Poetessa e traduttrice di origine tedesca, Eva Bourke ha vissuto a lungo in Irlanda e viaggiato molto. È forse per questa duplice (o molteplice) appartenenza, linguistica e geografica, che il suo occhio, inquieto e vivacissimo, sfiora ogni cosa, si sofferma, si apre ad abbracciarla, e le sue mani le danno abilmente forma di parola, sempre tesa a metà – o franta, spezzata, sgranata e ricomposta – tra la suggestione surreale e l’estrema concretezza del dato oggettivo, restituito agli occhi del lettore in immagini dai contorni nitidi e precisi come nel racconto di un bambino che dia forma alle nuvole, o alle ombre intraviste dentro il buio. La scrittura delle Bourke spazia dal verso lungo – in tono sempre lirico e teso – al verso breve, e fino alla nettezza e concisione dell’haiku, passando per prose poetiche (o poesie in prosa), in cui si avvertono le numerose distinte variazioni del vibrato della sua voce cangiante e screziata di toni mutevoli. La penna di Eva Bourke sembra voler trasformare ogni cosa, – estranea o propria, umanissimao spietata, prossima o negata da distanze siderali – in appartenenza di parola, che si dilata e implode e sguscia e sfugge tra le dita del lettore, e di nuovo si lascia afferrare, si ferma, e infine riprende a fare la spola tra il cuore e il pensiero, richiamando analogie, suggestioni, paure, attese, orrori, solitudini e amori. Come per un misterioso processo alchemico innescato tra i chiaroscuri, le ombre, le improvvise esplosioni di luce della sua anima, Eva Bourke riesce a trasformare tutto ciò che vede e sente e tocca – con anima e sensi, immaginazione o ricordo – in Poesia. Poesia della bellezza di fiori, piante e insetti, animali, poesia dei volti cari che sono accanto, o perduti, o abbandonati, o portati via dal tempo e dalla morte. Poesia del mare, di cui la Bourke sarchia il fondo alla ricerca di sconosciuti tesori, di cui contempla il moto incessante e le trasformazioni, riconoscendole dentro di sé e tra le curve improvvise, i flussi gelidi, le pozze ferme e le cascate vivaci della propria esperienza. Poesia delle infinite mutazioni metamorfiche del cielo grande corpo di misteri, esposto allo sguardo che lo taglia e seziona senza mai poterlo piegare alle sterili misure della ragione. Poesia delle erbe e delle spezie, cantate a una a una, nobilitate, di-segnate, come tutto ciò che cade sulla tela del foglio di questa poetessa tanto presente nell’atelier dell’artista che – con “un pennello avvelenato come un bisturi” -, vorrebbe “incidere il cuore del mondo”, “per la fame insaziabile di addentarne ancora”, per “dissezionare l’ombra”, riportare la luce alla luce, osservarla di nuovo danzare tra le proprie creature, riconoscerla negli sguardi scambiati o negati, oscurati o di nuovo accesi nell’incontro. Nel ricordo che non sfuma, che cerca conforto tra le pieghe di vecchie foto, tra gli appunti scritti sulla carne dal tempo, sbiaditi sulla pelle dalla distanza che non annulla, che mai ci cancella portando via nel vento il tesoro della nostra esperienza, che riaffluisce, come i “borsellini delle sirene”, risospinta sulle rive del presente dalla risacca del tempo, tra le onde capricciose e imprevedibili della marea dei giorni.
Chiara De Luca
—
WASHING MY MOTHER
I
Grass grow over me
bridge let me fall
cloud come and hide me –
my mother’s long hair
was cut off by nurses
too busy to brush it.
Vein flow for me
heart pump for me
eye close for me –
they stabbed their scalpels
into my mother’s spinal cord.
Door dismiss me
syringe stitch an exit for me
stairs be my catapult
mortuary shine with your tiles for me –
they didn’t give my mother the time
so she could say goodbye.
Herr Doktor, pronounce your judgement.
Frau Doktor, take half the pain.
Fraulein Schwester, share out the sorrow.
II
Mother of quince
mother of rosehips
mother of sweet pockets
mother of narrow gauge railway timetables
mother of starch and cambric
mother of Bohemian winds
mother of algebra
mother of bicycles
mother of hypotenuses
mother of sonatinas
mother of clove, feather and milk
mother of Greek syntax
mother of buttercups
mother of winter trams
mother of rivermeadows
mother of camomile
mother of yeastcakes
mother of original mildness
mother of blue crockery
mother of the final house
III
When she died,
the mountains
lakes, forests around her house,
the fuchsia bushes
she had tended, all went silent
and the lampshades
filled with butterfly husks.
The last imprint of her fingers
on her soap –
the last imprint of her head
on her pillow –
Through the windows
darkness flooded the room,
the morning came to her bed too late.
The world had been adjourned.
