Appuntamento
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Nota di Alessandro Canzian
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Federico Tavan, poeta che insieme a Pierluigi Cappello e Ida Vallerugo rappresentano il meglio della poesia dialettale friulana e, molti saranno d’accordo, italiana. Federico Tavan è morto la notte del 7 novembre 2013, pochi giorni dopo aver compiuto 64 anni. Se n’è andato nel sonno, mentre dormiva, nel suo letto. Aveva voluto tornare a casa perchè forse, similmente agli elefanti, sentiva di essere arrivato alla fine del suo viaggio. Era tornato nella sua Andreis (Pordenone) che pure aveva cantato come centro del mondo e come prigione: Se non scappi diventi Andreis. E Federico Tavan era effettivamente un elefante della poesia e dei racconti della pedemontana pordenonese. Pazzo, esagerato in pubblico, a dodici anni era stato internato in manicomio e aveva addirittura subito l’elettroshock come tentativo di cura, uomo che gridava sempre, ingestibile, a volte insopportabile. Su di lui giravano anche storie di finta pazzia, di una situazione di comodo da lui stesso creatasi per non andare a lavorare (come effetto della classica mentalità friulana che non vede di buon occhio chi non è professionalmente impegnato). Eppure poeta lucidissimo, liricamente furbo per un altro poeta pordenonese (Gianmario Villalta). Eppure tutti hanno parlato prima o poi di Federico Tavan. Da Corona, a Cappello, a Maurizio Costanzo. Nel 2008 gli era stata addirittura concessa la legge Bacchelli sotto richiesta di tutte le istituzioni provinciali e regionali (legge ancora non concessa a Pierluigi Cappello). Poeta che adesso tutti piangono, tutti discutono, tutti rimpiangono.
Ma Federico Tavan non era un poeta del rimpianto, tantomeno del pianto. Era il poeta della diversità (e non a caso anni fa lo aveva paragonato a Pasolini), del caso che ti cade addosso e ti cambia la vita e tu non ci puoi fare nulla. Era il poeta della difficoltà, del dolore di vivere, e della stupenda e insostenibile bellezza dell’essere al mondo, vivi. Federico Tavan era il figlio della streghe tra intrugli e pentoloni, era il pazzo che tornato dall’ospedale si chiude in camera per viaggiare con la sua immaginaria nave spaziale (poesia che poi dà nome a una libreria maniaghese, sempre nel pordenonese) urlando alla fine Dio! Arrivano gli umani! Era il poeta del rifiuto di tutto, dell’amicizia, del sesso, della normalità, perchè aveva trovato un altro tutto. Tanto che possiamo ora comprendere che la sua pazzia, la sua diversità, non era un male della sua mente ma un’incapacità della nostra di capire la bellezza che lui aveva scoperto. Una bellezza che ci accoglie e ci raccoglie, ma che non siamo capaci di vedere presi come siamo dalla quotidianità (quella stessa tanto cantata da altri poeti).
Federico aveva colto il sapore dei fiori, del vino, delle montagne, della vita nella sua essenza più gretta e arcaica, e l’aveva amata. Ed è morto da poeta, tornando alla sua casa, alla sua Andreis, e non svegliandosi una mattina. Partendo così con la sua nave spaziale verso l’immensità di una bellezza non umana, e per questo ancor più intensamente umana. Lasciandoci dei libri, lascito preziosissimo, che continuano a parlare del poeta. Perchè l’uomo può morire, il poeta mai.
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Da Cràceles cròceles (Circolo Culturale Menocchio 1997)
‘E vorés
‘E voreès mitant
favelâ
de flours
de ucéi
e de mil colours
ulà che la vita
éis contenta
*
Vorrei
Vorrei così tanto parlare di fiori, di uccelli e di mille colori là dove la vita è felice.
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Arbal
Podarés vîve
anç insomp un arbal
che sarés content lostes.
‘E cjaparés al sòrele dut al dì
‘e mangjarés mei
‘e durmirés su li fùes
al fréit o al cjalt.
‘E spiéte ucei.
Al mont jodût da lontan
al é nome un balon ch’al zîra.
