“Esser vivo, essere, esserci”
Su alcuni inediti di Giancarlo Pontiggia
di Chiara De Luca
I preziosi inediti di Giancarlo Pontiggia che qui presentiamo costituiscono l’inizio della sua nuova, raccolta in fieri. Si tratta di poesie finemente lavorate, di profonda musicalità e grande tenuta, portate da un ritmo ventoso e vibranti di un’intensa energia oracolare che abita una dimensione ctonia, dove i quattro elementi confluiscono dando luogo all’alchimia del processo creativo: dai detriti lasciati dal rogo della coscienza individuale nella notte della mente sgorga nei versi l’acqua di una nuova nascita, che risospinge il poeta a una luce inattesa, sottraendolo a un abisso densamente popolato dal buio e dai fantasmi di un’esistenza anteriore.
Il poeta pare abbandonarsi al flusso del discorso poetico, che scivola di verso in verso nella cascata dell’enjambement, per accelerare il ritmo man mano che un’immagine confluisce nell’altra, prolungando la precedente e delineando la successiva. Queste poesie si disegnano perciò sul foglio come un vortice, un gorgo dal quale le suggestioni, spesso oniriche, indistinte, ma potenti, emergono all’improvviso, di volta in volta accecanti per l’intensità della luce o la profondità insondabile del buio. Colpiscono gli accostamenti inconsueti, la contiguità tra la concretezza e fisicità delle cose d’ogni giorno e l’inconsistenza materica di elementi incorporei e impalpabili, l’interscambio tra immagini mentali e proiezioni del reale, che si susseguono e compenetrano tanto rapidamente da confondere il piano onirico e quello empirico, alla confluenza di passato e presente, di visione e memoria, percezione sensibile e desiderio, attesa, aspettativa.
Grande protagonista di queste poesie è il Tempo. Un tempo insondabile, che si sottrae a ogni tentativo umano di misurazione: mero “esercizio dei secoli”, esso scorre lento, inesorabile, all’apparenza senza scopo né senso.
“Buio // tarlo, / e marmorea cura” il tempo è ossessione, fiume da arginare ergendogli di fronte con un estremo sforzo la diga dell’azione, sia essa fisica o mentale. Il tempo è “pioggia densa, scura / di atomi sui molli /corpi che si sgretolano”, ovvero artefice dell’erosione, del disfacimento. Ma è anche “Ovario // profondo /dell’inintelligibile / mondo”. Il tempo è ciò che toglie la vita e la consuma, ed è al contempo ciò che la rinnova. Il suo scorrere e trascorrere è latore di morte quale premessa di nuovo cominciamento.
Di fronte al tempo l’uomo è solo, è inerme, senza appiglio né riparo, “in un franare di ore che sembrano giorni, / e i giorni anni – sospesi come un’era / lunga, vasta, immortale”. Nel territorio buio della mente l’uomo sta di fronte al tempo come al cospetto di un nemico di cui avverte la presenza senza poterne vedere il corpo, di cui percepisce l’essenza senza poterla toccare, dei cui passi avverte il peso e ritraccia le orme, senza tuttavia poterne ricostruire e seguire il percorso, la direzione e l’andamento.
“Giorni si susseguono a giorni, / il tempo va e viene, ogni / ora scaccia le ore / che si svuotano, / “Scale””: in questo progressivo svuotamento, che porta alla cancellazione delle orme lasciate dal tempo sulla strada dell’esperienza individuale, la memoria pare svanire, lasciando al proprio posto un vuoto, un’assenza di passato in cui radicare il futuro. Paradossalmente, è perciò proprio sulla tabula rasa del presente che si piantano i semi di un possibile futuro. È proprio dall’apparente mancanza di movimento nell’imponderabile trascorrere del tempo, dall’annientamento che porta alla contemplazione di una quiete “forte” d’energia quiescente che si percepisce il moto “micidiale”, esplosivo, potenziale, del mondo: “sempre, o contemplante, sentirai / il respiro / possente, luminoso / del mondo, la sua forte quiete, il suo / operoso, micidiale // moto.
Come il tempo stesso, le cose non hanno un principio né una fine, sono antecedenti e postume alla nostra presenza, alla scintilla della nostra esistenza. Le cose si sottraggono a ogni possibile misurazione, a ogni tentativo di comprensione razionale. Per questo esserci è “lasciare che le cose siano, e siano…” Abbracciare una fine “a lungo invocata”, rinunciare al Sé per confluire nel buio, consente al poeta l’adesione totale “alla vita, al sovrano, fisico, delirante / moto delle cose”.
