Inger Christensen, “Scale d’acqua”

Nello scaffale, Inger Christensen
a cura di Luigia Sorrentino

 
Le fontane di Roma. In danese

Venticinque anni dopo l’unica traduzione, riecco Inger Christensen, compianta autrice innamorata della matematica ma sensibile ai grandi del Romanticismo

di Roberto Galaverni

Nella cultura poetica di un Paese in cui si traduce tanto e spesso bene come l’Italia, credo che l’assenza più sorprendente sia quella di Inger Christensen (1935-2009), la poetessa danese che gode invece della massima considerazione in Paesi come la Gran Bretagna, la Germania o gli Stati Uniti. Fino ad oggi era uscito soltanto, 25 anni fa, il suo libro più importante, Alfabeto (edito da Giardini), un grande poema cosmico e creaturale costruito dalla successione numerica di Fibonacci, che tuttavia, difficile dire per quali ragioni, non è stato recepito in profondità dalla nostra poesia. Dopo tanti anni viene pubblicato ora un suo secondo libro, Scale d’acqua (Kolibris Edizioni), che se non è tra le opere più celebrate della Christensen, può valere tuttavia come un ottimo viatico per avvicinarsi alla sua poesia, in attesa – l’auspicio è senz’altro questo – di vedere ripubblicato Alfabeto o finalmente tradotta qualcun’altra delle sue raccolte maggiori. Chissà, forse adesso dovremmo essere pronti.

Scritto e ambientato a Roma, dove la Christensen soggiornò per alcuni mesi nel 1969, Scale d’acqua ha come oggetto principale cinque fontane della città, ma anche la situazione particolare in cui sono immerse, e poi via via, come per una progressiva irradiazione pulviscolare, l’atmosfera, il cosmo che le circonda e in cui rientra, come parte di uno stesso tutto, il poeta-osservatore. Può essere letto come un poemetto in otto stazioni divise a loro volta in cinque parti (ma non la sette e la otto, di una parte soltanto) che riguardano ciascuna una diversa fontana. Ogni singolo componimento è poi rigorosamente scandito su cinque periodi-verso dedicati rispettivamente alla storia e alla conformazione della singola fontana, al contesto in cui è collocata (o alla scrittura, alla situazione di chi osserva e parla in prima persona, all’apparizione (dissacrante? numinosa?) di una Jaguar rossa, agli elementi della natura, acqua e luce anzitutto. Non sorprenda la sistematicità, o meglio ancora la periodicità della costruzione: in ogni libro della Christensen proprio la struttura della composizione è infatti la prima condizione espressiva, la componente fondamentale, voglio dire, dello stile.
Ecco allora che in Scale d’acqua il trionfo dell’elemento fluido, il senso irreparabile dell’attimo, la condizione reversibile tra dispersione e continuità, tra previsione e accidente, passa attraverso una specie di esasperazione della regolarità, fino al fuori giri e al conseguente scombinamento finale di qualsiasi ordine e gerarchia preventivabile. Lo sguardo analitico e distintivo approda progressivamente a una correlazione totale, a un autentico full contact di tutti gli elementi, uomo incluso. «Comunico, comunico, comunico, comunico», viene ripetuto infinite volte nel corso del libro. Attenzione e abbandono, costrizione e liberazione, controllo ed euforia fanno tutt’uno, mentre la scrittura poetica viene rivolta al riconoscimento di una possibile sutura tra l’io e il mondo: «Mentre la scrittura liquida delle lettere viene bevuta e ha l’effetto del vino bianco».

Denotazione, fenomenologia, precisione, grammatica combinatoria: a tutta prima potrebbero scambiarsi persino per un esercizio di stile alla Queneau. E invece questa poesia sfocia nell’esatto opposto, un piccolo poema di tutte le cose. «Comunico che il sole e l’acqua e la vernice e la luce splendono e cadono e scrosciano e vengono riflessi». Questa lingua vigilantissima è percorsa da una specie di esaltazione elettrica, che finisce di fatto per annullare un discrimine netto tra misura e fluidità espressiva. Appassionata di matematica, la Christensen ha però guardato più di tutto ai grandi autori del Romanticismo tedesco, a cui ha anche dedicato saggi eccellenti. Come ogni sperimentalismo che si rispetti, la sua poesia non è mai soltanto un gioco, ma è legata a doppio filo all’efficacia del dire, alla coscienza, alla realtà della visione.