IV
After I’d undressed her
she lay before me like a child,
without shame, her body still and bare.
I’d never seen her naked before
and was full of fear.
There was a basin of warm water
so nothing cold would touch her
and a bar of her special scented soap.
Outside the summer ran
through one artful colour
scheme after another.
The hills lay calm and blue
in the late afternoon light
and a breeze through the window
fingered and brushed the curtains aside.
A slip of a day moon idled slowly by.
I washed her then, her silent face,
lifting the strands of hair
the busy nurses had cut short,
her neck, her throat,
I washed the ribbed vault of her chest,
flat as a young girl’s,
her shrunken breasts.
She was so thin
the bones showed singly
underneath the skin.
I’d never known she’d wasted so away.
Where did I have my eyes?
How did she manage to disguise
this so well? I touched
where a fracture’d mended
badly in her collar bone,
the white seam of a scar.
I washed her stomach,
the navel’s recess, her pelvis,
its generous shallow bowl. I felt
her skin smooth as suede,
rosewood, cool as water, crinkled
and fine as crêpe de chine.
I washed with reverence
the gentle rise
of her pubis, her sex now hairless
washed her secret flesh,
her gaunt flanks and thighs.
We had changed places, she and I.
For the first time I did
for her what without question
she had often done for me.
And yet despite her silence she
commanded everything, still taught
me as she once had about life
all that she knew of death.
Her eyes lay deep below
their rounded lids.
Her mouth was soft and calm.
I dressed her then, the air was warm
and summer evening blue.
LAVANDO MIA MADRE
I
Erba crescimi addosso
ponte lasciami cadere
nuvola vieni e nascondimi –
i lunghi capelli di mia madre
li avevano tagliati le infermiere
troppo occupate per pettinarli.
Vena scorri per me
cuore pompa per me
occhio chiuditi per me –
cacciarono i loro scalpelli
nel midollo spinale di mia madre.
Porta congedami
siringa infilati ed esci per me
scale siate la mia catapulta
camera ardente brillino le tue mattonelle per me –
non diedero a mia madre il tempo
per per potersi congedare per sempre.
Herr Doktor, pronuncia il tuo giudizio.
Frau Doktor, prendi metà della pena.
Fraulein Schwester, condividi il dolore
II
Madre del melo cotogno
madre della rosa canina
madre delle tasche dolci
madre degli orari ferroviari sottili
madre di amido e cambrì
madre dei venti di Boemia
madre dell’algebra
madre delle biciclette
madre delle ipotenuse
madre delle sonatine
madre di chiodo di garofano, piuma e latte
madre della sintassi greca
madre dei ranuncoli
madre dei tram invernali
madre dei prati fluviali
madre della camomilla
madre delle torte lievitate
madre della dolcezza originaria
madre delle stoviglie azzurre
madre della dimora finale
III
Quando lei morì,
le montagne
i laghi, le foreste attorno alla sua casa,
i cespugli fucsia
che aveva curato, rimasero tutti in silenzio
e i paralumi
pieni di larve di farfalla.
L’ultima impronta delle sue dita
sul sapone –
l’ultima impronta della sua testa
sul cuscino –
Attraverso le finestre
oscurità tracimò nella stanza,
il mattino giunse troppo tardi al suo letto.
Il giorno era stato aggiornato.
IV
Dopo che la ebbi spogliata
giaceva davanti a me come un bimbo,
senza vergogna, il suo corpo silenzioso e nudo.
Non l’avevo mai vista nuda
ed ero piena di paura.
C’era una bacinella d’acqua calda
così nulla di freddo l’avrebbe toccata
e una tavoletta del suo speciale sapone profumato.
Fuori l’estate correva
da un astuto schema
di colori all’altro.
Le colline erano calme e azzurre
nell’ultima luce del pomeriggio
e una brezza dalla finestra
tastava e spazzava le tende di lato.
Un lento strascico di luna diurna passò pigramente.
Allora la lavai, il viso silenzioso,
sollevando le ciocche di capelli
che le infermiere occupate avevano tagliato corti,
il collo, la gola,
lavai la volta di costole del petto,
piatto come quello di una ragazzina,
i seni accartocciati.
Era così magra
che le vedevi le singole ossa
sotto la pelle.
Non mi ero mai accorta fosse tanto deperita.
Ma dove avevo gli occhi?
Com’era riuscita a nasconderlo
così bene? Toccai
il punto della clavicola in cui
una frattura si era ricomposta male,
la grinza bianca di una cicatrice.
Le lavai il ventre,
il recesso dell’ombelico, la pelvi,
il generoso incavo. Sentii
la pelle liscia come pelle scamosciata,
palissandro, fresca come acqua, sgualcita
e sottile come crêpe de chine.
