Il Premio Italo Calvino ha reso noto i nomi dei finalisti della XXVI edizione:
Domenico Dara
Carlo De Rossi
Andrea D’Urso
Marco Magini
Francesco Maino
Stefano Perricone
Simona Rondolini
Carmen Totaro
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Domenico Dara nasce a Catanzaro il 2 febbraio 1971. Diplomatosi presso il Liceo Scientifico “E. Majorana” di Girifalco (CZ), si iscrive alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Pisa, dove si laurea nel 1996 con una tesi sulla poesia di Cesare Pavese. Ha pubblicato articoli di letteratura calabrese e curato un epistolario di Alessandro Verri. Vive e lavora tra Como e Milano, ed è padre di tre figli: Francesco, Cassandra e Penelope.
Carlo De Rossi è nato a Torino nel 1972. Educatore professionale, consulente in psicologia della scrittura e conduttore teatrale attivo in progetti laboratoriali per disabili e adolescenti. Autore dei testi e regista della compagnia teatrale torinese ‘I Mattoni’ (psichiatria) dal 1999 al 2007. Ha pubblicato un racconto sulla rivista letteraria ‘Inchiostro’ e alcune poesie sull’antologia ‘Nuova Poesia Contemporanea’.
Marco Magini è nato ad Arezzo 28 anni fa. Si è laureato in Politica Economica Internazionale alla London School of Economics. Per motivi di studio e di lavoro ha vissuto in Canada, Stati Uniti, Belgio, Turchia e India. Oggi vive e lavora a Zurigo dove si occupa di cambiamento climatico ed economia sostenibile.
Francesco Maino è nato nel 1972 a Motta di Livenza, nella Marca Trevigiana. Oggi risiede a San Donà di Piave e fa l’avvocato penalista a Venezia. Tra carceri e tribunali, ha spesso la possibilità di frequentare una variegata e policroma umanità. Insegna diritto, alcune ore la settimana, ad un corso regionale per estetiste. Prima di esercitare l’avvocatura è stato aiuto necroforo per una ditta di onoranze funebri.
Stefano Perricone è nato nel 1958 a Roma, dove abita. Come formazione è orientalista; vissuto alcuni anni in Giappone, ha collaborato con l’Istituto per il Medio e l’Estremo Oriente. In campo narrativo, suoi testi sono apparsi su antologie di vari editori, tra cui Newton Compton, e riviste (come “Ellin Selae”, “Tratti”, “La Clessidra”, “Nuova Prosa”, “R!” ed altre). Ha anche pubblicato in campo teologico negli Studi della Pontificia Università S. Tommaso d’Aquino di Roma. È già stato, in passate edizioni, finalista al Premio Calvino.
Simona Rondolini è nata nel 1970 a Perugia, dove vive. Nel 1989 si è diplomata nel Liceo Classico della sua città e nel 1995 ha conseguito presso l’Università di Perugia la Laurea in Filosofia. Fino al dicembre 2010 ha lavorato nell’azienda commerciale di proprietà della sua famiglia. Da allora ha ripreso a scrivere racconti e ha portato a termine “I costruttori di ponti”, che è il suo primo romanzo.
Carmen Totaro è cresciuta a Monte Sant’Angelo, in provincia di Foggia. Si è laureata in lingue e letterature straniere a Urbino. Da tredici anni vive a Milano e lavora all’aeroporto di Linate come addetta al check-in. Ha sempre avuto desiderio di scrivere, ma ha iniziato a farlo con consapevolezza intorno ai trent’anni. Scrive poco, in genere nei giorni di riposo e, quando non scrive, legge.
Le opere finaliste del 2013: uno sguardo d’insieme.
