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Il 30 Maggio del 1946 a San Fele, piccolo paese della zona del Vulture, in Basilicata, nacque una delle più importanti poetesse in lingua dialettale che la Letteratura contemporanea riconosca: Assunta Finiguerra.
Come spesso accade, i poeti sorgono e maturano per molti anni senza che nessuno se ne accorga, lontano dai salotti intellettuali, mille anni luce fuori dal politico errare in lungo e in largo di tanti scriventi che, non avendo alcun talento, vanno procacciandoselo senza pudore o senso di umiltà; come spesso accade, i veri poeti vivono un’esistenza dibattuta nel piccolo della loro sofferenza, in geografie anche minime, occasionali, anonime.
Assunta Finiguerra è salita all’attenzione della critica solo un decennio prima che la morte, sopraggiunta il 2 Settembre del 2009, la portasse con sé, ma la vocazione alla poesia – possiamo dirlo con certezza – la chiamò fin dalla nascita, all’atto del suo venire al mondo e trovò spazio per manifestarsi quando i tempi si responsabilizzarono dentro una forma, quella che sarebbe diventata la lingua dialettale, la lingua viva e frontale del suo paese.
L’infanzia di Assunta Finiguerra si svolse interamente a San Fele. Terminata la scuola elementare, il padre non le permise di proseguire gli studi e la indirizzò verso un destino comune alle ragazze allevate nei piccoli centri di un Sud d’Italia a quell’epoca tanto struggente e fascinoso in bellezza quanto autoritario e castrante in termini di educazione del femminile. Assunta Finiguerra, stando ai dettami del padre (che lei stessa descriverà come un uomo austero e rigoroso), doveva sposarsi e prepararsi ad essere una brava moglie e madre. Il matrimonio ci fu e anche la maternità. Come unico momento creativo il lavoro in sartoria, a 18 anni, che lei avviò dopo aver frequentato un corso di ricamo presso delle suore.
Proprio in questi anni di conduzione domestica, la poesia fece le sue prime apparizioni, spingendo la poetessa a scrivere ovunque vi fosse uno spazio bianco su cui poter fissare un verso o un pensiero poetante: e così la carta pane, i cartoncini delle confezioni dei collant divennero bianchi approdi per l’inchiostro, un disperato inchiostro da cui versare per intero la sofferenza di uno spirito inquieto e ribelle. Tutta la poesia della Finiguerra è un grido di amore che passa attraverso l’idea della ribellione. Una donna vitale e curiosa come lei, tramortita nelle ambizioni, oppressa dalle strutture arcaiche e bigotte di una realtà paesana, frustrata nell’aspirazione alla libertà, non poté che, a un certo momento, esplodere in ferocia poetica e usare il dialetto (non a caso) come arma vincente da sguainare contro se stessa e contro gli altri. Ad accorgersi per primo del suo talento fu un parente, proprietario della casa editrice Basiliskos, che la incoraggiò a pubblicare lo svariato materiale inedito prodotto tra un lavoro di sartoria e l’altro. Al 1995 risale la sua prima raccolta “Se avrò il coraggio del sole”. L’opera, nonostante sia stata scritta in lingua italiana, già prelude a una forte crisi ovvero a un cambiamento radicale, a una seconda nascita. Assunta Finiguerra, in quegli anni, stava diventando ciò che era stata da sempre e ciò che sempre sarebbe stata. Il dialetto stava per comparire nel suo orizzonte immaginifico e metaforico. Al 1999 risale “Puozze Arrabbià”, seguono “Rescidde” nel 2001, “Solije” del 2003 e “Scurije” nel 2005, fino alle ultime produzioni che vedono la casa editrice Lietocolle sostenitrice commossa e promotrice caparbia della poetessa e del favore nazionale che il suo lavoro continua ad esternare.