*
Albero
Potrei vivere anche in cima a un albero e sarei felice ugualmente. Prenderei il sole tutto il giorno, mangerei mele, dormirei sulle foglie al freddo o al caldo. Aspetto gli uccelli. Il mondo visto da lontano è solo un pallone che gira.
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Andrèes
Quatre cjases in crous
Se no tu fai ad ora a scjampâ
uchì tu devente vecje e tu mour
Un po’ de prâtz
dos tre montz
se no tu scjampe pì
tu devente Andrèes
*
Andreis
Quattro case in croce. Se non sfuggi in tempo, qui diventi vecchio e muori. Qualche prato, due tre montagne. Se non sfuggi, non sfuggi più: diventi Andreis.
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Fine
Dei vecjes
splendours
de la mê famea
soi restât
nome jo:
un’urtia.
*
Fine
Dei vecchi splendori della mia famiglia sono rimasto solo io: un’ortica.
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No stéi domandâme ce tanç ans che ài
Ài i ans
de Pasolini e Leopardi
del passero solitario
e de Silvia
dei fugulins
ch’i no clarìs pì
al cjant dei crics.
Ài i ans
de un nin
che la mestra
à trat davour la lavagna
parceche al era
cjatif e brut.
Ài i ans
de un Jesu Crist
ch’a no’l puarta
nissun lare
in paradis
de una carecja
de un vaî sutil
de un acuilon
sbregât dal vint.
Ài i ans
de una riduda
de un gjat
pecjacât
dai compagns de zouc
d’un ospedâl
a catordes ans
e d’una mare
ch’a resist
de un par cui nasce
al éis comunque biel.
*
Non chiedermi quanti anni ho
Ho gli anni di Pasolini e di Leopardi, del passero solitario e di Silvia, delle lucciole che non rischiarano più il canto dei grilli. Ho gli anni di un bambino che la maestra ha cacciato dietro la lavagna perchè era brutto e cattivo. Ho gli anni di un Gesù Cristo che non porta nessun ladro con sé in paradiso, di una carezza, di un pianto leggero, di un aquilone strappato dal vento. Ho gli anni di un sorriso, di un gatto preso a calci dai compagni di gioco, di un ospedale a quattordici anni e di una madre che resiste, di uno per cui nascere è comunque bello.
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Al destìn de un om
Al podeva capitâte anç a ti
nasce t’un pegnatón
tra zovàtz e zùfignes
de stries cencja prozes
e al dolour grant de ‘na mare.
Me soi cjatât a passâ
de chê bandes.
*
Il destino di un uomo
Poteva capitare anche a te di nascere in un pentolone tra rospi e intrugli di streghe senza processo e il dolore grande di una madre.
Io mi sono trovato a passare da quelle parti.
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Cuan’ che me soi inamorât
cuan’ che me soi inamorât
al cour al tucava
làscete zî
chist al é l’amour
jo ài strengjût i dinç
al cour al à tasût.
*
Quando mi sono innamorato
Quando mi sono innamorato il cuore batteva: lasciati andare, questo è l’amore. Io ho stretto i denti, il cuore ha taciuto.
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Femena
Vestida come ‘na volta
cuan’ ch’a se lavava
nome de sàbeda,
mangiâ cuan’ ch’a se pout,
e la vous plena de cjant
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Donna
Vestita come una volta quando ci si lavava solo di sabato, mangiare quando si può, e la voce piena di canto.
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La nâf spaziâl
Chîsta
‘e n’èis ‘na conta
pai nins,
èis ‘na storia vera,
da matz.
Al disivuot d’avost
da l’otantedoi,
apena iessût da l’ospedal
me soi serât in cjamera,
ài metût doi armaróns
e un comodìn
denant la puarta.
Po’ me soi metût sul liet,
coma un astronauta.
De four de la puarta
i me clamava duç:
“Iés! Iés!”.
“No, no! ‘E soi ch’e sgôrle
in ta la nâf spaziâl,
no stei desturbâme,
vô ‘e séi de un antre mont.”
E i passava li ores…
Intant jo incrosave
steles e galassies
e ucei strambus.
Al speciu al faseva da oblò
e al sofit da firmament.
E de four,
mitant preocupatz:
“Iés! Iés!
Ah, diu, al é mat!”