Il Comitato di lettura, fra cinquecentosettanta concorrenti, ne ha selezionati otto, dopo letture incrociate e numerose discussioni. Due sole le donne in finale, ma di straordinaria intensità di scrittura e di pensiero. Si tratta in genere di testi complessi, di inconsueto valore e di indubbia originalità. Talora non si può neppure parlare di romanzo, ma sicuramente di letteratura, come nel caso di Cartongesso, un’appassionata invettiva contro il degrado antropologico, paesaggistico e linguistico dell’odierno Veneto ex miracolato (ma in realtà il discorso si allarga all’Italia tutta) che trova inedite forme espressive nelle quali i vari registri si fondono e si confondono. Emergono spezzoni e frammenti di dialetto, come in altri due testi: il Breve trattato sulle coincidenze e Le piene di grazia . Il primo, dal profumo d’antan, è l’opera sicuramente più lieve e garbata, a suo modo deliziosa, percorsa da carsiche nostalgie. Un postino, amante di cabalistiche coincidenze, cerca di intervenire nelle vite degli altri, alleviando sofferenze e favorendo amori, in un paesino calabrese un po’ fuori del tempo. Le piene di grazia è invece un testo di potenza drammatica e di azione condotta all’estremo. Parte da un fatto di cronaca nera e si snoda colmo di efferatezze: l'”osceno” è in scena in una Puglia dall’aura criminale dove la criminalità si insinua nelle pieghe del quotidiano. Ciò che dà un tocco singolare, e insieme spaesante, al testo è la grana gelidamente oggettivante della scrittura, pur nella sua postura femminile. L’autrice, non a caso, è una donna, come donna è l’autrice di un altro testo densissimo, I costruttori di ponti. La protagonista, di famiglia altoborghese ‒ un perfetto esempio del complesso di Elettra: ama il padre e odia la madre ‒, realizza dapprima una full immersion nella musica di Mahler eseguita dal padre direttore d’orchestra, per poi annullarsi in una macabra esperienza lavorativa ‒ resa con icastica e allucinata evidenza ‒ in un’azienda che tratta carne di coniglio. Solo alla fine riuscirà a recuperare un incerto e fragile equilibrio. Ne La donna dell’uomo che girava in tondo lo stile è merito precipuo, in un lungo monologo magistralmente condotto. Una sorta di parabola in cui la protagonista, prima bambina poi adulta, dopo una serie di peripezie è rigettata, alla fine, nell’ingrata situazione di partenza: il pirandelliano “come tu mi vuoi” potrebbe essere il suo motto, ma il suo inesausto adeguarsi agli altri non la porterà alla salvazione. Brancola nel buio anche il narrante del Ventre della regina, un educatore che cerca la propria via d’uscita in una caleidoscopica assunzione di maschere e di esperienze ‒ a sfondo spesso erotico (il ventre della regina è appunto il caldo e traditore grembo di una femme psichiatra) ‒, fin quasi a perdere la nozione del sé. Professionista del sesso è lo gigolò le cui avventure sono narrate in Nomi, cose e città. Suo logo, per così dire, è una smagata sprezzatura, un’intelligenza cattiva, una malinconia verso un passato che riaffiora a intermittenza, il cui simbolo è il gioco infantile cui allude il titolo. Donne mature, più o meno abbienti, lo vedono come lo strumento per realizzare i loro inconfessati desideri o magari semplicemente il loro inconfessabile desiderio di affetto. Una scrittura nervosa valorizza perfettamente quest’epica di un eroe dei nostri tempi, un eroe del libero mercato. Come fossi solo ci precipita nell’incubo del massacro di Srebrenica, raccontato da tre personaggi: un giudice del Tribunale penale internazionale, un soldato olandese del contingente Onu di interposizione, un miliziano serbo-bosniaco. La forza del libro è nella materia stessa e nell’abilità dell’autore di penetrare nelle tre psicologie con somma sinteticità; riuscitissima la rappresentazione della violenza etnica, cui tutti sembrano destinati a subordinarsi, in un vortice di ataviche pulsioni e di cedimenti della volontà. Anche qui, comunque, è in scena un’umanità mentalmente fragile e indifesa, pronta a discendere la china dell’autodissolvimento e della rinuncia a scegliere.
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