Letture
a cura di Luigia Sorrentino
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Con “La terra franata dei nomi”, opera prima di poesia, Gabriele Gabbia penetra nel frammento, nella sua voce scissa eppure ineluttabile, attraversata da profonde tensioni endogene. Il misterioso epicentro della “frana”, della forza tellurica che ci consegna questi testi, risiede in quell’altrove della scrittura che è all’origine di ogni scrittura, in quel baratro, in quell’abisso da cui cercano di risalire i versi nella loro indifesa, implacabile nudità.
E’ bene sottolineare che non si tratta di una nostalgia per un’origine unitaria perduta, che probabilmente non c’è mai stata, quanto piuttosto della testimonianza di una parola sofferta, dilaniata, combattuta.
Ciò che compare sulla pagina è l’orma, la traccia di qualcosa che già da sempre reca in sé il dramma di una ferita che è lotta, luogo di una contesa continua, segnata dalla mancanza, destinata inesorabilmente al nulla, perché – come ebbe modo di scrivere il grande Edmond Jabès – “la scrittura non è mai una vittoria sul nulla, ma l’esplorazione del nulla attraverso il vocabolo”.
La poetica del frammento non deve però essere intesa qui come sospensione, vaghezza che resta a mezz’aria, indeterminatezza lessicale.
La contrattura dei versi di Gabbia è invece dominata da una fisicità lacerata, da uno spasmodico contrasto che passa inevitabilmente dal corpo, dal suo paradosso di intimità e lontananza insieme, alla ricerca di una identità impossibile. Ogni frammento è un mondo separato, un microcosmo intensamente stratificato, percorso da una voce che si spezza in un’altra voce – come evidenzia l’uso del corsivo all’interno dei testi, creando così una poesia nella poesia – ai bordi di un precipizio, di un annullamento, in un’atmosfera che talvolta fa pensare a Beckett.
[…]
Con questi iniziali, intensissimi versi, Gabriele Gabbia ci introduce nel suo percorso poetico, disseminato di frammenti che sottendono una precisa qualità metonimica, ovvero la capacità di essere parti che in realtà sono sempre tutto, pur nella loro interna lacerazione e nella loro contrazione: segni ciascuno della sismicità dell’esistenza, dei suoi irrimediabili urti ed antagonismi, della sua inequivocabile tragicità. E l’opposizione interna, che sovente innerva, sostiene ed allarma i testi nello sdoppiamento della voce, è ben resa da allitterazioni e paronomasie volte a configurare una specularità dell’opposizione stessa, in una sorta di ribaltamento dei contrari che mina fortemente ogni processo d’identità, travolto e stravolto dal tutto/nulla dell’assenza.”
[…]
Dalla prefazione di Mauro Germani
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POESIE di Gabriele Gabbia
– Concrezioni; reliquie –
I.
Trovammo gesti fra foglie
improvvise spirali inattese
cose appartate, audaci
nel loro essere inconsuete,
insolute, mordaci paure, parole
portate lì, muraglie di somme
– resti – di ciò sappiamo e non
siamo – orme.
II.
Bisogna non dirsi, non
pronunciarsi, esimersi
per riceversi, eludere
il proprio enunciato, il
proprio interno
dettato – per
cospargersi
e congiungersi
occorre
disconoscersi.
III.
È tardi – è l’ora
della cenere. Origini
e miserie disciolgono
il bersaglio. Assembrano
elise presenze. È tempo
di subire tempo.
– La morte della mente –
I.
Da quella lente sgorga ancora quella sera
(odo il vento che diviso ha vie)
– ricordi? Dicesti “il vento è importante” –
un riverbero di riso che occhi ha chiuso
l’incerto passo, sulle orme di case…
II.
Vedo spalle nei tuoi passi
e la morte della mente
avvicinarsi – questa
cesura da te non consola
semmai ricama, dispiega
occulta, l’ordire dei giorni…
L’amore: quel boia
che ciascuno reca in sé.
III.
Ti è morta nella testa la testa
dell’amore, giace, esangue,
nel suo stillato stillicidio
– gravido – di calvario. Il
tempo si annuncia deserto.
La porta d’inizio è ciò
da cui fuga ogni fine.
