare in quella città era d’obbligo l’abito di rappresentanza. Non mi riuscì mai di sfondare la maschera dietro quell’abito. Ritornavo a casa ogni volta più stanca di quando ero partita e quasi ubriacata dalla girandola fantasmagorica di tutte quelle luci; ma alle domande premurose dei vecchi, che volevano sapere di te, mi riusciva difficile rispondere chiaramente delineandoti fuori da tutto quel bagliore, e avevo sempre la sensazione di un’occasione mancata.

Un sabato sera entrasti in casa all’improvviso, da solo, dicendo di voler comprare non so quale vino di Bosco. Se volevo venire con te, potevamo fare un giro sul Delta e stare un po’ insieme. Era la fine di gennaio, stavo battendo a macchina la tesi di laurea e avevo i giorni contati per presentarla. Ti dissi di no senza rammarico, presa com’ero dalle mie scadenze; mi sentivo anche molto tesa, avendo lavorato parecchio negli ultimi tempi, e di certo non mi sarei rilassata. Restammo insieme poche ore, sulle vecchie poltrone, senza musica, parlando quasi niente di noi: volevi conoscere i dettagli della tesi, che cosa venivo a dimostrare, quanti punti che contavo di prendere. Ne volevi una copia per te, perché riguardava la storia recente della nostra città; conservo ancora la copertina che feci stampare in sovrappiù. Come eri solito fare, indugiavi a parlare di me per evitare domande su di te; ma quella volta non me n’ero accorta e non potevo sapere che avrei passato tutti i miei anni a venire domandandomi a vuoto cosa mai avremmo potuto dirci di vero quella sera in poltrona, o il giorno dopo sul Delta. L’ultima volta ci incontrammo a Bologna il giorno della mia laurea. Ci eravamo sentiti al telefono la sera precedente: mi invitavi per il fine settimana a festeggiare con voi a Milano; l’indomani facevi solo una corsa in treno e rientravi immediatamente, perché avevi da fare. Quando ti vidi entrare nel corridoio della Facoltà, ti abbracciai ringraziandoti di avermi riservato quella premura, ma apparivi molto angustiato di perdere il treno e le tue parole erano secche e rare. Soltanto ai vecchi sorridesti, accordando loro la soddisfazione di quel lungo tragitto in tre tappe: erano giunti al capolinea e potevano finalmente proseguire da soli. Poi, rivolto a me, con gli occhi fissi in buio che io non vedevo, dicesti duramente di non farmi illusioni: non avevo finito niente, dovevo ancora cominciare le “grane” dure, quelle senza scadenze, quelle che non si chiudono mai con dei numeri in più, ma ne tolgono inesorabilmente. Non ci siamo parlati più.
Quando scesi alla stazione la sera stabilità di quel fine settimana, correvo leggera verso la prima vacanza della mia vita: sentivo un insolito desiderio di svagarmi e di girare, allettato anche dal nuovo tepore delle prime giornate più lunghe. Mi pareva di nascere ad una dimensione sconosciuta: scrollata di dosso la fatica, volavo sull’arroganza della mia ingenuità ignara e sprovveduta. Mentre mi aggiravo attorno al solito punto d’incontro, cercandoti nel tuo impermeabile chiaro, mi sentii chiamare dalla Polizia ferroviaria per una comunicazione urgente: non ti aspettassi all’appuntamento, ma venissi direttamente a casa tua.
Fu un lampo. Sul tram che mi avvicinava metro dopo metro alla verità, mi sentii d’un tratto piombare il cuore e capii quanto era successo. Come in una foto in bianco e nero, rividi per un attimo quel tuo sguardo nel buio ed ebbi la sensazione sgomenta di averlo saputo da sempre. Il resto non fu che una conferma. Avevi scelto una morte perfetta e calcolata, tu che non lasciavi mai niente a metà e non accettavi l’imprecisione razionale. Chissà quali fiori calpestavi nel tuo lento intorpidirti dietro la coscienza; quali azzurri orizzonti sfumavi oltre il tuo silenzio ostinato; quale segreto soffrire ti risucchiò l’ultima goccia di linfa; quale fu la scena di questo spettacolo che ti fece alzare e restituire il biglietto. Non smetteremo mai di chiedercelo. Se tu fossi ancora vivo, non saresti così invadente nel nostro cuore e nella nostra vita come lo sei stato in questi dieci anni; anche se viviamo il nostro quotidiano faticoso fardello, ci martelli il sangue e ci rimarchi tutta la coscienza della nostra inutilità ad esserti vissuti accanto. I vecchi che proseguono anche oltre il tuo capolinea, schiacciati dalla tua decisione inappellabile, portano negli occhi e nei sorrisi spenti una cicatrice per ogni tua parola non detta. E ogni volta che li guardo, non posso non condannare il tuo feroce egoismo. E anche se rispetto la tua ultima parola come pretendevi tu quando ero piccola, oggi che ho molti più anni di te quando hai scelto la morte, posso dirti senza retorica che è molto più eroico scegliere la vita, con le sue violenze sottili che s’insinuano nella nostra linfa, stillandola goccia a goccia, fino ad avvelenarla.
E forse la coscienza altro non è che la dignità di contarle, una per una, fino all’ultima.
Un abbraccio a vuoto da non rendere.

Daniele Montanari (1945-1974) nasce a Ferrara, dove vive fino alla laurea in chimica. Dopo la leva si sposa e si trasferisce a Milano, lavora per una grande industria farmaceutica.

Rita Montanari (1951) laureata in Lettere, insegna in un liceo scientifico di Ferrara e tiene corsi di scrittura creativa. Ha pubblicato poesie e favole per bambini in diverse raccolte e testi scolastici.
Rita

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