Anteprima editoriale
Alberto Bertoni, “Ricognizioni – Vecchie e Nuove”
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di Chiara De Luca
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Il nuovo libro di Alberto Bertoni, Ricognizioni, in uscita per la casa editrice Incontri di Sassuolo, nell’ambito del progetto “Recordare “, è una raccolta poetica complessa e articolata, al punto che si potrebbe parlare di tre raccolte – tra loro inscindibilmente legate e dialoganti – che ne compongono una, in cui, pagina dopo pagina, s’ispessisce la trama delle esperienze e dei ricordi. Il poeta dipana con cura, lentamente, tra esitazioni e indugi e coraggiosi slanci, i fili del vissuto e della memoria, che si allacciano tra di loro, all’improvviso si sciolgono, talvolta si spezzano, per poi ricongiungersi in nuovi successivi intrecci “narrativi”. A questa eterogeneità strutturale corrisponde la sorprendente duttilità formale del verso di Bertoni, che spazia su un ampio ventaglio di registri, forte di un vasto e personale repertorio di variazioni stilistiche e lessicali, a costruire uno stile poliedrico, in cui la tensione della parola poetica non viene mai meno, così come il controllo sul ritmo e la musicalità del verso, anche laddove il poeta è tentato di rompere spezzare ogni schema, per “(Buttarle nel fango / o in qualcos’altro che taccio / lirica e grammatica / da liceo classico)”.
Ma questa nuova raccolta di Bertoni, che unisce in un corpus coeso poesie edite e inedite, è anche una ricognizione del poeta nella propria stessa scrittura, un ripercorrerne le tappe, per poi segnarne di nuove da cui ripartire. Ne risulta un’opera polifonica, spesso corale, di un poeta che non teme di sfiorare, tendere e rilasciare tutte le corde della propria voce, mettendosi alla prova, sfidandosi e sfidando le potenzialità della propria scrittura, la coerenza del proprio fare poetico, senza mai ripetersi o emulare se stesso su percorsi già battuti, e in quanto tali, sicuri e già sminati da altri. Ricognizioni è infatti un’opera che, come il titolo stesso suggerisce, si muove su territori ancora non mappati – dell’animo, della coscienza, della memoria – con passo esplorativo, e con un andamento dunque mutevole, aperto al possibile, talvolta teso e incerto, talvolta rapido lungo il ciglio d’inattesi precipizi invisibili nel buio. Lo sguardo del poeta è spesso appena schiuso all’oltre, all’inafferrabile, su cui tuttavia si posa umilmente rapido, scevro della pretesa d’addentrarsi nel mistero, per poi arrestarsi sul varco del limite, nella sospensione di un improvviso silenzio sacrale. Il poeta cammina sarchiando a occhi bene aperti anche la propria oscurità interiore, smorzandola in un chiaroscuro di parole ai propri occhi e a quelli del lettore, rispondendo senza esitazioni alle istanze dell’ispirazione e alle necessità dell’espressione, che dà forma mutevole nel verso alla materia del sentire, al magma incandescente del dolore. Vivide immagini e repentine accensioni, memorie e visioni, musica ed evocazioni si modellano di volta in volta sul contenuto e sulle necessità del dire, variando di conseguenza, di sezione in sezione (ma anche spesso di poesia in poesia) in base al crescere/scemare dell’urgenza, senza mai scivolare nel già visto e nel banale.
Quel che più colpisce in Quartetti, la prima sezione (o stazione) di Ricognizioni è la capacità di sintesi di un poeta altrove anche fluviale, l’incisività di un verso immediato, che risulta scarno senza essere disadorno, originando la concretezza di una parola che si fa cosa e spesso grava sul foglio come pensiero irrisolto o volutamente inconcluso, a spiazzare il lettore, per lasciarlo a sua volta in attesa d’altre parole, che dovrà scavare dentro di sé e nella propria esperienza individuale. Su ciascuna “diapositiva” di Quartetti ci potremmo soffermare a lungo, perché ciascuna di esse adombra un mondo popolato da presenze e assenze, ricordi nitidi e bianchi della mente. La loro sequenza lascia senza fiato il lettore: per il rincorrersi delle suggestioni, la nettezza spietata, tagliente delle chiuse, spesso perentorie, talvolta come sospese e aperte a un implicito interrogativo senza risposta.
Intenso e drammatico, eppure lucido e mai compiaciuto o “lamentoso” è il viaggio tratteggiato in Stazioni, seconda sezione della raccolta, in cui le poesie sono singole tappe di una via crucis, tutta umana e terrena, nel buio, e dove il verso si fa di conseguenza più denso, fluviale, a volte disperato, altre furioso, per confinare, infine, con la rassegnazione e l’abbandono, nell’accettazione della morte quale parte integrante della vita, capolinea che qualcuno che ci è caro è destinato a raggiungere prima di noi, lasciandoci a guardare dal finestrino il treno della nostra vita che deraglia nel vuoto.
