Kenzaburō Ōe

Nello scaffale
a cura di Luigia Sorrentino

Kenzaburō Ōe, “Un’esperienza personale”

di Nicola D’Ugo

Un’esperienza personale è un romanzo dello scrittore giapponese Kenzaburō Ōe, Premio Nobel per la letteratura nel 1994. Breve e intensa, la narrazione, edita a Tōkyō nel 1964, prende spunto dalla congenita anomalia cerebrale del figlio di Ōe. Particolarmente interessante in questo romanzo è il complesso di Laio che muove l’azione del giovane padre protagonista della storia, in lotta per eliminare subdolamente il figlio lasciandolo scivolare nei meccanismi burocratici delle istituzioni ospedaliere nipponiche.

Il nocciolo fondamentale dell’«esperienza» (narrata in terza persona) è il tentativo del protagonista Tori-bird di rifiutare il proprio passaggio alla maturità, che gli farebbe venir meno certe comodità ovattate dell’eterna giovinezza di giapponese sposato con una donna di buona famiglia. Se non fosse che la vita è più complicata delle aspettative e la nascita di un figlio «bicefalo» e «mostruoso» gli fornisce l’alibi per metter da canto le proprie responsabilità e profittarne per far della sventura del figlio una tragedia in sordina che ricada sul neonato incosciente dell’universo sociale in cui ha visto la luce. E già solo per questo Ōe dimostra una presa demoniaca e geniale che egli saprà sciogliere, da suo pari, in un atto di umanità dell’espressione artistica e filosofica.

Ricordo qui, per inciso, oltre all’Edipo re di Sofocle, il mito della nascita di Mosè, abbandonato alle acque del Nilo, e quello dei fondatori di Roma, i quali costituiscono alcuni antecedenti classici di questo romanzo, seppure essi siano ribaltanti nella prospettiva, poiché lì ne sono protagonisti i figli. Meno discrepante è il fatto che nei testi classici i protagonisti siano dei nobili, a fronte del fatto che in Giappone, non meno che in Italia, il nocciolo duro dei poteri forti si stanzia in contesti locali, anche familiari, piuttosto che in una centralità soverchiante dello Stato.

Sempre per inciso, si noti che il nome del protagonista Tori-bird, anch’esso frutto di una dicotomia ‘bicefala’, costituisce la ripetizione della parola «uccello» in giapponese e in inglese, come se non fosse possibile denominare l’identità di Tori e Bird se non per due concetti accostabili, ma non coniugabili in un’unità ferma: Ōe scinde in due il carattere del giovane in una matrice nipponica autoctona e in un’aspirazione a prendere il volo per l’Occidente abbandonando le proprie radici e le proprie responsabilità. Al contempo, siccome la traduzione dal giapponese in inglese avrebbe potuto suonare anche Tori-bard, Ōe disgiunge la metafora dell’uccello migratore, che cerca di sfuggire al proprio destino, da quella del poeta cantore, del «bardo» del luogo, della società nipponica, insomma, in cui vive.

Con questo voglio sottolineare che l’ambientazione affatto realistica (e talvolta straordinariamente visionaria e carnale) in cui si dipana la vicenda è arricchita di riferimenti più o meno espliciti ai miti e alle cronache internazionali; al contempo, il linguaggio di Ōe dà luogo ad un sincretismo semantico di non immediata presa, su cui è più facile riflettere a lettura ultimata, in ragione di una poetica attenta al linguaggio e proclive alla messa in crisi delle convenzioni linguistiche, non in quanto puro gioco istrionico del romanziere, ma perché nel linguaggio sono riposti i concetti e il nostro modo di interpretare sensazioni e sentimenti che ad essi rimandano. Notevole è il ricorso, nei romanzi di Ōe, a stili sostanzialmente diversi a seconda della materia trattata.

Così come ricorrente nella sua opera narrativa è il tema del rapporto tra figli e genitori (veri, putativi, adottivi o elettivi), tra lascito e accoglienza della tradizione, al punto che nelle opere più recenti (per esempio, Il salto mortale e La vergine eterna) tale sviluppo si estende dalle esperienze interpersonali dei personaggi alle forme artistiche in cui vita reale ed espressione testimoniale della propria vita finiscono per coincidere. Tale raffigurazione del tramando generazionale, coi suoi cadenti momenti di crisi, è delineata da Ōe attraverso un realismo filosofico e psicologico di originale grandezza.

Quando parlo di complesso di Laio in merito a Un’esperienza personale non uso una metafora interpretativa posticcia più o meno attinente: mi rifaccio al testo, nella misura in cui, nella parte centrale del romanzo, Tori-bird si abbandona all’alcol e al sesso ed Ōe indugia lungamente sull’invidia della vagina in pagine drammatiche e vorticistiche, che rasentano la caduta all’inferno, ribaltando la tipica situazione freudiana del complesso edipico e dell’invidia del pene. Di fatto, l’autore giustifica attraverso un meccanismo psichico ben delineato l’architettura della forma mentis di Tori-bird, la quale è sommamente maschilista e desiderosa di sottomettere le donne fino ad umiliarle anche attraverso la violenza fisica, benché, in effetti, egli non concretizzi i propri desideri e sia piuttosto vittima dei corrimano culturali disagevoli e inconsci che riaffiorano alla bisogna, traballanti sul vuoto del proprio sentire di giovane troppo presto ammansitosi dai trascorsi tumulti di combattente di strada.

L’intensità del romanzo, col suo carattere internazionale ed una plastica capacità descrittiva che si affastella nei minuti dettagli in rapida successione per poi costringere a pause meditative, fa giustizia ad un originale e ben riuscito mito della contemporaneità, secondo il quale l’uomo di oggi aspira a preservare eternamente la propria condizione di benessere a scapito delle generazioni future. Se non fosse che Ōe porta il protagonista a guardare in faccia la realtà, al punto che la tragedia silenziosa del neonato si fa finalmente da canto per lasciare il posto all’esperienza elegiaca del genitore.

Meno convincenti, a mio avviso, sono le pagine che chiudono il romanzo, non per una carizia di sapida tesi dell’autore, ma per la rapidità con cui si arriva alla conclusione a fronte delle pagine precedenti: come se in qualche modo Ōe avesse avuto fretta di arrivare alla chiusa.

L’«esperienza personale» di Tori-bird prende, più in generale, la piega di critica dei mali sociali fondati sulle convenzioni e nobilita il carattere autoriflessivo e autocritico delle esperienze nuove in periodi nuovi, qui indicate attraverso le nuove tecniche cliniche che tengono in vita il bambino e che costituiscono un evidente ostacolo per il protagonista.

Il romanzo è stato pubblicato in Italia da Garzanti nel 1996 nella traduzione di Nicoletta Spadavecchia, e ripubblicato da Corbaccio nel 2005.

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