Nello scaffale
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Nota di Vincenzo Galvagno
Gli ablativi assoluti scontano una loro particolare solitudine. Sono “sciolti”, fanno costrutto a sé, nemmeno sono imparentati con il flusso principale del discorso, qualsiasi esso sia. Esprimono spesso un “a priori”, qualcosa che è fondante e di cui insieme si può fare a meno, ma che necessita poi di una propria “destinazione”, o destino; l’ablativo assoluto metafora dell’individuo. Questo il senso del titolo della silloge che al suo interno si divide in tre parti.
Nella prima parte, dal titolo “Poesia e verità”, le citazioni bibliche, che fanno da titolo ai singoli componimenti, s’intrecciano con le storie dei personaggi dell’iliade dando vita ad un sistema metaforico; il comandamento di un dio oscuro come un oracolo, ironico, poiché già sa che l’individuo non può obbedirgli e dovrà seguire il proprio destino. Il significato ultimo della spinta eroica viene ribaltato, anzi rivisto, rendendo il Dio della bibbia poco più che uno “zeus” e il personaggio omerico uomo comune.
Nella seconda sezione, “Turbata quiete di pubblico incanto”, protagonisti sono due giovani omosessuali che, nella Sicilia del 1980, a Giarre, vengono uccisi per mano del nonno di uno dei due che non sopporta lo scandalo che sta insidiando la propria famiglia. “Meglio morti che insieme!” sembra potersi leggere in quel gesto omicida e, al contempo, suicida. Il parallelismo con la più famosa delle tragedie shakespeariane ha dato il destro per la strutturazione della sezione in cinque atti introdotti dal un prologo.
Nell’ultima sezione, infine, la fictio si scioglie, cade ogni strutturazione di sorta per lasciare spazio al vissuto dell’autore, che, parlando in prima persona dà voce alle proprie esperienze personali, scoprendosi anch’egli “Ablativo assoluto”, titolo di quest’ultima sezione.
“Ablativi assoluti”, di Vincenzo Galvagno, Giuliano Ladolfi Editore, 2013 (euro 10,00)
dalla Prefazione di Maria Attanasio
In una storica antologia della fine degli anni settanta Poeti italiani del Novecento, Pier Vincenzo Mengaldo, analizzando la giovane poesia di quegli anni, sottolineava la specificità di clima poetico e di contesto sociale alla base della poesia metropolitana, fortemente differenziandola da quella che si produceva altrove; una diversità espressiva tra centro e periferia che oggi –in quella sterminata metropoli diffusa che è l’Occidente – viene quasi del tutto a cadere.
A testimoniarlo la raccolta di Vincenzo Galvagno, un giovane poeta che, pur vivendo e operando in un piccolo centro dell’entroterra catanese, in essa restituisce il senso di un disagio giovanile senza frontiere né passaporti: lo spaesamento e la solitudine di una condizione umana bloccata da convenzioni sociali e dalla sostanziale afasia di un parlare omologato che non rivela ma occulta; questo il senso del titolo Ablativi assoluti, di cui esemplare metafora testuale è l’immagine di una rondella di catena leggermente deformata, che non potendo rientrare “nè nel suo loco nè in un altro/ cade” in mezzo a tante altre “ con altre originali menomazioni” . Scarto, marginalità, che non tornerà mai più a essere catena.
Spoglia di orpelli e travestimenti retorici, solo la poesia – che rifiuta il poetico come luogo separato dall’esperienza vissuta, preferendo aggirarsi tra i rituali sociali e i non luoghi di una contemporaneità senza memoria e appartenenza – può forzare la contraffazione di ogni stereotipato dire, creando quella “catena radicale di parole” – per usare una felice espressione di Lacan – “fra l’al di qua del Soggetto e l’al di là dell’Altro”.
Da qui ha inizio il viaggio testuale di Vincenzo Galvagno: un percorso che dalla rappresentazione di una coralità di solitudini procede verso le zone più intime e oscurate del sé; e dalla contemporaneità si volge verso il passato per ritrovare quella comune appartenenza archetipale, che agisce e motiva l’esserci e il suo costituirsi come temporalità.
“Il poeta non è un artista. È un ponte tra gli uomini e gli archetipi comuni dell’inconscio”, è infatti l’epigrafe posta a premessa di Poesia e verità – la prima delle tre sezioni in cui si articola la raccolta – in cui l’intenzionalità di pensiero e la poetica dell’autore sono più esplicitamente rappresentate. […]
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da Poesia e verità
Va, ama una donna ch’è amata da un altro ed è adultera; come il Signore ama gli Israeliti ed essi si rivolgono ad altri dei e amano le schiacciate d’uva.
