Eva Bourke, “Piano”

Di Eva Bourke Edizioni Kolibris ha già pubblicato la raccolta poetica La latitudine di Napoli (2011), in cui poesie e prose poetiche si alternano a intonare un lungo canto ininterrotto dalla prima all’ultima pagina. Allo stesso modo in Piano, la voce della poetessa si leva in un inno che abbraccia luoghi, situazioni e persone, intrecciando tra loro passato, presente e futuro, per cui la raccolta stessa diviene quello Zeitraum di cui canta la poetessa, una compresenza di luogo e tempo, che in quanto tale, è “luogo” privo di coordinate spazio temporali, dove esperienza, ricordo, racconto e parlato convivono e si compenetrano, confondendosi nel flusso della storia individuale al confluire nel grande mare della storia collettiva. In questa raccolta, così come già nella Latitudine di Napoli, la poetessa prova e suona tutte le corde della propria voce, giocando su una grande varietà di ritmi del verso e del verso in prosa. Centratissimo dunque il titolo del libro, che tra le mani materializza lo strumento stesso, mentre le dita lo suonano, sfiorando i tasti bianchi delle pagine e quelli neri delle lettere. Il vuoto apparente della carta e il nero in movimento dell’inchiostro compongono la musica del verso, tra le pause degli spazi vuoti e l’eccezionale densità della parola riappropriata. la lingua di Eva Bourke è sempre musicale, pur nel repentino variare delle andature, dal ritmo spezzato, sincopato e pausato di alcuni testi, al morbido fluire del verso lungo in altri e fino alla cascata senza appigli di punteggiatura e pause della prosa poetica. La Bourke è poetessa fine e sa forgiare un verso sempre elegante e “letterario”, misurato e in equilibrio sullo spartito della pagina, anche laddove canta situazioni e circostanze all’apparenza banali, quotidiane, quando non umilissime o meschine, anche quando indulge nel parlato e nella rievocazione frammentaria. C’è un amore di sguardo che avvolge e un abbraccio d’anima che tiene il mondo, ora con dolcezza ora con violenza. C’è il desiderio di nominare cose e persone, di spazzare via la polvere dalle vecchie foto, di riaprire antichi armadi e scendere nel buio di cantine e sotterranei dimenticati, o soltanto accantonati nel buio che li inghiotte al rogo vorace del dolore. In questa raccolta poetica la Bourke stessa si fa strumento, si fa “anima del piano”, cui l’ebanista diede per compito “obbedienza e risonanza”, lasciando vibrare liberamente le corde del proprio intimo sotto le mani impietose e sicure della poesia, che strappa al poeta la voce dalla gola, diffondendola nell’aria.

Chiara De Luca

A View of Berlin
.
A Turner sunset. Descent of late-May night, wispy grey
fabrics are lowered over rooftops, dreary post-war
tower blocks. Darkness embraces the lindens,
their diadems splendid and intricate as Gothic spires,
flows otter-sleek through arches, leans
in doorways, open windows, encircles all. The past
never comes to an end here, a coal barge chugging
upstream drags a long memorandum in its wake,
Cyrillic lettering crinkles the slick surface.

Boats moored to the Spree banks rock on the backwash,
the small waves slap and buffet the hulls.
Seated on deck where a confluence of tributaries causes
the sluggish river to widen and slip through a series
of locks, all sparkle and obsidian lustre, we watch
tourist boats being lifted to the next level,
strings of light bulbs looped around prow and rail,
people in summer gear stride across bridges and the bright
trains stream past along tall, spindly elevations.

Dressed up in flimsy stuffs, diaphanous and dusky,
the new-fangled city drowses on the opposite bank,
a mirage, where Mosquitos, Halifaxes once swooped
across the black-out streets spilling their cargos.
Traffic sounds are muted, discreet as the song
the night hums to itself. On the squat complacent
turret of the Palace of Justice a corona of warning lights
signals stern sentences to all, and the bulky
star-tipped domes go off and on disputing
eternally. War hides nearby in a basement room
busy drafting a memoir, a work in progress,
bending low over the latest murderous chapters.
And now the night releases its spillage of black
oil and the gas lanterns lining the long
streets spread the dim glow of bad
memories. Again the rough drafts of yet
another beginning-but how could one on such nights,
you ask, imagine the perfect machinery of control