Attraverso questo consapevole abbandono alla piena dell’esserci, dibattendosi “in un acquario di sogni / caotici e riottosi”, acconsentendo all’insondabilità dell’essenza del reale, si apre per l’individuo la possibilità di una ri-generazione di sé, nell’amnio di un presente senza più tempo né altro condizionamento: “sbrecciato, lo tiri su, il secchio, grondante / di muschi che si riversano, / si spappolano, acque su acque, scure, limacciose, le senti / col dito che s’immerge / nel freddo, niente che germina dal niente / stesso che genera se stesso.
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Il moto delle cose
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PROLOGO PRIMO
Sovrastino, su queste sabbie
Sovrastino, su queste sabbie
finissime, tese come un lino, vaste
come il fiammeo dominio dei pensieri,
cieli più ampi del tempo
che s’ingorga, lento, pigro
in una luce ardua,
ventosa
o s’infoschino – in una sera
scura, dura, scheggiata,
che si sgretola, pezzo
dopo pezzo, sugli scogli
ondosi, flagellati
da crespe dense di fuoco, erosi
dalla furia
gemmata degli elementi –
le porte, brucianti, dei tuoi occhi,
sempre, o contemplante, sentirai
il respiro
possente, luminoso
del mondo, la sua forte quiete, il suo
operoso, micidiale
moto.
PROLOGO SECONDO
Pochi versi, ma veri
Pochi versi, ma veri.
Valgano per te, come per me.
Che siano limpidi – per guardare il cielo
alto –
e severi, se così è il tuo animo.
PROLOGO TERZO
O tempo
O tempo
come vento
chiuso tormento
sempre cresci e decresci, lento
esercizio dei secoli. Buio
tarlo,
e marmorea cura,
pioggia densa, scura
di atomi sui molli
corpi che si sgretolano. Ovario
profondo
dell’inintelligibile
mondo: cesura, orlo
sul delirante
ignoto. Nome
di niente, folgorante
vuoto.
IL MOTO DELLE COSE
Nasce, il bimbo, alla vita, e vede
Nasce, il bimbo, alla vita, e vede
per primo il chiaro dei cieli e delle stanze
– fiamma che invade i suoi occhi
molli, ancora, di scuri tepidari, di sonni
deliranti. Viene
dal fondo dei popoli, delle madri
antiche come la specie; del tempo
in cui tutto fu cielo, e acque, e frastornanti
fogliami. Risale, dai grumi e dai fanghi
di ere troppo remote, di paste
scure, grondanti
muffe di un innominabile ade,
e si esalta, sospira, si dispera
mentre già la notte cala, che tronca
ogni luce, e lo immerge
in un acquario di sogni
caotici e riottosi.
Viene il mattino, un altro, si desta: com’è
che ritorna la luce, l’esile prima, poi
man mano più fulgida, folgorante
fino a sbiancare ogni cosa? E gli occhi
s’immergono di nuovo, s’imbevono, non hanno
altro da chiedere che questo
lasciare che le cose siano, e siano…
I segni che volarono, un giorno, fino a noi
I segni che volarono, un giorno, fino a noi
e ci colpirono; le cose
che già erano prima di noi,
e restano, quasi immortali, dopo;
tutto ciò che s’impadronì dei nostri occhi
e fece vela verso il cuore, navigando
per scogli di pensieri improvvisi, di immagini
celate, inaccessibili;
emozioni
che ci scossero, sensi
che ci turbarono, congiunzioni felici; dolori
che si tramutarono in pianti, giorni
di vaste nubi accidiose, che ci spinsero
sulle rive di una fine troppo
a lungo invocata
– non furono essi che ci legarono
alla vita, al sovrano, fisico, delirante
moto delle cose?