Osea, 3, 1
La felicità è la paura della morte.
Ora che sono così felice non ho voglia di estirpare
la radice che il diavolo ha impiantato nel mio cervello.
Soprattutto da quando
tu quella cosa l’hai detta.
Ora seria – con la schiena dritta, occhi sbarrati,
verdissimi – un rettile.
Ora faceta – schiena ricurva, braccia incrociate al petto,
occhi marroni – ennesimo mammifero
tu quella cosa l’hai detta.
E le tue parole si sono infilzate nella mia carne anzi
l’hanno generata e attraverso gli spazi vuoti scorre vita.
Sono così felice che ho paura di morire mentre
la realtà s’infila nell’estasi e io mi dico Diòmede devi indossare il solito guanto l’assassinio.
Mi piacerebbe tanto sentirti gridare un po’;
spero che tu capisca e lasci libera la mia mano.
***
Quanto l’immondo avrà toccato sarà immondo; chi lo avrà toccato sarà immondo fino alla sera.
Numeri, 19, 22
Ancora non ho capito
se tu hai rinunciato davanti al rischio
o se “questo pericolo non c’è mai stato”.
Le persone si amano dopo che reciprocamente si credono.
E io, è ovvio, non sarei Cassàndra
se, anche solo, tu credessi
che il mio amore è verità.
E fuma la nostra farfalla dagli occhi verdi arrossati,
forse sballati,
– mentre un avvoltoio in persona attentamente osserva –
piano diventa cenere.
Io la tocco. Mi sporco.
E basta.
***
Se uno ha rapporti con un uomo come con una donna, tutti e due hanno commesso un abominio; dovranno essere messi a morte, il loro sangue ricadrà su di loro.
Levitico, 20, 13
“Ca beddu!” dice pensandolo,
ma non tanto: che bello! Quanto piuttosto: come me ne esco?
Che importa se si sono accorte, le pie donne,
di come Padre Crìse arrossisce,
quando, tra altri, lo saluta quel ragazzo
attorno ai sedici anni, di cui non sa ancora il nome.
Se, leggendo tra i suoi vividi libri,
ha potuto capire come Dio non sia Soggetto ma Oggetto
funzionalmente volto a fargli vivere razionalmente la vita,
capirà anche come fare ora.
L’importante è
reprimere i conati di smania,
non tentare di consumare,
leggere,
leggere.
***
Non crucciarti con il tuo prossimo per un torto qualsiasi […] odiosa al Signore e agli uomini è la superbia […] principio della superbia infatti è il peccato […] chi vi si abbandona diffonde intorno a sé l’abominio. Per questo il Signore rende incredibili i suoi castighi e lo flagella sino a finirlo.
Siracide, 10, 6–13
I circoli sono come sono.Odisseo sta con Léuco,
Licùrgo con Macàone e Menéstio,
Néstore ha il fan club.
I ragazzi tengono la luce bassa; Màcaro, finito il turno di fare ridere,
corre in bagno, alliscia le occhiaie.
Le esibizioni
non sono andate bene.
È stato addirittura insultato.
Psicoanalisette e sostanze psicotrope non
negano più lucidità,
essa si riproduce.
Tutti raccontano storie, tutte toccanti.
Si sente parlare
come se quello che si dice
non importasse nulla,
anziché
cadere scientemente nell’errore, aspettare,
ricordarsi di inciampare.
***
da Ablativo assoluto
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L’apparente cancella ogni prova del latente, tranne una
per creare almeno l’estremo
piacere, l’attesa che verrà
interrotta da brevi brani di te che non raccogli. Esco.
Con ragazzi picchiati. Ragazzi e ragazze picchiati
che aspettano in bolle. Macchine indifferenti
alle vite, alle loro stesse canzoni preferite.
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Vincenzo Galvagno nasce a Catania il 28 novembre del 1981. Vive a Biancavilla, un paese dell’hinterland catanese, è praticante avvocato. Ha collaborato con “IsolaPoesia”. È poeta lettore nei cicli “Notte della Poesia” e “Rito della Luce” organizzati dalla fondazione Fiumara d’arte. Sue poesie sono apparse su “Moby Dick”, curata da Loretto Rafanelli, e su “VivereMilano”, nella rubrica curata da Alberto Pellegatta.