that severed the river once, barbed wire, mines
watch towers, guards, guns spelling death to anyone
brave or foolish enough to attempt swimming
across. It became a graveyard. So many tragedies,
so many lost. The lists state: drowned, shot-or both.
Between high-rises on the island near us where fire-storms
had blazed devouring house by house, enshrined
in the lindens’ tabernacle, a nightingale suddenly
strikes up its midnight song, hidden, we think,

among the topmost branches or in a tangle
of willows on the far bank, singing at
the behest of a forgotten minor godhead passing
through en route somewhere: the god of reed pipes,
cat calls, piccolo flutes, the god of street-gang
whistles, radio Warsaw signature tunes,
the god of trills and grace notes, in the guise of a Venetian
youth, descant or altus: the dulcet staves
of a wordless miserere that echo in the lofts of the night clouds

an oboe d’amore at odds with the percussive bass notes
of the traffic, calling across distances as the world goes round
on tiptoe forgetting all about its business,
the handsome woman at the table near us who’s been
relating a litany of loss to her friend raises
her head and falls silent to hear the bird’s
ringing affirmations, a group of Russian tourists
in the prow quietly put down their drinks, all of us
listen as to a child calling outside the window,

insistent, melodious, to return to the unmutilated
garden, place of leaf shadow, of forbearance, secrets
and unrestrained singing among willows, scrub, weeds,
nettles, wild angelica, buttercups, tangled grasses;
even the no-nonsense waitress busy clearing
away the glasses stands still beneath a flickering
halo of night moths that circle the deck lamp, talking
to herself as though trying to solve a mystery,
a question not even the merciful night can answer.

Uno scorcio di Berlino
.
Un tramonto di Turner. Discende la notte
di fine maggio, strutture grigiastre erano
basse sui tetti delle case, tetri blocchi turriti
del dopoguerra. Il buio abbraccia i tigli, i loro
diademi splendidi e intricati come spire gotiche,
scorre lucida lontra dagli archi, si sporge da soglie
finestre aperte, circonda ogni cosa. Il passato
qui non ha fine, una chiatta di carbone che risale
sbuffando la corrente lascia un lungo memorandum
sulla scia, caratteri cirillici increspano la superficie.

Ormeggiate sulle rive dello Spree barche oscillano nella risacca,
piccole onde battono e schiaffeggiano gli scafi.
Seduti sul ponte dove un confluire di affluenti fa
ampliare il fiume e scivolare tra una serie di chiuse,
tutto un lustro e scintillio d’ossidiana, guardiamo
barche turistiche sollevate al livello successivo, corde
di bulbi di luce allacciate tra prua e parapetto,
gente in abiti estivi attraversa ponti e luminosi
treni sfrecciano su esili cavalcavia sopraelevati.

Vestita di stoffe leggere, scure e diafane, la città
ricostruita sonnecchia sull’opposta riva, miraggio, dove Mosquitos, Halifaxes scesero un tempo in picchiata
sul black-out delle strade rilasciando il proprio carico.
I rumori del traffico sono attutiti, discreti come la litania
che canticchi la notte. Sulla tozza torretta compiaciuta
del Palazzo di Giustizia una corona di luci di segnalazione condanna tutti duramente, e le corpulente volte
stellate vanno e vengono litigando eternamente.
Nei pressi la guerra è in agguato in un seminterrato
intenta ad abbozzare un memoriale, un work in progress,
chinandosi a fondo sui funesti capitoli finali.
E ora la notte rilascia il suo stillicidio di olio
nero e lanterne a gas che delineano le lunghe
strade spandono il cupo riverbero di brutti
ricordi. Di nuovo l’abbozzo di ancora
un altro inizio – ma come si può in notti del genere,
chiedi, immaginare la macchina perfetta del controllo

che divise un tempo il fiume, filo spinato, torrette
di miniere, guardie, fucili che condannano a morte
chi è così coraggioso o impazzito da tentare a nuoto
il passaggio. Divenne un cimitero. Così tante tragedie,
tante perdite. Le liste dicono: annegato, fucilato – o entrambe le cose.
Tra palazzoni nell’isola vicina dove tempeste di fuoco
sono avvampate divorando casa dopo casa, custodito
nel tabernacolo dei tigli, un usignolo all’improvviso
intona il canto di mezzanotte, nascosto, pensiamo,