Roberto Galaverni sul supplemento La lettura del «Corriere della Sera», domenica 3 febbraio 2013.
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Nel 1969 la scrittrice danese Inger Christensen (1935-2009) abitò per quattro mesi a Roma, dove scrisse la maggior parte del suo capolavoro poetico, ciò, ma come piccola epistola di viaggio compose anche il testo Scale d’acqua. Un testo euforico e oltremodo cool che rappresenta a un tempo un istante felliniano nella letteratura nordica moderna e un esempio della poesia cosmica e inconfondibilmente moderna che anno dopo anno portò Inger Christensen nella lista dei possibili candidati al premio Nobel per la letteratura.
Della genesi di Scale d’acqua Inger Christensen racconta che in una libreria si imbatté nel volume Le fontane di Roma di Beata Di Gaddo (1964), che scandì il suo percorso verso le fontane della città e le piazze e i caffè che si trovano nelle loro vicinanze. Cinque fontane, e in tal modo cinque luoghi caratteristici, compaiono (in ordine cronologico secondo il loro approssimativo anno di costruzione) nelle otto suite del componimento, strutturate sulla ripetizione, in una modalità così tipica di Inger Christensen: la fontana di piazza Nicosia, di Giacomo della Porta, la fontana di piazza Colonna, di Rosso dei Rosso, quella che probabilmente è anch’essa di Giacomo della Porta a piazza Campitelli, quella che sicuramente è sua, in via del Progresso, alle quali si aggiungono le due fontane di Girolamo Rainaldi a piazza Farnese.
Le scene, ovvero le location, della poesia hanno caratteristiche cinematografiche: l’Io lirico siede a dei tavolini da caffè a piazza Nicosia e a piazza Colonna, beve caffè, studia il menu, accende una sigaretta, o aspetta che sia il momento di accenderne una. È cool, osserva, tutt’uno con l’assenza di tempo di Roma.
Nelle altre piazze sta in piedi accanto agli edifici ai lati della piazza, o passeggia un po’ in giro, ma dovunque si trovi osserva o ascolta almeno (il traffico è intenso) l’acqua che scroscia dalle bocche dei delfini o delle maschere delle fontane di marmo. Fa caldo e l’acqua riflette la luce del sole. Le fontane non si muovono, l’Io non si muove (non molto), ma la modernità romana del 1969 affiora comunque costante in forma di una Jaguar rossa che, del tutto immotivatamente, (e anche per questo in modo decisamente felliniano) appare e riparte in tutte le cinque diverse scene. La Jaguar rossa scintillante e potente – un sibolo del ritmo, della tensione e naturalmente del desiderio erotico della modernità. Nel bel mezzo dell’assenza di tempo.
dalla postfazione di Elisabeth Friis, in Inger Christensen, Scale d’acqua, Kolibris 2013

Inger Christensen è nata a Vejle, in Danimarca, nel 1935. Sposata dal 1959 con lo scrittore e critico Poul Borum (1934-1996), debuttò nel 1962 con la raccolta di poesie Lys, che già accennava i temi centrali della sua produzione: la lingua, il mondo e il loro rapporto. Dopo la successiva raccolta, Græs, uscita nel 1963, si dedicò per qualche tempo alla prosa pubblicando i due romanzi Evighedsmaskinen, nel 1964, e Azorno, nel 1967, cui fece seguito nel 1976 la sua più nota opera in prosa, il romanzo Det malede værelse, ambientato a Mantova nel Rinascimento. Ma la sua notorietà a livello internazionale è legata all’attività poetica, sebbene non eccessivamente prolifica, e soprattutto alle sue fondamentali raccolte det (1969), Brev i april (1979) e alfabet (1981), che hanno fatto di lei un personaggio di spicco nella poesia europea del secondo Novecento. Di grande importanza sono anche i versi di Sommerfugledalen, una ‘corona di sonetti’ pubblicata nel 1991. Tradotta in molte lingue, Inger Christensen è membro dell’Accademia Danese dal 1978, ed è stata insignita di numerosi premi letterari internazionali, dal Premio Nordico dell’Accademia Svedese, considerato un piccolo Nobel, ricevuto nel 1994, allo Österreichischer Staatspreis für Literatur, che le è stato assegnato nello stesso anno, al Grand Prix des Biennales Internationales de Poesie, del 1995.

Inger Christensen
Scale d’acqua
Traduzione di Bruno Berni
Postfazione di Elisabeth Friis
Foto di Sara Berni
Kolibris Edizioni
Pagine 91, € 12

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