Jo ‘e continuave a sgorlâ,
incjamò doi mil ans-lûs
e sarés rivât sul sorele.
Li ombrenes sui murs
e i rumours de li machines
i faseva al sussûre dal motour
de la nâf spaziâl.
E ‘i son passâtz doi dìs…
“Iés! Iés!
No màngestu?
Ah, diu, al é mat!
Paràn jù la puarta!”
Ma la puarta a resisteva.
E jo in alt,
pì in alt!
E de four dut un rumour:
“Iés!Iés!
Ce fàist uvì?
Dai mo, su, nin!
Ah, diu, al é mat!”
“Lassâme stâ!
‘E soi su la nâf spaziâl.
‘E scjampe,
e al mont lu jôt lontan
e i omi pici pici…
E ‘i son passâtz tre dîs…
‘I àn sfuarcjât la puarta,
‘i àn parât jù i armarons
e al comodin.
Jo ju spetâve, platât
sot al liet.
“AH, DIU!
‘I SON RIVÂTZ
I UMANS!”
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La nave spaziale
Questa non è una fiaba per bambini, è una storia vera da matti.
Il diciotto agosto dell’82, appena uscito dall’ospedale, mi sono chiuso in camera, ho messo due armadi e un comodino davanti alla porta, poi mi sono disteso sul letto come un astronauta.
Da fuori della porta mi chiamavano tutti: “Esci! Esci!”. “No, no! Sono in volo nella nave spaziale, non disturbatemi, voi siete di un altro mondo”.
E intanto passavano le ore… E io incrociavo stelle e galassie e uccelli strani. Lo specchio faceva da oblò e il soffitto da firmamento.
E da fuori, assai preoccupati: “Esci! Esci! Oh, Dio, è diventato matto!”
Io continuavo a volare, ancora duemila anni-luce e sarei arrivato al sole. Le ombre sui muri diventavano meteoriti e i rumori delle automobili si trasformavano nel rombo del motore della nave spaziale.
E sono trascorsi due giorni: “Esci! Esci! Non mangi? Oh, Dio! È matto! Buttiamo giù la porta!”. Ma la porta resisteva.
Ed io in alto, più in alto! E fuori tutta una gran confusione: “Esci! Esci! Che cosa fai lì dentro? Su, da bravo! Oh, Dio, è matto”.
“Lasciatemi in pace! Sono sulla nave spaziale. Fuggo e il mondo lo vendo lontano e gli uomini piccoli piccoli”.
Sono trascorsi tre giorni. Hanno forzato la porta, hanno rovesciato gli armadi e il comodino. Io li aspettavo nascosto sotto il letto:
“OH, DIO! SONO ARRIVATI GLI UMANI!”
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Federico Tavan (Andreis 5 novembre 1949 – 7 novembre 2013. Ha studiato al collegio Don Bosco, dove ha imparato a leggere e a scrivere a 13 anni. Nel 1967 ha ricominciato le scuole medie pubblicando su giornali underground e sul bollettino parrocchiale fino all’incontro con il Circolo Culturale Menocchio a Montereale Valcellina. Con loro ha pubblicato: Màcheri 1984, Lètera 1984, Cjant dai dalz 1985, La nâf spâzial 1985, J’ sielc perávalis 1991, L’assoluzione 1994, Cràceles cròceles 1997-2003. A cura del Menocchio anche l’ultima pubblicazione, Trapolant 2009, poesie di Federico Tavan illustrate con l’artista Eliana Picca. La Biblioteca dell’Immagine di Pordenone ha pubblicato Da màrches a madònes nel 1994 e La strega sulla testa a cura di Maurizio Bait nel 1999. Numerose sue poesie sono presenti in antologie. Tavan è stato il cantore apprezzato da illustri letterati (Claudio Magris, Franco Loi, Giovanni Tesio, Carlo Ginzburg) della poesia in lingua friulana. Con Decreto del Presidente della Repubblica, in data 28 novembre 2008 gli è stato concesso il vitalizio della Legge Bacchelli, grazie al quale è potuto tornare a stabilirsi nel suo paese d’origine, Andreis.
Articolo che si legge tutto d’un fiato, e soprattutto che racconta chi era, e cos’era, Tavan. Complimenti ad Alessandro Canzian.