tra i rami più alti o dentro un intrico
di salici sulla riva distante, cantando al comando
di un dio minore negletto che in qualche posto
attraversa la strada: il dio delle ancie, dei richiami
felini, dei piccoli flauti, il dio dei fischi delle bande
di strada, dei motivi delle sigle di Radio Varsavia
il dio di trilli e note di grazia, in forma di gioventù
veneziana, discanto o alto: il pentagramma soave
di un muto miserere echeggia nella volta di nubi notturne
oboe amoroso duetta con le note percussive di basso
del traffico, chiamando da lontano mentre il mondo
gira in punta di piedi scordando quel che ha da fare,
la bella donna al tavolo accanto che ha snocciolato
finora all’amica una litania della perdita alza il capo
e tace per ascoltare le asserzioni squillanti
degli uccelli, un gruppo di turisti russi
sulla prua posa i bicchieri con calma, noi tutti
ascoltiamo un bambino alla finestra che invoca,

insistente, melodioso, il ritorno al giardino vergine,
luogo d’ombra, indulgenza, di segreti e canto sfrenato
tra salici, erbacce, sterpaglie,
ortica, angelica selvatica, ranuncoli, erbe intricate;
perfino la cameriera seriosa intenta a sparecchiare
i bicchieri si ferma sotto un alone scintillante di falene
che accerchiano la lampada sul ponte, parla da sola
come per risolvere un mistero, una domanda cui
neppure la notte più pietosa può porgere risposta.

*

In the mornings always start with the sea
enter its glass vaults as it sways
and lifts its body towards the light

hungry for land and cliff
a fine dividing line inked

on the margins of its breviary,
blue washes on blotting paper.

But it is kind to swimmers, divers,
five-fingered stars, the salt skin of dreamers,

at noon there is something dance-like
in its movements, it

obeys a wavering
beat, febrile, restive, sifts

through edges, opens wide,
inhales the sun with grape-black mouth.

Listen for music in its depths:
the drawn-out dawn-lit stanzas

of seal song and whale call spilling,
echoing across a wide dance floor.

Go true south, press your ear to 30 feet of ice
to hear the choirs of the drowned sing.

Al mattino inizia sempre con il mare
che penetra le sue volte di vetro oscillando
e solleva il corpo verso la luce

affamato di terra e di roccia
una fine linea divisoria tracciata

ai margini del suo breviario,
l’azzurro dilava la carta assorbente.

Ma è gentile con tuffatori, nuotatori,
stelle a cinque dita, la pelle salata di sognatori,

a mezzogiorno c’è qualcosa di danzante
nei suoi movimenti, il mare

obbedisce a un battito
ondoso, febbrile, irrequieto, setaccia

le siepi, spalanca,
inala sole con la bocca d’uva nera.

Ascolta la musica nei suoi abissi:
le prolungate stanze albali di canto

di foche e richiamo di balene che stilla,
echeggiando in un’ampia pista da ballo.

Vai verso sud, posa l’orecchio su 10 m di ghiaccio
per sentire i cori degli annegati.

*
The Spider Revisited
1.

The spider that scuttled across the bathroom last night
was still there today struggling up the side
of the tub. I watched it lose its foothold, try to haul
itself up, slither down the enameled slide
and plunge back into the void.
I wondered should I play god,

and lifted it onto the ledge of the bath
with the handle of a brush. It slipped back
dangling and circling mid-air for a while
at the end of its invisible tether, a nest
of spikes, tangled darkness and dust,
so I blew on it-a soft breath-

it spun around, abseiling unspooled
ten or fifteen inches of silk,
and wriggled free to reel
itself in again. God must feel
misunderstood like that, I thought;
then I recalled heads of state and their ilk,

the countless examples of human folly, and abandoned
the spider, hanging in white
emptiness with nothing to delight or thrill
its greedy sinister heart, shut
the door on it as a god might
have, bored, cranky, sad.
.
2.

