Nello scaffale
Annelisa Alleva
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Wysława Szymborska, Elizabeth Barrett Browning, Marina Cvetaeva, Sylvia Plath; Aleksandr Puškin, Sergej Aksakov, Lev Tolstoj, Iosif Brodskij, Boris Ryžij; Giacomo Leopardi, Angelo Maria Ripellino, Tommaso Landolfi, Gianfranco Palmery, Giovanna Sicari; gli artisti Orest Kiprenskij, Titina Maselli, Ruggero Savinio sono presenti in queste pagine dove, fra saggio e narrazione, troviamo anche memorie e incontri.
Il filo che intreccia i testi è quello del racconto. Certi personaggi, come i genitori del poeta Brodskij, frequentati a Leningrado, hanno il carattere di figure di romanzo. Gli artisti, gli scrittori del presente e del passato, soprattutto poeti, appaiono e scompaiono come su una scena di teatro.
Gli autori di cui si parla sono vicini non solo sulla carta, ma anche perché Annelisa Alleva li ha spesso tradotti, conosciuti, come ha conosciuto i luoghi dove hanno vissuto, hanno scritto e sono morti.
Il libro parla dell’osmosi: fra un personaggio e l’altro; fra una lingua e l’altra; fra prosa e poesia; fra passato e presente.
Un brano dal libro
Ulica Pestelja, dom 27, kvartira 28
I esli prizrak zdes’ kogda-to zil,
to on pokinul etot dom. Pokinul.
E se un fantasma qui un tempo ha abitato,
ora ha abbandonato questa casa. Abbandonato.
Iosif Brodskij
(…) Suonai; venne a aprirmi una donna. «”I Brodskij sono in casa?”, “No, sono usciti a fare una passeggiata”.”Verso che ora posso trovarli?”, “Provi a ripassare fra un’ora. Che cosa devo dire?”, “Sono un’italiana, ma loro non mi conoscono”, “Va bene”». Primo imperdonabile errore: dire che ero italiana. Era vietato, per gli stranieri, mettere piede in una casa in coabitazione, una kommunal’naja kvartira, detta anche, più familiarmente, kommunalka. Ai russi era proibito frequentare gli stranieri. Ma io non lo sapevo.
Girovagai per un’ora. Entrai nella chiesa Preobraženskaja, che chiudeva la via da quel lato. La chiesa era aperta e in funzione. Dall’altro lato della via, dalla parte del Giardino d’Estate, faceva capolino un’altra chiesa, a forma di nave, la Pantelejmonovskaja, allora trasformata in museo. Avevo paura di perdermi, non mi orientavo. Già guardavo con ammirazione questa vecchia coppia che, invece di trascorrere la domenica, come ogni giornata della loro vita, a strapparsi i capelli dalla disperazione, come li avevo immaginati io, all’italiana, era uscita approfittando del bel tempo per fare una passeggiata. Il loro unico figlio espulso dall’Unione Sovietica nell’estate del ’73, e si era nell’autunno dell”81. Otto anni trascorsi nell’impossibilità di rivedersi. E loro che tentavano di vivere.
Tornai davanti all’edificio inizio secolo. Stesse scale, stesso campanello, l’emozione placata dalla ripetizione. Mi aprì la porta un vecchio signore di cui mi chiesi subito: “Chi è? Il padre o lui stesso?”, tanto padre e figlio si somigliavano. Mi salutò con un sorriso cordiale facendomi segno di tacere con un dito sulle labbra, e, bisbigliato un “presto, presto”, aperta una porta, la prima, a sinistra, protese le braccia per farmi strada con un gesto ampio quanto muto. Richiusa con cura la porta dietro di sé, sempre in silenzio mi aiutò a sfilare la giacca, che attaccò lui stesso all’attaccapanni sulla sinistra; con un gesto mi invitò a sedere su una sedia, e si sedette di fronte. Continuava a tacere; allora parlai io: “Sono una conoscente di vostro figlio”, e lui con gioia: “Non poteva essere altrimenti”. Così cominciò la nostra amicizia.
Nella loro stanza, come in tutte le stanze delle case in coabitazione, si entrava in modo violento; per i preamboli non c’era posto. Il mondo di ogni famiglia veniva improvvisamente spalancato, tutto concentrato in pochi metri quadri. Tutto, quindi, qui, era terribilmente brodskiano, a cominciare dall’odore forte di cui la stanza era impregnata, e che sembrava vivere una vita sua propria, del tutto indipendente dai suoi abitanti; non cattivo ma acre, d’impronta femminile. Uno spazio caldo in un paese freddo; una promiscuità di mangiare e di dormire; un luogo dove si mangiava bene, ma si aprivano troppo poco le finestre.
Dunque niente dell’ambientazione neorealista come l’avevo immaginata io: lei a letto, discinta, capelli neri ingrigiti, borse sotto gli occhi. Niente Anna Magnani. Nessun grido, nessuna esibizione. Solo quel “presto, presto” bisbigliato sulla porta di casa perché non mi trattenessi un attimo di più in un posto visibile a tutti. Allo stesso modo veniva trattenuto, nascosto il dolore, perché chi aveva cacciato il figlio fuori dal suo paese forse avrebbe potuto continuare a infierire, e fare ancora di peggio.
Lui, il figlio, dall’altro capo del mondo, all’aggressività che aveva subito e di cui continuava ad avere sentore, replicava in modo opposto, con un “hallo”, per tutti, che somigliava a un ruggito.
Annelisa Alleva è poeta, saggista e traduttrice. Ha pubblicato otto raccolte di poesia di cui le ultime sono: L’oro ereditato (Il Labirinto 2002), Istinto e spettri (Jaca Book 2003) e La casa rotta (Jaca Book 2010, Premio Sandro Penna 2010). Fra le traduzioni: i Romanzi e racconti di Puškin (Garzanti 1990, poi ristampato nel 2011), Anna Karenina di Tolstoj (Frassinelli 1997, poi Mondadori 2009, Premio Russia-Italia 2010) e l’antologia Poeti russi oggi (Libri Scheiwiller 2008, Premio Lerici Pea Mosca 2009). Dal 2004 al 2007 ha tenuto un corso di master in traduzione letteraria dal russo presso la Sapienza Università di Roma.
Accostarsi ai lontani, cercare, cercare… Parlare col padre quando il figlio e’a Amherst, Massachusetts… e’ un andare col desiderio… per trovare non so che…non so chi…forse solo una parte di se’ con l’altro, un altro che si ammira.
Anch’io sono laureata in lingua e letteratura russa (Ca’Foscari 72) ed il mondo degli intellettuali russi degli anni settanta l’ho conosciuto in Russia e l’ho ritrovato come “il figlio cambiato” in Francia e qui negli Stati Uniti.
Sono molto curiosa di leggere l’incontro con Tommaso Landolfi a cui penso sovente ed anche le poesie di Annelisa Alleva.