La poesia della Finiguerra affonda le unghie nella terra di origine, ne coglie i dissapori e le contraddizioni, ma è anche una poesia che potremmo definire classica, zeppa di risorse mitiche e archetipi trasfigurati che esprimono l’amore per un tu, un tu mai svelato in un’identità precisa e che sconvolge i sentimenti della poetessa fino a chiuderla zoppicante in una passione dolorosa. Indipendentemente dal canto strozzato e sofferto che sicuramente è una marca identitaria di buona parte della sua produzione, Assunta Finiguerra ormai è entrata nel novero delle voci liriche più radiose e importanti. Una poetessa che ha avuto il coraggio del sole e ha cambiato la propria vita, al di là del bene e al di là del male.
di Carla Saracino
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Cume è brutte a vite si nun a cambe
te sscéppe pure re scarpe da i piede
te face sende nu diàvele ca crede
angóre a trenetà pe ddalle ngape
Aggia tuzzuluate a ccendenare de porte
facenne a pezzénde a ciéle apiérte
e cume u luandernine d’a notte
mane mane ca facije juorne me stutuaje
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Com’è brutta la vita se non la vivi / ti toglie anche le scarpe dai piedi / ti fa sentire un diavolo che crede / ancora alla trinità per darle in testa // Ho bussato a centinaia di porte / facendo la pezzente a cielo aperto / e come il lanternino della notte / man mano che albeggiava mi spegnevo
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Assunta Finiguerra “Fanfarije“, LietoColle Editore, 68 inediti con la prefazione di Franco Loi, (9,75 euro – sconto del 35% invece di euro 15, prezzo di copertina).
L’articolo è bellissimo e commovente, grazie Luigia Sorrentino per questo tributo a una grande poetessa purtroppo poco conosciuta, e grazie per il suo straordinario impegno a favore della poesia.
Giovanni D’Amiano La poesia, quando è necessità autentica, è tormento che scava dentro e condiziona la vita, è fonte d’acqua che, per quanto sotterranea e impedita, trova sempre la via (modo e linguaggio) per mostrarsi e sgorgare…La poesia non disdegna nessuna forma, se è autentica, troverà sempre e inesorabilmente il vestito adatto per “essere” nel mondo, per esprimersi e farsi capire…
Rossana,
ho conosciuto Assunta, una donna meravigliosa. Ha tanto sofferto, ma la sua poesia era… una musica. Forte e indicibile.
Quante e! Quante e e e e e nella lingua di Assunta Finiguerra.
Un dialetto poco diffuso in Italia. Alla televisione il veneziano, il napoletano ed anche il siciliano si ascoltano da cinquant’anni, ma il lucano mai sentito e ci vuole una certa applicazione per capirne il significato.
Una tristezza lacerante nel vivere acccanto, nel voler vivere una vita parallela a quella che non appaga, una vita che si spegne all’alba. Il problema non e’ solo al femminile, le donne e gli uomini che hanno studiato, che hanno svolto una libera professione o che sono stati solo poeti, compositori, o macellai, falegnami, costruttori di ponti, camerieri, minatori, cuochi, dottori che hanno dato la vita e contribuito a mantenerla, sono tormentati dalla stessa angoscia e non sanno come risolvere questo desiderio per l’altro.
Se fossimo felici cosa faremmo?! Non scriveremmo piu’ poesia?
“The longing for happiness finds repose in poetry”, Ludwig van Beethoven.
Cara Adriana,
hai colto bene! La lingua dialettale del sud e del centro sud Italia è una lingua vocalica. E’ per questo che senti prevalere i suoni vocalici… Un caro abbraccio
Luigia
Un colpo al cuore, questa poesia, scritta in un dialetto aspro, concreta e fatta di cose, im-mediata proprio perché libera, non prigioniera di parole ed immagini di altri o di arzigogoli intellettualistici.
Un colpo al cuore anche l’articolo della Saracino, che ha risvegliato il me il ricordo di esperienze vissute o sentite narrare,il rimpianto per vite mutilate e intelligenze sprecate,per il ripiegarsi malinconico di tante ali.