Pietre miliari di Ricognizioni sono le poesie di Commiato e la suite per Stefano Tassinari, così libere d’ogni forma di auto commiserazione o compiaciuta contemplazione del dolore, così piene dell’ironia mortale della vita, oneste, spietate e vere.
Originale, oltre che necessaria, la terza sezione, in cui i “bipedi” – cui è esplicitamente dedicata una sola poesia della galleria, quasi esopica, di ritratti – assumono diverse forme e nessuna, così che animale e umano si confondono, e dove tutte le maschere cadono, nella rappresentazione impietosa del quotidiano, della presunta e presuntuosa superiorità dell’umano.
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Da Quartetti
Commiato
a mio padre Gilberto
I
Mi sembrava un attimo fa
ed invece era già
nel millennio passato
l’ultima volta che abbiamo parlato
II
Sveglio di soprassalto
ascolto fare forza le mie dita
sulla tua fine già trasmessa
alle gambe, al buco della bocca
III
Credulone, ascolto la badante
vieni, tuo padre dorme
aspetta la tua mano
per svegliarsi
IV
Lei, lei che senza sapere raccoglie
l’ultima frase, il singulto
e anche la discrezione del gesto
– mi fermo un momento, riposo
V
Sulla mia mano esploso
questo blocco unico di ghiaccio
rantolo e niente più respiro
solo un attimo dopo
VI
Quell’attimo dopo che arrivo
anche oggi, sicuro, sconfitto
di mezzo millimetro
sul filo
VII
Dal roteare degli occhi
la bava sul cappotto
i piedi in abbandono
sento che sei morto
VIII
Sento ma non ci credo
e come uno scemo mi chiedo
se è giusto per così poco
fare il 118
IX
Una perdita fulminea di calore
e di fiato fino al freddo
totale nelle ossa
la maschera di gesso
X
Mantengo la tua calma
il nero della barba
ma non ci riesco, non so
riconoscerti salma
[…]
Da Stazioni
Prima
Stavi dove storia e presente ti avevano lanciato.
Saggiavi ogni terreno, anche il più amaro.
Ragionavi
e non perdevi il
cuore d’acciaio e la
mente flessibile che io amavo.
Oppure il contrario,
perché le tue scogliere ti erano vicine.
Ecco, amico mio, tu eri prossimo fino all’ultimo spettacolo all’ultimo dubbio alla eterna tua certezza.
Riga per riga, ecco proprio così: riga dopo riga, a voce alta, senza mai trascurare né te né gli altri né alcuna idea che sopraggiungesse.
Combattendo ogni vita (prima fra tutte la mia) che volesse farsi frammento.
Stavi e ragionavi.
Non so che dirci, a noi che qui siamo: i nostri anni condivisi li ho trascorsi così.
E così ti vivo, nel presente che è eterno,
perché l’assenza è data dalla presenza che è stata.
Ottava
Sdraiarmi al tuo fianco
godere anche del rantolo
quando si allunga fino
al terremoto dell’addio
Solo questo
è il senso negli anni inseguito
questo crollo del ritmo
sillaba, diaframma, esplosione del respiro
e subito immobile la fiamma
ripiegata oltre la strada la risacca
mentre spunta l’alba
di sbieco sui vicoli le piazze di Ferrara
noi due distratti come sempre al suono
di cui il mondo può far dono
dal ramo fiorito uno zirlo
e forse il codirosso pronto al volo
ma come tutto è immobile
senza più battito di cuore
e vivo è solo il taglio del dolore
dato e subìto,
immane, definitivo
da Un teatro senza animali
Il topo
Cos’è un topo schiacciato sotto casa
il sangue a mezzogiorno ancora vivo
nella domenica di sole
vento leggero, nemmeno un’ombra d’afa
e nessuno che interviene
– Nettezza Urbana, Igiene
mentre dei pigri vanno a spasso con il cane
un colpo di fiuto e via
come fosse niente
solo io giro l’angolo dalla parte del cortile
evitando la via più breve
per rimuginare, invece,
sul probabile tempo di mummificazione e quando
potrò ricalpestarlo quel pezzetto di strada
ridotto alla fine in cenere
spettro di luce sfumata
Bipedi
È fatuo e vacuo
Vuole riparlarmi ma ancora non è chiaro
il senso del discorso la
direzione del gesto
“Ho fatto tutto quello che potevo”
ripete strascicando l’accento
di modenese del centro
ma la mia scusa di bambino
e soprattutto adolescente
per l’errore dovuto invece
all’attrazione della pura superficie
non addolcisce per niente
il suo (e mio) destino
di bipede eretto sull’incrocio
all’angolo del marciapiede rugoso
e subito arcipelago buio
nel passo-e-chiudo senza fine
del nostro crepuscolo d’inverno
Grazie per questa anteprima. “Ho fatto tutto quello che potevo”; scriverlo non addolcisce… è sempre un crepuscolo d’inverno.