Letture
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Giovanna Frene, (foto di Orlando MYXX)
Commento alle sei sestine
Quella della forma metrica della sestina è stata da subito un’ossessione della mia lettura, prima che della mia scrittura. Quando, seguendo la suggestione poundiana, sostenni l’esame di Letteratura provenzale, dovendo leggere in lingua molti trovatori, fui subito attratta da questa particolare struttura logico-musicale; la celebre Lo ferm voler qu’el cor m’intra, di Arnaut Daniel, divenne la mia Bibbia. A più riprese il fantasma di questa forma metrica è tornato nei miei libri – e dico fantasma perché non solo non ne ho mai rispettato la struttura canonica, perché non avrebbe avuto senso, ma perché ritengo che per me la sestina sia, come certe composizioni di Arvo Paert, una percezione circolare e perpetua del mondo. Tutto ciò che pensiamo è dentro la nostra vita, anche i pensieri di morte, che apparentemente rimandano a un fuori. Nulla di ciò che pensiamo è esterno a noi, perché al di fuori dell’ambito del nostro pensiero non esiste luogo dove il nostro pensiero possa ricadere. Infine, ogni mia ossessione per forme poetiche che richiamino forme metriche chiuse, come la sestina e il sonetto, e a livello macroscopico il poemetto, più che da ascrivere a poeti a me vicini nel tempo, poi, è piuttosto da assegnare a un mio certo gusto archeologico, nonché alla mia formazione artistica (musicale e pittorica) precedente alla poesia.
Questa raccolta di tutte le sestine che ho scritto nell’arco di un ventennio ha, col senno di poi, un denominatore comune più o meno sotteso: la storia. Nelle Sette stanze auree si rende esplicito il rapporto tra scrittura e tradizione; la Sestina ripassata richiama la ciclicità della storia, con un occhio a Orazio; in Castore e Polluce il richiamo esplicito è all’11 settembre 2001; Tecnica di sopravvivenza per l’Occidente che affonda mette in scena il rapporto tra tecnica e crisi occidentale; in Sestina come canto funebre… l’omaggio a due grandi poeti si intreccia con lo stesso destino di morte che tocca ai soldati; infine, Liquefazione riflette sulla felice sorte dell’Impero romano d’Oriente, sopravvissuto per quasi un millennio all’infelice destino dell’Impero d’Occidente. L’Occidente oggi siamo di nuovo noi.
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Sette Stanze Auree
se infuria la peste
I.
Non si sarebbe dovuto dimenticare l’abbandono
l’idea del disfacimento molecolare del cuore
ad ogni rintocco dell’alto sole del tempo
il bene diventa sempre più male quale-è
e l’incompiuta nostalgia dell’inscorrente
discende sul capo di ognuno in forma di mente
II.
Sostenere lo sguardo del male temporale
se per sopportare un non-bene si deve attuare
un altro non-bene se per rendere commestibile
l’orrore si ingoia ogni sua paternità
non si dovrebbe recriminare sull’oscuro crimine
che spappola la radice della quiete astante
III.
Senti sanno di morte queste idee purpuree
impresse alle ombre apparenti visibili
verso la corruzione della materia della parola
si procede a file parallele interminabili
per tre volte ognuno si è sentito tradito
secondo deteriorizzazione d’immutabile ora
IV.
Ecco il segnale: il cielo passa inane
a nubi sopra l’immota terragelo
sommuove la devota concentrazione all’idea
della vita devasta simultaneamente il senso
oltre l’orrida fornace sfodera un niente
di luce inscintillante terrorizzante
V.
Questa luce che appena serve alla lettura
non illumina altro che la parola nella stanza
simile e insoppressa la notte recessa tutt’intorno
all’orlo nella vasta landa della fratellanza
insorti troppi scarnificati delucidati ii
insomma infruttuose metafisiche del giorno
VI.
Quella cosa di sabbia ritorna sabbia
se scrivendo non si è detto ciò che si è pensato
ma solo il modo in cui si è pensato di scriverlo
se tutto ciò che è detto non ricompare indetto
non è stupefacente la velocità con cui la mente
s’immedesima ineternamente nel male
VII.
Nel cielo risiede l’infanzia di ognuno
l’idea involuta d’ogni condizione in uno
se sotto la pelle non è la mia la mente
verso l’infinita sabbia del ventre siderale
la vita che mi deborda dal cervello involo
la morte che raurosta sotto ogni tavolo
sopprime ogni bocca intenta al linguaggio
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Queste stanze rappresentano ognuna una sestina, di cui sia visibile
solo la testa e silente-bianco tutto il rimanente del corpo.
raurosta: da aurost, termine occitano che designa un canto funebre,
e da rantolare; il verbo raurostare, così composto, significherebbe
dunque: rantolare un canto funebre.