ESSER VIVO, ESSERE, ESSERCI
1
Vita, ma cos’è vita. E cos’è il fiele
che ti prende all’improvviso, quando
contemplando un cielo che si strugge
ferrigno, rabido, cupo, che preme
sulla calotta della mente, la tua, pensi
che niente, ma proprio niente
ti potrebbe scampare da questo
franare di ore che sembrano giorni,
e i giorni anni – sospesi come un’era
lunga, vasta, immortale – o quando, fissando
un libro che stai leggendo
da troppo tempo, ormai, senti
che i nomi si sgretolano, uno per uno, ostinati,
in polvere di suoni e di niente, e implori
un senso
unico, forte, uno
stupefacente prodigio che illumini
il buio, intediato, della mente,
la tua, di nuovo,
che si spappola
in materie straripanti, ignote, formine
colorate del mondo che intanto
si congeda in addii e ancora addii
– e senti
2
e temi, e nel timore ti separi da ogni cosa,
e da chi, perfino, ti è più caro; temi,
e tremi,
e non osi guardare fuori di te, e ti rinchiudi
in una cella di diffidenza e di rancore. E senti
che non hai doveri se non per te, e che ogni atto,
ogni pensiero è solo per stare un po’ di più, ostinata
mente,
sul suolo dei mortali. Esser vivo, essere, esserci:
solo a questo pensi, e pensi
come celare al mondo il tuo orribile segreto:
di stare, di stare più che puoi nel mondo
azzurro, tra i cieli e le terre, i fiori e gli asfalti,
starci comunque, anche tra gente che non ami,
in città tetre, apocalittiche,
malato, storpio, a mendicare
un po’ della loro vita
calda, inebriante
3
perché da sé inizia il mondo
e in sé, feroce, finisce,
e non c’è
altro che in sé non si figuri, ma tutto
sprofonda in questo nostro alveare
di pensieri e di sensi: dinanzi a cui tu, che passi,
ti fermi, stupefatto, e resti
con i tuoi pensieri
irresistibili, orrendi,
solo,
in un mondo solo, tra uomini che implorano
un amore qualsiasi,
e non l’hanno.
SCALE
Giorni si susseguono a giorni,
il tempo va e viene, ogni
ora scaccia le ore
che si svuotano,
fugge
la luce nella cisterna, porosa,
della notte, affondi
nella vertigine di un sogno, ombre
misere, truci, becchi d’aria, bolle
nella gran scatola
cieca, gorgogliante, ignaro
riprendi la vita di sempre, passo
dopo passo, fiduciosa
mente, t’illudi
che il mondo
(il mondo!) giochi a tuo favore,
è miele un incontro che per caso
ti tocca, e che soggioga
i tuoi sensi
poi, di nuovo,
sprofondi nel buio
di pensieri troppo scuri, grevi,
frantumati, che poco
a poco s’intrudono
nella calotta della mente,
quanti rami, quanti
stecchi fuori di te, dentro di te, come quando,
nei pomeriggi estremi che rilucono, d’estate,
ti addormenti
in una stanza riparata, ombrosa,
e discendi
nel sonno, discendi,
nel suo diaspro d’ore,
nel quale rimani per ore,
che sembrano secoli, fino a quando
risali, alle correnti
fulgide della luce, ancora
odori di muschio e di acque,
di spossanti solstizi, osservi
tra le stecche il seme di luce che t’inonda, bevi
il succo della vita, che si alimenta
ad altre vite, altre ragioni,
più remote, sprofondate
in un alveare di suoni confusi, pensi
a ciò che fu un tempo
la nascita, e prima ancora
il seme del seme, il concepimento
che sprigionò rapido una stirpe inquieta
uomini e uomini, bestie, radici, e folti cieli
sovrastanti quegli occhi spalancati, erano
i tuoi, là, che stupivano, e miravano
tutto, non sapevano, o già sapevano
forse, cos’è il beato non sapere
il felice
lasciare che le cose siano
ma t’inoltri
in aratri più distanti, erbacce
e spine ostacolano il cammino,
non desisti, insisti, ti laceri
i polsi, le caviglie, percepisci
l’odore di un mondo non tuo,
chiuso, impervio, contempli
la sua gloriosa autarchia, negata
a chi nacque
come te, un mortale, uno
come te, che respira, che sente,
che alza
gli occhi in su,
che cos’è, pensi, questa vita
se non vita in sé, soffi
di vapore che si sollevano
dalla bocca, sangue
che fugge dalle vene,
e s’impasta con la terra
è resa, ogni atto, ogni rovinoso
volere, che brucia
strato su strato, s’incaglia
contro un approdo qualsiasi
è la natura delle cose, dici,
e ti ritrai
in un fortino di pensieri immensi,
che ti sovrastano
turriti, irriducibili
sei lì, ma non sei lì, sei
dove altre scale sprofondano,
ed è buio, è caldo, ritorni
a ciò che già era, al principio
che luceva quel giorno: com’era forte
lo strido, come s’impenna
la fiamma della mente, inciampi
sull’ultimo dei gradini, sei già lì
ti fermi,
sulla soglia, l’antica, ai bordi di un pozzo