You wanted to play god? So I tricked you
by playing helpless. Yet a hundred eyes
on my back kept you in sight. I smelled
you even before I saw you:
the usual oily mixture

of the disgust and fascination I inspire
preceded you. Had you overcome your fear
and lifted me, held me in the hollow
of your hand, your palm
and fingers could not have enclosed me.

I am too long-legged, fashioned by genius
perfectly centred, seesawing on eight
points of the compass in my spiral
orb. I am a divinity in the halls
of my own worship, an idol, elegant,

poised on the tables of my mathematical
dining rooms of grace, my latticed larders,
you’re a boorish, shadowy, unwelcome
presence in this spot-lit space
of sinks, pipes, unsavoury smells.

Let me warn you, I have a skill
the goddess bestowed on me alone of all
creatures: I am gifted, I reveal
the hidden vices of the gods
woven into my flimsiest webs, visible to all.

*

Il ragno rivisitato
1.

Il ragno che se la svignava nel bagno la scorsa notte
oggi era già là che arrancava risalendo di lato
il lavandino. Lo vidi perdere piede, cercare di tirarsi
su, scivolare giù lungo il piano smaltato
e rituffarsi nel vuoto.
Mi chiesi se avrei dovuto fare il dio,

e risollevarlo fino al bordo della vasca
con il manico di uno spazzolino. Lui scivolò indietro
ciondolando e volteggiando a mezz’aria per un poco
al capo della sua invisibile catena, un nido
di chiodi, polvere e fitta oscurità,
così ci soffiai sopra – un fiato lieve –

lui vorticò, discendendo in corda doppia dipanò
venti o trenta centimetri di seta,
si dimenò per risollevarsi
nuovamente. Dio deve sentirsi
altrettanto incompreso, pensai;
poi ricordai capi di stato e similia,

infiniti esempi di umana follia, e abbandonai
il ragno, appeso nel bianco
vuoto con nulla a divertire o emozionare
il proprio avido cuore sinistro, gli chiusi
sopra la porta come un dio avrebbe
potuto, annoiata, nervosa, triste.

*
2.

Volevi fare il dio? Così ti ho ingannata
fingendomi inerme. Ma con cento occhi
sulla schiena ti tenevo d’occhio. Sentivo
il tuo odore ancor prima di vederti:
il consueto misto oleoso

di disgusto e fascino che ispiro
ti ha preceduta. Se avessi vinto la paura
sollevandomi, tenendomi nel cavo
della mano, il tuo palmo
e le tue dita non avrebbero potuto circondarmi.

Ho gambe troppo lunghe, sono opera di genio
perfettamente centrato, altalenante su otto
punti del compasso nella spirale
della mia orbita. Sono una divinità nelle sale
del mio culto peculiare, un idolo, elegante,

sospeso sulle tavole delle mie matematiche sale
da pranzo di grazia, le mie dispense reticolate,
tu sei una rozza, ombrosa, sgradita
presenza in questo spazio a tratti illuminato
di lavelli, tubi, odori nauseabondi.

Ascolta il mio monito, ho un’abilità
che solo a me il divino conferì tra tutte
le creature: ho un dono, rivelo
i vizi nascosti degli dei, intrecciati
ai più sottili dei miei fili, visibili a tutti.

*

Notes from Henry Street

with apologies to Montale
I

Gales that played wild and loose all night
with rubbish in the street and flung plastic
forks like confetti round the garden have died
away to the hum of Astras and Toyotas on wet tarmac.
There are worm-eaten floorboards in my room
and from the kitchen comes the smell of burning
toast. Non-stop rain blows in from the sea
along our street of Club Paradiso, sex shop
plus blackjack club, drifts past FOR SALE signs, past
the latest apartment block’s rain-blackened walls,
silvering my window with salt,
and I write to you from this remote table,
the cubicle, the satellite thrown into space-
and the silent TV, the fireplace
with its dusting of ashes, the veins
of slug slime and mould are the setting
which soon you will be coming home
to. These days, as I consider the narrative
of my life, are full of bluster and no chance
of an escape to gentler zones in sight.
Your photo’s on my wall-your smile lights
up my room. It’s raining hard from here to Finisterre.

