Riccardo Emmolo, “Ti parlo”

Nello scaffale
a cura di Luigia Sorrentino

Riccardo Emmolo “Ti parlo” Moretti & Vitali

Nota critica di Giuseppe Traina

Ci sono libri di poesia italiana che taluni poeti hanno voluto dedicare al ricordo della moglie (o compagna) morta. Nell’archetipo degli Xenia Montale optò per la valorizzazione del ricordo d’una minuta quotidianità che, in fondo, si risolveva in prosopopea dell’io lirico abbandonato dalla donna amata. Diversa la scelta di Lucio Klobas, in Giorni contati (1994), libro pur sempre caratterizzato dal verso prosastico e però risolto nella dimensione (fittizia perché postuma) del dolente diario-microstoria d’un amore e d’una malattia. Analoga, nell’opzione cronachistica, la soluzione di Milo De Angelis in Tema dell’addio (2005) e però giocata, a livello stilistico, su stridenti contrasti fra “alto” e “basso”, fra strazio e pietà.


Sono solo alcuni esempi d’una piccola “tradizione” ancora da studiare: e non è detto che Riccardo Emmolo li abbia tutti tenuti presenti, dato che in Ti parlo (Moretti & Vitali, 2012) ha trovato, e persuasivamente, una sua via all’auscultazione dell’io, alle vibrazioni memoriali (che si allargano alla memoria dell’infanzia in quel procedimento per cerchi concentrici di cui parla Jean-Pierre Jossua nella postfazione), alla ricerca del dialogo con l’assente, al riconoscimento di quanto la donna morta sia entrata a far parte integrante dell’io lirico, in una indissolubilità sancita dall’unione carnale (donde la centralità della coppia di poesie erotiche Ti parlo e Andata e ritorno).

La struttura del libro è occultamente triadica: ossia, non c’è divisione in sezioni ma c’è un ben netto passaggio dalla suite di liriche dedicate alla relazione amorosa, crudelmente interrotta dalla morte della moglie, a un gruppo di poesie fondate sull’evocazione della propria infanzia a, infine, un gruppetto di poesie nuovamente d’amore, ma non si sa bene se riallacciabili alle prime o aperte verso un nuovo futuro, come sembra suggerire Giancarlo Pontiggia nel concludere un ben partecipe risvolto di copertina. In altre parole, forse sarebbe perfino possibile leggere il libro come se avesse una struttura retroversa: ma il poeta preferisce non darci indicazioni certe al riguardo.

Però tutto questo, in fondo, conta poco. Ciò che importa è cogliere lo sforzo di Emmolo nell’indagare (e restituire in verso) come cambia la dimensione del tempo, fra il ricordo d’infanzia che caratterizza la zona centrale della raccolta, e la conquista d’una dimensione temporale diversa, fatta di unione profonda pur nel mutismo dell’ininterrotto dialogo.
E ci sarebbe da ripercorrere, con attenzione, lo snodarsi del diarismo che si sfilaccia, modernamente, in plurivocità franta ma non singhiozzante: c’è, infatti, in Ti parlo una misura di composta virilità, di problematizzazione perfino anticipabile all’infanzia («Bello sarebbe fantasiare ancora / offrire un rifugio ai tuoi singulti / ma rovinose sono le illusioni / degli adulti», p. 35), di estensione del discorso all’esterno rispetto all’io plorante, che rende queste liriche affatto diverse a fronte, per esempio, del modello pascoliano dell’evocazione dell’elemento naturale che si lega al culto familiare dei morti – modello che qua e là parrebbe riaffacciarsi, se non si trattasse d’un equivoco in cui si può cadere per eccesso di fisime intertestuali: si legga, infatti, La civetta e si verifichi come quel modello funzionava ben diversamente.
Al lettore attento di Ti parlo non sarà difficile cogliere, nella dialettica fra la topografia del ricordo d’infanzia e il più recente scenario della vicenda amorosa, una dimensione “glocale” che riutilizza una dettagliata toponimia iblea senza però indulgere (vivaddio!) al colore locale; rischio evitato grazie a una precisa sensibilità fonica per la restituzione delle forme dialettali avvertite come necessarie e soprattutto grazie a una campitura ampia del discorso, che pianamente s’allarga a una dimensione mitografica che sappiamo essere cara all’Emmolo intellettuale e saggista (all’autore, intendo dire, di Memoria e cecità, raccolta di saggi pubblicata nel 2010 sempre da Moretti & Vitali). Se quanto appena scritto non è sbagliato, allora, e per esempio, dai versi conclusivi della già citata Andata e ritorno sprigioneranno risonanze nient’affatto “archeologiche” bensì tuttora vitalissime: «”Insegnami la via del ritorno / le bonacce sulle rotte fenicie / il piccolo porto di Kamarina / le trazzere che salgono ai castelli, / le acropoli barocche…”», p. 61.