sbrecciato, lo tiri su, il secchio, grondante
di muschi che si riversano,
si spappolano,
acque su acque, scure, limacciose, le senti
col dito che s’immerge
nel freddo,
cos’era – ti chiedi – questo
fervente agitìo,
questo frùscio
di vite che premono, ansano,
che ribollono
nella gran pappa del mondo
il concime
della vita, la sua pasta
opaca, nera, che lievita, lievita
dal fondo delle cose
che furono, dal niente
che ritorna, dalla sua ombra
più lucente
e si riveste – ora vedi –
di un nuovo, fulgido
se stesso
niente che germina dal niente
stesso che genera se stesso
di Giancarlo Pontiggia
A una lettura a volo, colgo l’emergenza di un dettato poetico limpido che si muove come il moto dell’onda che nasce dall’onda, senza iato-frattura, con naturale continuità.Uno scorrere, tuttavia, nitido, lineare, con una precisa punteggiatura (il testo non rifugge dalla punteggiatura, sicuro com’è delle sue scansioni, della sua organizzazione logica)I temi affrontati, della vita: nascita e morte, del tempo inesorabile, del nulla certo, comunque, sono resi con un dettato scritto di “facile” lettura e comprensione, con un impegno “sopportabile” da parte del lettore medio. Ma certamente non facile. Non preferisco, ripeto da lettore medio, la poesia in cui le zone d’ombra la fanno da padrone, e la cui interpretazione diventa ostica, creandomi frustrazioni e sconforto. Con la conseguenza che il testo, alla fine, viene lasciato nello scaffale…
“Non preferisco, ripeto da lettore medio, la poesia in cui le zone d’ombra la fanno da padrone, e la cui interpretazione diventa ostica, creandomi frustrazioni e sconforto. Con la conseguenza che il testo, alla fine, viene lasciato nello scaffale…”
A chi si riferisce, Giovanni D’Amiano, quando scrive “ripeto” da lettore medio (eccetera?) Grazie
Senza dubbio poesia raffinata, lavorata, seducente, dove gli enjambement sono molto efficaci, come dici tu. Alla fine della lettura, però, mi rimane un sentore di già detto, già letto.
No, non sono d’accordo con il tuo commento, Alfonso Cataldi. Credo che la poesia di Pontiggia sia “preziosa” come scrive Chiara De Luca. Stiamo parlando di un autore che davvero si misura con il tempo, e che non ‘sbrodola’ versi come fanno in molti oggi. La poesia di Giancarlo Pontiggia è una poesia di pensiero, ed è intrisa di consapevolezza. La domanda che ponevo a D’Amiano non riguarda i versi di Pontiggia, ma mi interessa capire quali sono per un “lettore medio” come egli stesso si definisce, i poeti cosiddetti “oscuri”, ostici, come lui li definisce.
Forse mi sono spiegato male, Luigia, e rileggendo il mio commento, può sembrare che io mi riferisca ad una poesia “furba” riferendomi solamente alla forma (…lavorata, seducente per me nell’accezione positiva in questo caso). Non volevo dire che non è poesia “importante”. Certo che la consapevolezza c’è, si sente, caspita. Forse è un mio limite quello di non considerare la poesia nel suo insieme, quando dico che mi rimane quel sentore di già ampiamente analizzato, riferendomi ad esempio a passaggi come:
“…ti fermi, stupefatto, e resti
con i tuoi pensieri
irresistibili, orrendi,
solo,
in un mondo solo, tra uomini che implorano
un amore qualsiasi,
e non l’hanno”
Alfonso Cataldi, la poesia si interroga fin dai tempi più remoti, su tematiche analoghe, perché non molto è cambiato. L’essere umano si pone le stesse domande, da sempre, e c’è tanta solitudine in queste domande.
E’ necessario inserire questi versi inediti in un contesto più ampio (il contesto dell’opera) che qui, naturalmente, non hanno, essendo soltanto un’anticipazione. Ma questo dovresti saperlo, da attento lettore di poesia.
La poesia di Pontiggia, per esempio, che mi ha indotto a fare l’osservazione di cui sopra, è una poesia di grande qualità nel contenuto (sono d’accordo con te) espressa in forma leggibile. Insegna che qualità e leggibilità non sono un binomio impossibile, un ossimoro irrisolvibile.Alla tua domanda,Luigia, preferisco rispondere indicando un modello di scrittura “positiva” per il così detto lettore medio, che è poi colui che più consuma poesia, acquistandola, al di fuori degli specialisti e addetti ai lavori.
Chiedo scrusa, c’era un commento molto bello postato per Giancarlo Pontiggia in attesa di moderazione. E’ stato cancellato per errore. La persona che l’aveva postato, può gentilmente riproporlo?
Grazie mille!
Luigia Sorrentino