II

Dear poet, we have no courtyards here, no fountains
scaling lofty architectural heights, but Texaco
stations, investment premises, condominiums,
shoddy, double-glazed, shuttered. Below
a platoon of gulls-sizeable monsters-en route to gutters,
eaves, the nocturnal streets brightly lit as day,
Midnight is noughts and dashes on a digital display.
We have screen-tested Andromeda-thin patterns
of stars that spiral round a vacuum-via satellite.
Memories return nocturnally, sere and raw. Ivy
spreads on partition walls, a dark bitter smell. Tonight,
my footsteps resounding on the pavement,
I wish, as you then did, for gales to return, northerly
and more savage than before, to lash through narrow lanes
sweep clear the hopeful, uncertain mind.
What can I say to the war reports, the endless
drip from black drains? Lights expire flickering,
the mountains across the bay, a critical mass,
lie compacted and black, the wind’s bickering
as ever, time trickling down the glass.
Instead, I have words with the dead, with death
with death who is alive and well and kicking.
*

Appunti da Henry Street

scusandomi con Montale
I

Venti che giocavano liberi e selvaggi tutta notte
con spazzatura per la strada e gettavano forchette
in plastica come confetti in giro nel giardino sono stati
spazzati dal ronzio di Astra e Toyota sull’asfalto bagnato.
Ci sono assi rosicchiate dai vermi nella mia stanza
e dalla cucina viene odore di pane
tostato. Pioggia incessante entra soffiata dal mare,
lungo la nostra strada di Club Paradiso, sexy shop, più club
di blackjack, scivola oltre cartelli IN VENDITA, oltre
le mura annerite dalla pioggia dell’ultimo caseggiato,
che inargentano la mia finestra di sale,
e ti scrivo da questo tavolo distante,
la cabina, il satellite lanciato nello spazio-
e la TV spenta, il camino
col suo spruzzo di ceneri, le vene di calce
di lumaca e terriccio sono lo sfondo
cui presto tornerai rincasando.
Questi giorni, se considero la trama della mia
vita, sono colmi di bufera e senza speranza
di fuga in zone più ospitali in vista.
La tua foto sulla parete – il tuo sorriso m’illumina
la stanza. Piove forte da qui a Finisterre.

 *

II

Caro poeta, qui non abbiamo cortili, né fontane
a scalare vette architettoniche maestose, ma stazioni
della Texaco, investimenti immobiliari, condomini,
meschini, con doppi vetri, serrati. Sotto un plotone
di gabbiani – grandi mostri – in viaggio verso grondaie,
cornicioni, strade notturne illuminate a giorno,
mezzanotte è zeri e trattini su uno schermo digitale.
Abbiamo l’Andromeda scritturata – geometrie sottili
di stelle turbinanti attorno a un vuoto – via satellite.
Di notte ogni tanto tornano ricordi, vizzi e crudi. Edera
estesa sopra muri divisori, buio odore amaro. Stanotte,
i miei passi riecheggiano sopra il pavimento,
vorrei che come tu facesti, i venti tornassero, da nord
e ancora più violenti, a spazzare angusti sentieri
ripulendo la mente incerta e speranzosa.
Che dire ai bollettini di guerra, l’infinito gocciolio
da nere fognature? Le luci spirano tremando,
le montagne sulla baia, una massa critica,
sono nere e compatte, il vento è litigioso
più che mai, tempo cola lungo il vetro.
Invece, scambio parole con i morti, con la morte
con la morte che è viva e sana e scalcia.
*