– Dal nulla da cui vedo –
I.
Tu fughi ogni inizio –
non permane questa vista,
questa offerta, questa ridda
composta, appena lambita,
intuita, dell’ordine cieco,
deciso, dell’occhio.
II.
Mente, l’occhio
nella sua cocchia.
Solo empie vuota
sciacqua. E rabbercia
il suo cavo – nulla.
III.
Ho sempre guardato
– guardato – dal nulla
da cui vedo i corpi
della soglia, laddove
sono rimasto
a fissarne
la fissità inquieta
d’un nulla.
UNA VOLTA SOLA…
Talvolta ti atterra il corpo addosso
ed è il cupo gorgoglio di un verbo
mentre si vaga, per ossessioni, per
stordimenti – per storni. Il corpo –
un ceppo – si allontana dallo sguardo
– suo epicentro, suo traguardo – nel
candore stridulo delle cose, ove niente
impedisce la resa, la dipartita, ove la
voce si ascolta una volta sola, mentre
tutto non torna – è diverso -: ricomincia.
AVVENTO –
Defraudato nel corpo
dal corso di ogni possibile
avvento e nella mente dal
presente nell’assenza di ogni
essente: la tragicità del vero –
il divenire-incarnato di un calco.
A FONDO INFISSA…
Muri scontrosi in Contrada Santa Croce avanzano
– adornano diafano un viso – fra scaglie residue
d’un tempo rimasto e ciò che del tempo tuo
ti rimane e l’immensa corona di spine
ogni giorno più a fondo infissa
nel cranio d’avorio e aria
che t’è toccato in vita.
LA PERDITA DI TUTTO…
La prima solitudine
nell’auto – vettura vuota
– corpo – vascello abbandonato. Seduto,
risucchiato nel sedile senza fondo, a fianco
dell’assenza di tuo padre. Fuori
la perdita della luce delle mani degli anni…
La perdita di tutto. Anche –
anche di questo,
ricordo.
IO SARÒ VOI…
Io sarò voi –
i morti, tutti,
noi, voi
dopo di me,
quando
solo, soffierò
lo sguardo,
da ciascuno
di voi tutti
su ognuno
di me.
ERI TUTTI…
Il battito della stanza
coagulato, si fermava,
ci assaliva, un tempo
senza tempo, un ascolto
in ascesa. Il rumore
era un cerchio lontano. Tutto
era fermo, mentre tu, procedevi –
eri tutti.
UN LUNGO DELIRIO…
Il capo: un ventre spaccato
– in fondo, quella città: un lungo
delirio. E ancora:
quel capo – quel canto
cui nessuno appartiene. Tu
soltanto salmodi quel salmo.
IL NULLA ATTRAVERSATO…
Non la misura – la summa
il senso delle cose. – Questo
mi dicevo
nel primo pomeriggio
d’un sabato d’autunno
quando maree di punti
rette in fermento
luci tumulti e
scie d’ignoto
attraversavano
il nulla attraversato.
L’ISTANZA –
Un primo temporale: t’intercetta
il suo testamento. Tu
solo vi fai approdo. Ora
l’ora ti riguarda – assembra –
l’istanza capitola a terra. Alfine
lo spazio circuente t’affranca:
ora – anche tu – sei aria, assolta.
*
La tua religione sprecata
nell’invoco alla lingua
di tuo padre come sgorgo
divino plasmato, che implode
ferito. Sangue
che chiede e non dona
– non sana -, affonda.
—
Gabriele Gabbia è nato il 14 luglio 1981 a Brescia, città in cui vive e lavora. È diplomato in discipline artistiche. Sue poesie sono apparse su riviste, antologie di premi, blog, websites (tra cui quello di Nanni Cagnone, nella sezione “Guests”). Nel 2011 ha pubblicato – nella collana “I germogli” diretta da Stelvio Di Spigno per le edizioni L’arcolaio di Gianfranco Fabbri – “La terra franata dei nomi”, con prefazione di Mauro Germani, premiata con “Segnalazione” alla XXVI edizione del Premio Nazionale di Poesia Lorenzo Montano, di cui – tra l’altro – nel 2013 ha vinto la XXVII edizione nella sezione “Una poesia inedita”.