Lavai con reverenza
La dolce protuberanza
del pube, il sesso ora glabro
le lavai la carne segreta,
le cosce e i fianchi gracili.
Ci eravamo scambiate i ruoli, lei e io.
Per la prima volta feci
per lei quel che senza problemi
lei aveva spesso fatto per me.
Eppure a dispetto del suo silenzio era lei
a comandare il tutto, a insegnarmi ancora
come aveva fatto in vita
tutto ciò che sapeva della morte.
I suoi occhi erano sprofondati
sotto le palpebre arrotondate.
La bocca era morbida e calma.
Allora la vestii, l’aria era calda
e la sera d’estate azzurra.
LITTLE ISLAND
For John
I
Place of Drunkenness
Try getting lost here. The gleaming horizons
are piled on top of each other and clouds
are blown through streets at fiftieth floor level.
All day we were walking in circles and found ourselves
back again every time on the world’s
straightest avenue along the spine of Little Island.
It led us from red light to red light,
each souvenir shop was choc-a-bloc with disaster.
In pubs full of sour smoke we fell in with men
in check shirts, broad as Atlases, their faces softened
by flickering screens. Rain kept on falling,
drove us into the church of exiles,
they slept on long benches in nests of rubbish.
We could only guess what epiphanies took place
in this temple. Next to it on a sky-high treasury
a golden eagle dug his talons deep into the globe.
The entire world was on wheels by the river –
speed being the day’s second buzzword – young men
rolled past on their blades, but we, knowing no better strolled
like flaneurs who have no home to go to.
A chorus line of black graduates marched into a hall
to the sound of brass as we retraced our steps,
their heels clacked with the purposeful
choreography of initiation.
We balanced along the abyss of ourselves
lost in visions of love restored to the city
which lay like a great wounded beast in the rain.
From multi-media facades a kitsch alphabet was washed
onto the tarmac and crossed out by taxis.
Further down where the buildings grew more distant
and haughty, their arsenals more highly polished,
the park was leafing through its green cover story.
My companion said there was a correlation
between his sadness and the water that fell from the sky.
Poems were inscribed in the lines of his witty kind face.
Our exhaustion became so immense we could hardly lift
our eyes to the heights which were shrouded
by shimmering bands of mist,
an art nouveau pine comb swam like a mirage
above the roof tops of the city.
We wandered, caught in a Pollock canvas whose colours
kept running until in the blue hour we found refuge
with Mexicans who poured us luminous mixes, green cocktails
in tall glasses. We licked every last drop from our fingers,
listened to the till singing until time was called.
Rain episodes and sirens had diverted us
into the arms of dissolution. Fat angels in navy
warned us to be vigilant. In a side street we saw
a dark Narcissus deconstruct mirrors. The clownishness
of the gesture was not lost on us. Wordless
we turned north haunted by a drama of cafes and subways,
abandoned umbrellas and movie houses,
the city humming the score of a minimalist composition-
from Finland perhaps. Drunkenness shortened
the long way home. In the end it was the rain,
we supposed, which had put all the colours to sleep.
ISOLOTTO
Per John
I
Luogo di Ebbrezza
Prova a perderti qui. Splendenti orizzonti
ammucchiati l’uno sopra l’altro e nubi
soffiate nelle strade all’altezza del cinquantesimo piano.
Avevamo camminato in cerchio un giorno intero per ritrovarci
ogni volta nel viale più stretto
del mondo lungo la spina dorsale dell’isolotto.
Ci guidava da luce rossa a luce rossa,
ogni negozio di souvenir era inzeppato di un gran patatrac.
Dentro pub pieni di fumo acre c’imbattevano in uomini
in camicia a quadri, della stazza di un Atlante, coi visi sfumati
da schermi tremolanti. Pioggia continuava a cadere,
ci guidò alla chiesa degli esiliati,
dormivano su lunghe panche in nidi di spazzatura.
Potevamo solo immaginare quali epifanie sbocciassero
in questo tempio. Accanto al quale, sopra un piedistallo alto fino al cielo
un’aquila d’oro sprofondava gli artigli nel globo.
Il mondo intero era su ruote presso il fiume –
essendo la velocità la seconda parola d’ordine del
giorno – giovani uomini
passavano sui pattini, ma noi, non sapendo far di meglio
girellavamo come flaneur senza una casa cui tornare.
La fila di un coro di laureati della vecchia guardia
marciava in un atrio
al suono degli ottoni, mentre ritracciavamo i nostri passi,
i loro calcagni facevano clack-clack a tempo con la simbolica
coreografia dell’iniziazione.
In equilibrio sul ciglio dell’abisso di noi stessi
perduti in visioni d’amore reso alla città,
grande bestia ferita distesa sotto la pioggia.
Da facciate multimediali un alfabeto kitsch venne lavato
via, sparso sull’asfalto e calpestato dai taxi.