The Soul of the Piano

THE SOUL OF THE PIANO smells of damp backyards, potato soup, harbour bars after rain, of school rooms, war and gun powder, perfume and palace gardens in spring. I caress the piano’s soul, which is black and white in equal measure; sometime it is covered in ashes, sometimes gold leaf, I caress its varnished back, place a velvet cloth over it and listen to it breathe deeply, its strings tightened to tearing point. More than half a century ago, the soul of the piano came floating upstream on the Danube from the Black Sea – my father sailed it as it sang of the source of rivers and long dusty summer roads. My father was nine years old and wore a sailor suit and a boater with a blue ribbon. A Swabian cabinet-maker fished them out, built a lidded box for the soul of the piano, told it that its task was resonance and obedience and propped it upright against the wall of his tool shed. After my father had fled to live in the desert where he studied papyrus scrolls by starlight, it was abandoned and forgotten. Bats hung upside down asleep in its reverberating coffinblack case. Spiders, dragging their silken threads behind them, walked all over it and it fell into a long sleep wrapped in cobwebs, bat droppings and sawdust. Sometimes there was a faint echo of faraway bells in the shed. Sometimes a string snapped when rats marched on the broken keys. In a dream the soul of the piano danced in Warsaw streets and knelt on the Place de la Concorde amidst horse-dung and blood. It dreamed of storms, of thunder and hail showers, it dreamed of spring mornings. Once a young woman in pain from a broken heart said a name and the name stayed in the soul of the piano forever. Another time a man sick unto death dressed in coat tails with bloodied shirtfront played it more beautifully than anyone had ever played it. A magician from Africa cast a spell on it and it flew across continents like a comet releasing a trail of glittering notes. Sometimes the soul sheds its case and remembers how to use its keys to open all conceivable locks on earth.

L’anima del piano
L’ANIMA DEL PIANO odora di umidi cortili, zuppa di patate, bar portuensi dopo la pioggia, di aule scolastiche, guerra e polvere da sparo, profumo e giardini di palazzi a primavera. Accarezzo l’anima del piano, bianca e nera in egual misura; talvolta è rivestita di cenere, talvolta di una lamina d’oro, ne accarezzo il lucido dorso, vi pongo sopra un panno di velluto e ne ascolto il respiro profondo, le corde tese fin quasi a spezzarsi. Più di mezzo secolo fa, l’anima del piano risalì ondeggiando dal Mar Nero il Danubio – mio padre al timone cantava della sorgente dei fiumi, di lunghe strade polverose d’estate. Mio padre aveva nove anni e indossava una divisa da marinaio e una paglietta con un nastro azzurro. Un ebanista svevo li ripescò e costruì una scatola con coperchio per l’anima del piano, le disse che aveva per compito obbedienza e risonanza e la pose ritta contro la parete del capanno degli attrezzi. Dopo che mio padre era fuggito per vivere nel deserto, dove studiò rotoli di pergamena alla luce delle stelle, fu abbandonata e dimenticata. Pipistrelli dormivano appesi a testa in giù nella sua cassa echeggiante, nera come una bara. Ragni, che dietro di loro tiravano fili setosi vi camminavano per poi cadere in un lungo sonno avvolti in ragnatele, guano di pipistrello e segatura. Talvolta nel capanno c’era l’eco sommessa di campane distanti. Talvolta una corda schioccava quando i ratti camminavano sulle chiavi spezzate. In sogno, l’anima del piano danzava per le strade di Varsavia, per inginocchiarsi in Place de la Concorde, tra sangue e sterco di cavallo. Sognava tempeste, tuono e scrosci di grandine, sognava mattini di primavera. Una volta una giovane donna addolorata col cuore spezzato disse un nome e quel nome rimase all’infinito nell’anima del piano. Un’altra volta un malato terminale, con indosso un frack e uno sparato rosso sangue, la suonò meglio di chiunque altro prima. Un mago africano vi gettò un incantesimo ed essa fluì come una cometa da un continente all’altro, rilasciando una scia di note scintillanti. Talvolta l’anima del piano rovescia la sua cassa e ricorda come usare le chiavi per aprire tutti i lucchetti possibili e immaginabili in terra.
(Traduzione di Chiara De Luca)

Eva Bourke è nata in Germania e da molti anni vive a Galway. Prima di Piano (Dedalus Press 2011) ha pubblicato cinque raccolte poetiche, tra cui la più recente è The Latitude of Naples (Dedalus Press 2005), tradotta in italiano da Chiara De Luca per la collana Snáthaid Mhór di Edizioni Kolibris (La latitudine di Napoli, Kolibris 2011). È curatrice dell’importante antologia bilingue inglese /tedesco di poesia irlandese, With Green Ink / Mit grüner Tinte (1996) e della versione inglese di Winter on White Paper (2002) di Elisabeth Borcher. Ha curato con Borbála Faragó l’antologia Landing Places: Immigrant Poets in Ireland (Dedalus Press, 2010). È membro di Aosdána.

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