Letture
a cura di Luigia Sorrentino
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“Cassetti”, di Daniela Tomerini, Moretti & Vitali, 2012
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Nota Critica di Paolo Lagazzi
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Tra i nuovi scrittori italiani Daniela Tomerini occupa un luogo appartato, del tutto a sé. Nata come artista, suggestionata dalla pittura e dalla calligrafia giapponese, intrisa di spiriti zen, si è avvicinata di recente alla narrativa e alla poesia. Procedendo in punta di piedi, silenziosa e discreta come uno di quei messaggeri dell’altrove (viandanti angelici o astrali) da lei rappresentati con tratti veloci di pennello, nel 2006 ha pubblicato uno smilzo libro di racconti, Segreti per una vita di qualità (Il Filo). Questi racconti sono il frutto di uno sguardo profondamente originale sulla vita, il tempo, i desideri e le illusioni. Ci insegnano che basta pochissimo per schiudere delle prospettive di luce tra gli stanchi fondali delle nostre giornate, ci invitano a scoprire i semi vitali sepolti nel terriccio della nostra ignavia, ci offrono doni fatti di nulla, eppure efficaci nel preservare il soffio della speranza. A questo libro si affianca ora Cassetti, una raccolta di versi altrettanto delicata e icastica, altrettanto segnata dallo stigma dell’originalità.
In una delle poesie più emblematiche del libro l’autrice ci racconta di una prozia, “una sarta / piccola e sottile” di nome Mary che “tagliava la stoffa / come se dovesse fare a pezzi / il suo cuore” per ricomporlo poi in frammenti cuciti con quieta passione. Questo lavoro non seguiva mai progetti mentali: Mary “non faceva prove”, uno sguardo ai clienti le bastava per capire la taglia, le misure, le proporzioni del vestito da creare. In modo molto simile si sviluppano le poesie di Daniela Tomerini: non certo come esercizi di un astratto rigore o alchimie da laboratorio, ma come manufatti irrorati dal calore prensile e rapido dell’intuizione, dal ritmo “in battere” e “in levare” del respiro, del cuore. Ciò non significa che questi versi si limitino a dispiegare figure da assaporare come frutti semplici, elementari: un altro testo cruciale della raccolta, quello che la intitola, evoca un uomo che durante il giorno andava in ufficio, ma “quando era libero dava forma ai suoi sogni” progettando e costruendo mobili fantastici, colorati, capaci di stupire, ricchi di cassetti, nascondigli e doppifondi. Per quanto concepiti in un linguaggio sobrio, naturale e leggero, anche i componimenti di Daniela sanno suscitare aloni segreti, irradiano tinte e ombre, creano riverberi o fate morgane attorno alle immagini moltiplicandone i sensi. Uno spirito ludico, sottilmente paradossale e bizzarro, teso a giocare con gli oggetti, votato a maneggiare le occasioni come frammenti di una materia porosa e malleabile, s’incontra-scontra in queste poesie con una profonda propensione alla tenerezza, alle atmosfere domestiche, al pudore dei sentimenti quasi inconfessabili, alla patina degli attimi persi e ritrovati, agli sfumati melanconici della memoria. Mentre in giugno “uccelli riempiono / gli occhi di sciami”, o “ali di lame scintillano nel sole”, a Milano in maggio un amore perduto intride i muri con i “rumori da nulla” di lacrime piccole, indifese. Mentre il paesaggio cretese vibra di luci di porpora, come se un otre di vino del banchetto degli dèi si fosse rotto e lasciasse colare le sue gocce sui palazzi, gli alberi e il mare, altrove ombre “strisciano / sull’asfalto” o penzolano “impiccate” a un intonaco… Tutto è zigzag, altalena, contrappunto per chi sa cogliere il recto e il verso dell’esperienza, per chi ama l’amicizia senza idealizzarla e conosce i volti (soprattutto femminili) dalla solitudine senza negare che anche in essi possa annidarsi il “tocco” della bellezza. Presa nella spirale di momenti che ora si induriscono come rami secchi ora lievitano come pani sfornati da mani celesti, l’autrice si confessa, tra le righe, incerta, innamorata di viaggi ma a volte intrappolata da amari pensieri, palpitante all’unisono coi colori radiosi del creato ma sensibile a tutto ciò che lo ferisce, come il vento quando lacera il cielo d’agosto striandolo di macchie, di brandelli “grigi e pesanti”, cascami di un sipario in disarmo.
Pochissimi, tra i poeti italiani recenti, possiedono un istinto altrettanto felice nell’evocare le “cose leggere e vaganti” di Saba, di Penna o dei maestri giapponesi della pittura a china, dello haiku e del tanka; ma Daniela Tomerini sa misurarsi anche con il lato tragico del mondo, con i conti che non tornano, con le onde di tristezza che si abbattono sui nostri passi, perfino col sentimento del vanitas vanitatum. Eppure qualcosa di irriducibile allo scempio, alla stretta del nulla resiste nelle sue fresche, coraggiose poesie: il sentimento del “miracolo”. Tutto muta rapidamente come le nubi che si inseguono in cielo simili ad angeli della metamorfosi o a scale, case, volute, carrozze, elefanti, cammelli, e il mutamento è veicolo di una “musica” chiara e segreta. Se l’uomo che costruiva mobili ne apriva e richiudeva i cassetti producendo note sui generis, Daniela sa ricavare dai doppi, tripli, quadrupli fondi dei suoi disegni in versi, e dai loro movimenti alterni, questa musica fatta d’echi, fruscii, vibrazioni, e sfuggente a ogni definizione. Potremmo chiamarla solo, forse, il suono iridescente del silenzio, il canto elusivo e schietto dell’anima. In essa continuiamo a sentire il miracolo della vita che si rinnova.
Paolo Lagazzi
Daniela Tomerini, Cassetti, postfazione di Stefano Lecchini, Moretti & Vitali, Bergamo 2012, pp.112, euro 12.