[da: Datità, Manni 2001]
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Sestina ripassata
il tempo s’infossa e s’inarca nel tempo
va e viene prestabilito e inconosciente
dissente in sostanza da ogni visione umanata
umana natura diseredata dalla coscienza
se fosse un terrore inesatto del vento tenue
di ponente la padronanza di ogni vita emanata
emana frammenti di liquido vischioso teso
fessata la roccia da un tempo ventoso
evanescente siccitosa sete in mente eternata
e terna innata ricomposta inamidata in uno
la coscienza fluttuante ripensa al vento primo
vereo nell’eterno (s)fiorire del vento meglio invernato
( – tutto è stato) (neve del Soratte, rovine -)
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umanata: emanata dall’uomo
vereo: come per cereo; che sembra vero
[da: Datità, Manni 2001]
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Castore e Polluce, in prospettiva aerea
Cava caerula candet
[Nevio]
L’ultima fioritura del corpo sarà eterea.
Il semprenero sempreverde sbuca e fiorendo fiorisce
e s’addice alla sua sorte che il virgulto adduca la sua morte.
Ma qui quale pietra serba il nome e come nel suo progressivo
inceneritosi decedere fissare nell’aria la perenne memoria
tra astri alternativamente semprevivi sempremorti?
La visione veduta offusca la ragione e ovunque semina
cecità: per i due occhi spenti insieme, per i due volti gemelli schiantati
non esiste ulteriore fioritura di mura neppure nel vento:
la prima semina fiorì in orbite in orbite fiorì il lampo.
Se il seme non muore non può nascere la pianta
[se noi non moriamo non possiamo essere seppelliti]
senza la cassa-bacello nessun tempo
di attesa legherebbe i vivi ai morti
perché cresca la pianta che non muore
il tempo della sospensione deve essere ogni volta seminato.
Se l’ultima semina seminò l’etere fiorito
e non un sasso cancellò l’anonimato stellare del fiore
qui rinvigorisce il puro ramo del domani al sonno
alterno [eterno, sempreverde, semprescuro, inferiore]
e sotto la cenere lo stesso sentimento ovale di un momento
scaglia al cielo ingenerato un infuocato furore divino.
La disapprovazione del germoglio, il consenso del seme:
più vicino alla sua lontananza insedia la materia l’orto sfiorito:
il tempo corporale fiorendo sfiorirà:
la terra schizzata in alto e il prato profondamente spostato:
e l’azione carnale totalmente votata alla ustione:
il seme bruciato prima della fruttificazione apparente:
Nonpenso Nonfaccio & dunque [Corp.] Nonsono
Risplende lassù nel sonno il cielo
anzi è un’orbita vasta per sempre incandescente
prematura fioritura nell’alto osanna nell’alto
osama os-oris – –
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[da: Sara Laughs, D’If 2007]
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Tecnica di sopravvivenza per l’Occidente che affonda
la sostanza è dentro l’occhio
ma l’occhio è di vetro
I.
si sovrappongono, sembrano a tratti coincidere, si proiettano
a poco a poco, in tutta la perfezione si curvano
mattoni di fumo, o colpe riversate
per non essere proprie, crollate
perché alte, e gonfie. piove nero, ad arco.
ma non è così.
II.
inimmaginabile il pericolo del fango, non se ne parli.
esige, una mappa, il secco materiale, seguire
l’avanzata se è rapida, e più rapida ancora la traccia
se disegna in anticipo la falsa coincidenza, che
conta, si sovrappone, sembra collimare:
non piove, ma non è mai così.
III.
si sovrappongono come separazione naturale e mutabile,
approfittano della scissione scindendo, ma tutto è già avvenuto:
frattura misura solo frattura, circoscritta all’intero pavimento
chiamando potere la rovina del tempo. piove.
o non piove, se la pianta della città è la carta
del mondo, se la radice è nemica alla radice, che è.
IV.
perché nemico germogli a nemico, di notte si sostituisce,
si condensa in alto, appare come scuro cavaliere che cavalca
se stesso: fabbrica bene chi fabbrica per ultimo, approfittando
del cambio di azione, lo scopo non cambia mai, se piove,
se dio vuole, invece non piove, no, ma la terra
non è salvata, la carta, sfigurata.
