Nello scaffale
Carlangelo Mauro, Il Giardino e i passi, Archinto, euro 10
Recensione di Loretto Rafanelli
Al termine della lettura de Il Giardino e i passi, ci pare quasi di conoscere la lunga fila di familiari, amici, conoscenti di Carlangelo Mauro, le tante persone che vivono nel tenero abbraccio del poeta e popolano le vie di San Paolo Bel Sito, piccolo centro del napoletano: il babbo con l‘850, Nino il nonno (che “camminava/ negli ultimi anni/ come ora mia madre/ per un accidente cerebrale”), Mariano il farmacista del paese (che “per chiudere le riunioni ci lanciava/ addosso il salammonio”), gli amici periti anzitempo, Rosanna, Andrea (col quale “ci allenavamo sull’asfalto/ il vecchio comune/ divenuto scuola media/ e per noi campetto”), l’insegnate Confetto fedele ai suoi libri ma ormai sola al lume della sera e Felicietta nella sua verde casa (“nella terra confitta/ là dove passavamo/ oltre il viale/ attenti ai gigli viola/ che piantasti// il grande rifugio verde”). Mauro ci lascia la traccia di un mondo lontano, forse perduto, eppure vivo e amicale, che rappresenta per lui un vero e proprio luogo dell’anima; ci regala l’immagine di una comunità raccolta nelle gioie e nelle ansie della vita, nella rassicurante e antica identità, ormai sconosciuta nella frammentata mappa geografica di oggi. Rimane quasi il desiderio di vedere questo angolo dell’Italia, di poter vivere la sua infinita comune storia, con i consolidati spazi, che non è possibile dimenticare: la piazza, crocevia di volti e di voci, il campetto dove giocava la squadretta dei piccoli (“di quella squadra/ ribattezzata Schalke 04/ in omaggio ai parenti/ emigrati in Germania”), il cimitero dove buona parte dei ricordi di una vita del poeta lì ora riposano, e altri angoli che stanno nelle sue labbra. Ma pur se i versi diffusamente richiamano il tenue filo che accompagna l’esistenza e la presenza incalzante della morte, paradossalmente non si avverte in questa poesia il senso della fine come minaccia continua, dolorosa e ravvicinata. Forse perché proprio citandola, la morte, si allontana o forse più probabilmente perché raccontandola con la delicatezza del canto, svanisce con tutta la sua durezza. E pur alla presenza di una “civiltà di vivi e di morti”, quella in cui siamo (come osserva Cucchi, nella bella introduzione, riprendendo Raboni), la poesia di Mauro, sicuramente struggente e partecipata, ci perviene come un respiro tenue, quasi ospitale di un discorso ulteriore, che supera ogni evenienza per donarci un fondo di vita, o la bellezza sfuggente di un ricordo o la fissità di una immagine, come può risultare da una vecchia foto sfilacciata. Allora viene da pensare che l’esistenza sia sorretta dalla misericordia e dalla semplice prova del vivere quotidiano, come, senz’altro è lo scandire della civiltà contadina o la felicità passata che si sente in noi e non fugge più. Comunque si intenda, rimane della fine non la pena ma quel senso di mistero che è senz’altro la vita. Il Giardino e i passi, non è neppure un abbecedàrio delle tragedie familiari e paesane, ma una partecipazione commossa agli affetti vicini, cioè le storie che scaldano il cuore e la vita del poeta, perché l’irriducibile amore, il forte abbraccio e il sorriso delle persone che non ci sono più, sono ancora care nella mente, e questa memoria intima, domestica, diviene tensione emotiva, terra fertile per la voce poetica. Come nella bella poesia dedicata al padre, che vive la fragilità estrema in un letto di ospedale: “qui vive la fragilità mi è accanto/ un corpo pieno d’anima che non/ posso sostenere/ ti è più grave il peso, quando/ un sorriso brivido d’istante/ già disperi fugga/ oltre gli alberi”. La poesia deve alimentarsi anche di questo, dell’ossessione relativa a ciò che abbiamo lasciato o perduto (e in tale perdita c’è anche la mutazione del paesaggio, per non dire della sostanza fuggita dell’antico ritmo delle cose). Memoria accesa che allevia le ferite esistenziali, che riporta il sorriso dei volti svaniti e le immagini di un tempo esaurito. Mauro riesce a restituirci tutto questo attraverso una lingua misurata e sicura, concentrata sulla disponibilità di dire, anziché di affermare. Una parola precisa e armoniosa, per quanto i versi a volte si presentino come singhiozzanti, e ciò forse è pianto ma più probabilmente desiderio di attraversamento del tempo, quel tempo dai ritmi infiniti, quindi difficile da percorrere.