Letture
a cura di Luigia Sorrentino
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di Sonia Gentili
Nel Grado zero della scrittura (1953) Roland Barthes (nella foto) individua la crisi della letteratura divenuta codice e tradizione nel suo scontro con la realtà. Questo scontro determina la regressione della scrittura al suo «grado zero», cioè «ad una forma priva di retaggio»: ciò avviene, dice Barthes, nella «scrittura bianca di Camus» e nella «scrittura parlata di Queneau». Se si riconsiderano oggi, a sessant’anni di distanza, i due tipi di dialettica tra scrittura e realtà indicati da Barthes in Camus e in Queneau (Fotro sotto), vi si riconoscono due strade, maestre ed alternative, percorse dal Novecento letterario. In Camus l’elemento di realtà che segna le colonne d’Ercole della scrittura non è la parola quotidiana, ma il silenzio. La luce mediterranea che vivifica e distrugge, il silenzio vitale col suo carico di morte corrodono il linguaggio e fanno retrocedere la scrittura al di qua della tradizione letteraria, cioè nella preistoria del mito: quella di Camus è una voce iniziale, poetica e gnomica, che ha lo splendore scabro della pietra. All’opposto, in Queneau la realtà si dà come evidenza del quotidiano, e la scrittura è «parlata». Si tratta dello stesso bivio rappresentato all’epoca, in Italia, da Pavese e Calvino.
In Pavese la scrittura emerge – è proprio Calvino a notarlo in Perché leggere i classici – da un silenzio archetipico; questo accade anzitutto poiché essa retrocede al suo nucleo poetico originario, cioè al mito (specie nei Dialoghi con Leucò , del 1947, e nell’ultimo romanzo, La luna e i falò, del 1949). In Calvino invece la realtà, una evidenza quotidiana, parla la lingua nitida del buonsenso e della misura. Fratture drammatiche La radice storica di questi due aspetti costanti del rapporto novecentesco tra letteratura e realtà, non indagata da Barthes, fu espressa quasi vent’anni dopo da George Steiner nello splendido Linguaggio e silenzio (1971): è stata la tragedia della storia consumatasi nel corso della prima metà del Novecento a drammatizzare la costituzionale insufficienza del linguaggio – non solo letterario – rispetto ad una realtà che sembra eccedere ogni limite di comprensione. Questa frattura tra realtà e codici di rappresentazione, presentita in una sorta di fosca e inconsapevole agnizione da Kafka («cerco una libertà … da tutte le parole»; «c’è una meta ma non c’è nessuna via. Quella che chiamiamo via è solo esitazione») e compiutasi nel dopoguerra, è il punto in cui si colloca la facoltà di espressione umana nel secondo Novecento: la scommessa della letteratura è anzitutto nel tendersi del linguaggio fino alla realtà come limite dialettico, sia essa evidenza o mistero (scriveva M. Blanchot che «l’opera attira chi vi si consacra verso il punto in cui essa è a prova della propria impossibilità»; su ciò vedi G. Corrado, Il silenzio all’opera. Roland Barthes e Maurice Blanchot , Mimesis 2012). Che ne è, oggi, di questa dialettica tra letteratura e realtà, e quale delle due strade ha prevalso? Viene da chiederselo, poiché se nel 1947, definendo la letteratura del futuro, Sartre auspicava e profetizzava l’annessione ai generi letterari del reportage (Jean-Paul Sartre, Che cos’è la letteratura? ,: «Ci sembra (…) che il reportage faccia parte dei generi letterari, e che anzi possa diventarne uno dei più importanti»), per diabolico contrappasso, oggi che un nugolo di generi semigiornalistici o legati alla scrittura cinematografica o a quella del web vengono rubricati sotto la voce letteratura, si tenta disperatamente di isolare il «gene» della letterarietà per distinguere ed escludere. Questo tema è stato, ad esempio, al centro di un recente dibattito pubblico (intitolato sartrianamente Che cos’è la letteratura ) svoltosi presso la Casa delle Letterature di Roma tra Giuseppe Russo, direttore editoriale Neri Pozza, il critico Andrea Cortellessa e Vincenzio Ostuni, editor di Ponte alle Grazie. In dibattiti del genere (basta ricordare quello, a tratti vacuo, sul cosiddetto canone, sorto attorno all’omonimo libro di Harold Bloom, Il canone occidentale. I libri, le scuole e le età , 1994), la necessaria ed inevitabile storicizzazione del paradigma della letterarietà, còlto, di epoca in epoca, entro una dialettica tra forze di conservazione e pressione innovativa, si affianca costantemente al tentativo di definire l’essenza dell’elemento in gioco, in una sorta di ossessione della riconoscibilità del letterario che sembra essere il punto nevralgico della questione. Il fatto è che la realtà, invitata ad entrare nella letteratura a metà Novecento, in quanto oggi è più «parlata» che mai, per la letteratura non costituisce più un termine dialettico ma un mostruoso doppione. L’eredità novecentesca dominante, oggi, non è quella della scrittura «bianca» di Pavese e Camus, in lotta con la realtà come silenzio, ma quella