V.
la diplopia su carta, sfigurata, non è del tutto assente, o presente:
ne hanno a metà, una media che mantiene il dire, il fare,
il domandare per scarsità di pioggia: che fece piovere,
alla fine, fu la perfezione del coincidere, cupo vento
diretto a Oriente, ma non è così: molto e giovane
il nuovo orgoglio, abita, qui.
VI.
: che si solleva da sola, per la testa e
che è un arrovellarsi di cerchi, con scarsi
risultati, che è una impotenza tolta
e rimessa per sempre, come un peccato, che è
infinita sete, che è pioggia che non piove
piovuta una volta per tutte
in odio
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Questa sestina multipla è da considerarsi parte di un nuovo lavoro in fieri, che andrà a comporre un ideale trittico con i libri Sara Laughs e Il noto, il nuovo; il testo è debitore in molte sue parti ad autori a me cari: Emanuele Severino, per le questione del capitalismo e della tecnica; Joachim Du Bellay, per l’aspetto delle rovine monumentali; Jonathan Littell, per l’idea metereologica. In un’epoca dove si affastellano e si frantumano non tanto, e non solo, i linguaggi, ma i sensi e i nessi, sembra proponibile, tra le idee di poesia, una che ritorni ai precetti lucreziani, e insieme faccia apparire i nessi e i sensi frantumati, come illuminati da lampi momentanei di un linguaggio più percepito che pensato, in un apparire di emblemi. Non c’è felicità nella scrittura, ma piuttosto la fatica di scavare un silenzio. (Dicembre 2012)
[in corso di stampa in “Semicerchio”, XLVIII, ‘Poesia del lavoro’, 2013/2]
*
Sestina come canto funebre ai logoteti Andrea ed Emilio tra Ossari e Dichiarazioni, detta Sestina Funebre
su queste rovine non ho fondato che rovine
[T.S.Eliot]
I.
all’ossessione, si aggiunge la certezza, l’esattezza: aperti
gli occhi, ha visto il nulla. e tu, piccola Cleveland, città sepolta,
sarai chiamata beata tra le genti, perché hai aperto gli occhi
sul sotterrato: sottoterra, vedrai, nulla cambia,
o soldato: timbra il biglietto, non occorre
rispetto, per questa rovina
II.
che cammina in ogni direzione, quest’ombra da dentro attende
la sua prevista canzone, nel circo di sangui, ma non ricorda il passo:
il motivo scritto in un crepuscolo di sasso solo previsto, prima incenerito
del dovuto, annulla l’attesa, se finisce l’azione: sparisce il ricordo
con tutta la canzone
(…..senza assoluzione)
III.
cade con una fretta irragionevole, anche lei da cavallo
e non vede nulla, o vede proprio il nulla
all’incontrario di chi si chiama vincitore, sottoscritto
fermo sull’attenti che nella guardia si avvicenda,
trascinando rime, maiali, in miglia tutte le possibili
canzoni, colonne sonore di frantumati commilitoni
IV.
che sono in pieno fermento, ribollimento, ammutolito
in un rettangolo sollevato da terra: aperti
gli occhi, vede la guerra delle ossa in sfacelo, del
fiume tagliato a pezzettini con tanto zelo: zero vita. in cambio
di una partita col morto, fui poeta, pigro di patria o
di pietra, sostanzialmente a torto
V.
sentivo da bambino, quand’ero bambino, o soldatino-pennino,
visto disteso nel catino, lucidato, fucilato, quasi
imbalsamato: quando morto, morto. lucidato.
o l’unghia conficcata nell’impronta-urna s’avventa
sbagliata nel momento, o le cose non viste alla luce
nera del buco non sono, o il tumulo tiene, tormento, cenere (?)
VI.
prossima alla terra: guerra, carcassa del pensiero. si brucino
i corpi ma non le carte, ‘che al ritorno ritroverà
il posto, posto tra lo sterno e il cervello, povera pieve
del non-pensiero, mai putredine all’apparir del vero
campo, e santo, santi voi, enigmi incistati
nella vostra lingua morta,
[mai più mia
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Si cita San Paolo, quello ancora cieco; si cita, poi, Sant’Agostino e la sua “canzone temporale”; si cita, infine, Leopardi, ma prima Foscolo. Questa poesia vuole essere una discesa agli Inferi fatta di orditi testuali estratti e digeriti da: ‘Rivolgersi aglio ossari…’, di Andrea Zanzotto (da Il Galateo in bosco); Dichiarazione del soldato morto, di Emilio Villa (da Oramai); ‘le cose non viste come sarebbero…’ e In-estesa di Giovanna Frene (da Datità) – e qua e là dal poemetto Spostamento.