Infine, vorrei sottolineare come “Ti parlo” sigla la conquista di una leggerezza che sembra perfino paradossale rispetto all’argomento del libro (si legga, a mo’ d’esempio, Nell’orto) ma che non sorprende chi sa quanto Emmolo possa essere, come si diceva or ora, sì vicino a un’idea mitopoietica della scrittura (quella, per intenderci, di un Giuseppe Conte) ma possa anche condividere l’aspirazione a una poesia “leggera” per sottrazione di peso (nella versione che Paolo Lagazzi ha dato alle basilari indicazioni di Calvino). In quest’orizzonte di riferimenti italiani (per parlare solo di quelli italiani), con i quali Emmolo da anni fecondamente dialoga, si colloca, insomma, anche l’intenzione “costruttiva” del libro, la sua compattezza a suo modo narrativa, l’idea di un canzoniere “chiuso” che però può aprirsi ad altro (la propria infanzia) purché tutto si tenga, poi, nell’intensa dialogizzazione dell’io lirico. Cosa, quest’ultima, che è, per un lettore che mal sopporti l’odierna disseminazione del narcisismo, anche un grande dono intessuto di civismo.

Giorni del novantuno 

 
Giorni del novantuno quando
i bambini volavano con l’altalena
gli gnomi ricevevano le fatine
alle pendici del grande cipresso
Billy correva abbaiando alle galline
vitellini e pecorelle pascolavano
sul prato di padouk dello studio
nel forno i pasticci di melanzane
il nonno disponeva le posate
e nella notte di gelsomino s’udiva
alto sulla marina il giocofuoco
e gli anni sembravano aspettare
a palate e da qualche parte
forse con le dita intrecciate
sul manico d’argento del bastone
Donna Grazietta Grimaldi.

Hôtel Zagarella
 

Quella gita al liceo, quel gioco
a definirla con un aggettivo
e al tuo «materna» un pizzicotto
sulla gamba disse che non voleva
solo questo, ma a te questo bastava –
la dolcezza, la meraviglia
di essere capito e accolto
tu in fuga dalle liti in famiglia
in lotta contro borghesi e parvenus
marxista immaginario che amavi
di nascosto Dostojevski e Camus.

La gita a Palermo, l’anno dopo
e quella sera all’hôtel Zagarella
tutti sul terrazzino a ballare
sussurri nel buio fresco e salino
(sorelle lampare, mare di stelle!) –
quegli occhi accarezzavano, imploravano
ma tu esitavi, ti faceva paura
quella dedizione così sicura
di sé: quell’onda di beatitudine
davvero era gratuita? Avrebbe
cancellato davvero la solitudine?
E mentre la tua mente indagava
il tuo cuore garriva nel buio,
lucciolava nel mare.

 

Di notte il basolato

 

Di notte il basolato
se ascolti
ha il fiato
carico di molti
nitriti e afrori
di mule, frescure
d’alba e chiarori
tra graffi e cuciture
sul cuore della palla
quando fatalmente
volava oltre la spalla
diruta del torrente.

La vita buttana

 

Lo chiamavano Giovanni il pittore
di mestiere faceva l’imbianchino
quando gli andava di lavorare
era uno spasso vederlo giocare
al flipper del bar Trieste, il bacino
in avanti, i fianchi ciondolanti
parlare con la pallina, pregarla
con quella sua cadenza strana
o deluso insultarla e parlarci –
dico a noi – della vita buttana
di quel porco-di-dio che doveva
avercela con lui – sennò perché? –
e intanto scolare birre ghiacciate
fare pernacchie, tirare naschiate
e quando calavano in canna, scorregge –
ma in piazza Italia dovevate sentirlo
suonare Lady Jane e She loves you
che manco la buonanima di John Lennon
sapeva cantare e far ridere come lui.

Che la moglie l’aveva lasciato
portandosi dietro la bambina
lo venimmo a sapere la mattina
quando lo trovarono impiccato.

Andata e ritorno

 

Se entro tutto d’un colpo, t’inarchi
ondeggi la capigliatura riccia
acceleri il ritmo che dai fianchi
s’allarga alla stanza assolata
ai casolari sulla collina
alla pineta di Gerratana
corri a piedi scalzi felice
come da bambina nelle vanelle
cominci a galoppare, salti, ti alzi
con l’eleganza di un airone
da lontano vedi Malta
La Valletta, il frastuono della calca
dove finisce la processione
di S. Giovanni, inizia il giocofuoco…
«Tienimi, ti prego, tienimi forte!»

«Insegnami la via del ritorno
le bonacce sulle rotte fenicie
il piccolo porto di Kamarina
le trazzere che salgono ai castelli
le acropoli barocche…»
Quando stiamo abbracciati così
Quando stiamo abbracciati così
come un cerchio e il suo centro

quando le carezze scivolano dentro
come se in noi respirasse il mondo

quando ogni bacio basta a sé stesso
come un giardino riposa in un petalo

la nostra felicità è uno scandalo
per l’austerità della Storia

un abbandono più ricco di gloria
di tutte le conquiste del Potere

il più corposo, il più insidioso vino
per gli insonni vigilantes del Destino.

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