della scrittura «parlata» di Queneau e Calvino. La casa editrice Einaudi promuove come prodotti di letteratura alta soprattutto gli eredi di questa funzione: inutile fare nomi, poiché questo tipo di scrittura caratterizza la maggior parte degli autori presenti nell’attuale catalogo einaudiano di narrativa italiana. La natura «parlata» Il ritmo della prosa è oggi quello di una unanime paratassi; imperano il periodo breve, il descrittivismo, l’ossificazione lessicale mediante l’eliminazione di aggettivi e avverbi. Ma che cosa è cambiato, nell’attuale «scrittura parlata», rispetto ai suoi archetipi novecenteschi? Essa ha perduto il suo limite dialettico, cioè la realtà come evidenza, poiché oggi la realtà è una evidenza che parla mentre accade. I fatti coesistono, dal loro apparire e nel tempo reale del loro svolgimento, con i racconti attraverso i quali si autorappresentano: la vita dei singoli e della collettività si svolge intrecciandosi in radice ad innumerevoli forme di autorappresentazione linguistica, sicché il valore della cronaca e della descrizione è quello, assoluto, del fatto che accade e mentre accade. La «scrittura parlata» non è più in dialettica con la realtà poiché è stata trapiantata nel farsi degli avvenimenti, e della realtà costituisce semmai un’articolazione. La natura radicalmente linguistica e parlata della realtà attuale avoca a sé la definizione che Bloom, nel già citato Canone occidentale , diede della letteratura come figurazione, metafora e «desiderio di essere altro, di essere altrove»: la realtà che viviamo è, appunto, un qui-altrove, un qui-altro, un qui proiettato nella rappresentazione discorsiva del suo esistere. In che senso, allora, «l’ossessione moderna del realismo, o di una nuova leggibilità… è una macchina mitologica» (così Walter Pedullà nell’intervista aggiunta alla ristampa del suo L’estrema funzione. La letteratura degli anni Settanta svela i suoi segreti , (1975), Le Lettere, 2010)? Anzitutto perché questa realtà «parlata» e «leggibile» induce a una ingenua mitizzazione dell’evidenza: si risolvono vecchie dicotomie del pensiero affermando che apparenza e realtà coincidono (così B. Carnevali nel peraltro pregevole Le apparenze sociali. Per una filosofia del prestigio , Il Mulino, 2012), mentre le sorti progressive della filosofia contemporanea sono indicate nell’idea che la realtà vinca sull’intepretabilità in quanto è, appunto, evidente: incontrovertibile e «non emendabile» (M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo , Laterza 2012). Questa semplificazione, che avrebbe fatto inorridire non solo Heisenberg, ma persino Galileo occupato ad osservare le stelle col cannocchiale, non è che il sintomo del fatto che oggi percepiamo e concepiamo la realtà sempre come evidenza visibile e mai come mistero, il discorso sempre come possesso di un dato e mai come tensione verso ciò sfugge all’espressione. Ferraris, sostenitore di un «nuovo» realismo dal sapore marcatamente pregalileiano, afferma che la realtà «si dà anche smentendo le nostre aspettative concettuali, contrapponendosi dunque alla realtà rappresentata», senza rendersi conto che ciò implica una conclusione contraria alla sua tesi: la realtà è in ciò che sfugge alla rappresentazione, alla leggibilità e all’evidenza. Ferraris respinge la concezione della realtà come discorso «interpretabile» a favore di una realtà concepita come evidenza letterale, il che non compromette affatto, ma invece riafferma la natura inossidabilmente «parlata» e discorsiva della realtà attuale, ridotta spesso ad un partito da prendere, entro un quadro di opposizioni da talk-show («Nel realismo è dunque incorporata la critica, nell’antirealismo è connaturata l’acquiescenza che, dai prigionieri della caverna di Platone, ci porta sino alle illusioni dei postmoderni»). In dialettica col silenzio L’elemento perduto in quanto non più percepito, oggi, è il rapporto dialettico tra facoltà di dire e realtà che non si lascia definire, e in sostanza il valore reciprocamente differenziale e regolativo di ciò che chiamiamo realtà rispetto a ciò che chiamiamo linguaggio. Eppure la riemersione di questo orizzonte dialettico tra linguaggio e silenzio, cioè una nuova percezione di ciò che nella realtà resiste al linguaggio, consentirebbe una letteratura come quella recentemente auspicata da Ferroni: una letteratura, cioè, in grado di «proteggere la possibilità dell’esperienza» in quanto non riducibile alla parola. Questo, appunto, «non può prescindere da una prospettiva ‘negativa’, da un legame con la grande tradizione di negazione che ha caratterizzato la modernità» e che è «disposizione (…) a toccare il cuore del linguaggio», scrive Giulio Ferroni in Scritture a perdere. La letteratura negli anni zero (Laterza 2010).
Articolo pubblicato su Il Manifesto il 17 giugno 2013, qui ripubblicato per gentile concessione dell’autrice.
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