Ancora più giù, dove gli edifici divenivano più distanti e
altezzosi, con gli arsenali tirati ancor più a lucido,
il parco sfogliava la sua verde storia di copertina.
Il mio compagno diceva che c’era una correlazione
tra la sua tristezza e l’acqua che cadeva dal cielo.
Poesie erano inscritte sui tratti del suo arguto viso gentile.
La nostra stanchezza divenne tanto immensa che quasi
non riuscivamo ad alzare gli occhi alle cime avvolte
da fasce luccicanti di nebbia,
una pigna art nouveau nuotava come un miraggio
sopra le cime dei tetti della città.
Vagavamo, presi in una tela di Pollock i cui colori
continuarono a correre finché nell’ora blu non trovammo rifugio
dai messicani che ci versarono i loro luminosi mix, cocktail verdi
in alti bicchieri. Ci leccammo le dita fino all’ultima goccia
ascoltammo la cassa cantare fino all’ora di andare.
Episodi di pioggia e sirene ci avevano sviati
nelle braccia della dissoluzione. Grassi angeli in uniforme da marine
ci ammonirono di stare in guardia. In una strada laterale vedemmo
un narciso nero decostruire gli specchi. Il fare clawnesco
dei gesti non ci sfuggì. Senza parole
girammo verso Nord inseguiti da un dramma di caffé e metro,
ombrelli abbandonati e cinema,
la città che canticchiava la partitura di una composizione minimalista –
finlandese forse. L’ebbrezza accorciò la lunga
strada verso casa. Alla fine era stata la pioggia,
supponemmo, a mettere a letto tutti i colori.
SURVIVORS
We are God’s memory
Elie Wiesel
We’re back from nowhere
after an eternal absence.
Part of us is still there circling
the dark wastes.
Being God’s memory is too much of a burden,
unvolunteered for.
The revolving doors had chanced
to deposit us on this side of life,
(coincidence or a guilty betrayal
of fate) and here we are in the glare
of a street lamp or on a park bench
together with our unpronounceable past
for which even the folds of our coats
our neatly draped scarves
and humble gloves and hats
seem to apologise.
Paperwork, regulations, signatures,
a raised voice, the slam of a door –
too much of this and we might fall
apart, spill over onto the pavement
into the extrasystolar pounding
of traffic, the noise that settles
on unfamiliar places
like ashes.
Be gentle with us –
we know the doctors of death
forget nothing or no one
and neither the light hoisting its sail
through the blue glittering wash
nor the golden mosaic face
of mercy
are turned towards us.
SOPRAVVISSUTI
Siamo la memoria di Dio
Elie Wiesel
Siamo tornati dal nondove
dopo un’eterna assenza.
Parte di noi sta ancora girando
attorno agli oscuri deserti.
Essere la memoria di Dio è un fardello troppo grande,
che non abbiamo assunto volontariamente.
Le porte basculanti erano riuscite
a depositarci su questo lato della vita,
(coincidenza o colpevole tradimento
del destino) ed eccoci nell’alone
di un lampione o sulla panchina di un parco
insieme al nostro impronunciabile passato
per il quale perfino le pieghe dei nostri cappotti
le sciarpe drappeggiate con cura
e gli umili guanti e cappelli
sembrano scusarsi.
Carte, regolamenti, firme,
una voce che si leva, una porta che sbatte –
troppo di tutto questo e potremmo cadere
in pezzi, spargerci sul marciapiede
nella pulsazione extrasistolare
di traffico, il rumore che s’insedia
in luoghi estranei
come ceneri.
Sii gentile con noi –
sappiamo che i dottori della morte
non dimenticano nulla o nessuno
e né la luce che inalbera la vela
attraverso l’azzurra palude scintillante
né il mosaico d’oro del viso
della pietà
sono rivolti verso di noi.
—
Eva Bourke: è nata in Germania e da molti anni vive a Galway. Prima di Piano (Dedalus Press 2011) ha pubblicato cinque raccolte poetiche, tra cui la più recente è The Latitude of Naples (Dedalus Press 2005), tradotta in italiano da Chiara De Luca per la collana Snáthaid Mhór di Edizioni Kolibris (La latitudine di Napoli, Kolibris 2011). È curatrice dell’importante antologia bilingue inglese /tedesco di poesia irlandese, With Green Ink / Mit grüner Tinte (1996) e della versione inglese di Winter on White Paper (2002) di Elisabeth Borcher. Ha curato con Borbála Faragó l’antologia Landing Places: Immigrant Poets in Ireland (Dedalus Press, 2010). È membro di Aosdána.
–
Collana Snáthaid Mhór – Poesia irlandese contemporanea
EVA BOURKE, La latitudine di Napoli
Traduzione e introduzione di Chiara De Luca
ISBN 978-88-96263-33-4
pp. 218, €15,00