[in: Parab(oli)che dell’ultimo giorno – Omaggio a Emilio Villa, a cura di Enzo Campi, DOTcom Press-Le Voci della Luna, 2013)
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Liquefazione
(Sestina Bizantina)
a Luigia Sorrentino
…essere in sé quello che si è costruito, e allo stesso tempo
galleggiare in superficie. buio come un pugno, dai piccoli padri
presenti, sempre presente il carro del vincitore, la discesa
strategica con le armi degli altri, tutte o poco
per volta, l’invisibile forma un monolite stridente
con la sconfitta, e la rigetta diritta a Ovest come
occasione per rispedire indietro le insegne del principio
“Orienta la spada sul seme della vicina distruzione”
: detronizzato il diminutivo, e prima destabilizzano
ancora il vuoto infiltrando l’ignoto, e altro, e in alto
si perde il gioco universale di unire ciò che l’uomo ha diviso
smembrando piuttosto il mondo che il suo potere
—
Il nome Attila significherebbe “piccolo padre”
[Inedito, ottobre 2013]
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Notizia
Giovanna Frene (Asolo, 16 dicembre 1968) vive tra Crespano del Grappa (TV) e Padova. Diplomata in Pittura all’Accademia di Belle Arti di Venezia, è laureata in Lettere all’Università di Padova, con una tesi sul primo Zanzotto, ed è Dottore di Ricerca in Storia della Lingua (con P.V. Mengaldo).
Ha pubblicato: “Immagine di voce”, Facchin 1999; “Spostamento – Poemetto per la memoria”, Lietocolle 2000; “Datità”, postfazione di A. Zanzotto, Manni 2001; “Stato apparente” (contiene: Immagine di voce e l’inedito “Triade” 1990), Lietocolle 2004; “Sara Laughs”, D’If 2007 ; “Il noto, il nuovo”, prefazione di P. Zublena, postfazione di S. De March, fotografie di L. Callegaro, traduzione inglese di J. Scappettone e J. Calahan, Transeuropa 2011; e, con lo pseudonimo di Federica Marte, il prosimetro “Orfeo è morto”, Lietocolle 2002. È inclusa in varie antologie poetiche, tra cui: Nuovi Poeti italiani – 6, a cura di G. Rosadini, Einaudi. Come critica, ha pubblicato saggi e recensioni in “Paragone”, “Lingua e Stile”, “Studi novecenteschi”, “L’immaginazione”, “Testuale”.
una, il libro pubblicato da Giuliano Ladolfi Editore a dicembre 2012 (pp. 78, euro 10, prefazione di Sarah Tardino) ha già avuto modo di farsi apprezzare vincendo il Premio InediTO 2012. A lettura ultimata sono andato a scorrere l’indice (gli indici dei libri di poesia sanno essere poesie a loro volta). Le sezioni si intitolano “una” poi “due”, quindi “quattro” e “sei” per finire con “sono”: bello, piena quest’architettura saltellante tra articoli, numeri, verbi-numeri, oppure verbi invariabili dall’io al “loro”, come per la sezione conclusiva. Forte è la tentazione di citare molti testi per intero, e pure quella di procedere ad una quasi catalogazione delle scelte lessicali e di verso compiute dall’autrice. Provo a citare almeno alcune soluzioni e, con esse, anche alcuni testi. Partirei da tutto ciò che è ritmo e dalla rima, letteralmente battuta palmo a palmo dall’autrice, in geometrie variabilissime e inedite: rima facile, difficile, rara, piana, raramente tronca, sdrucciola, baciata, al mezzo, fratta da enjambement. La sua poesia risponde “per le rime” alla realtà che accoglie. Ho pensato per un istante alla professione dell’autrice, ostetrica, e mi è parso di scorgere pure una rima di valore anatomico, quel qualcosa che immette in una cavità anatomica ma anche dalla quale il mondo (o la voce) ha origine (come nel celeberrimo quadro di Courbet), una scena che l’autrice vivrà quotidianamente. Il pensiero si è rafforzato in bambini, dove chiude con “La paura di sporgermi oltre le gambe / del parto e vederlo, il momento preciso / del viso di un uomo” (qui davvero pregna la rima “preciso-viso”).
E` vero che gli indici dei libri di poesia sanno essere poesia a loro volta…fiorelli spontanei che gli occhi ammirano per la magia dell’inaspettato. Ma di chi parla Kendall S. Walters?
Grazie Adriana per questo tuo intervento spontaneo.
Siamo almento in due a non aver capito questo intervento di chi si firma Kendall S. Walters. Se la persona che l’ha postato non ne chiarisce il senso, sarò costretta a eleminarlo.