C’è sempre un momento, nella ricerca poetica di Marcoaldi, in cui un’esperienza intensamente personale scivola in un destino collettivo cui cerchiamo invano di sottrarci. Questa incapacità, o inadempienza, è il motivo di fondo della sua poesia. Come uccelli in gabbia, o insetti chiusi in una bottiglia, battiamo contro un vetro invisibile, ricadendo all’ indietro – fin quando ritroviamo le forze per un nuovo tentativo, anch’esso inevitabilmente frustrato. Se nelle due raccolte poetiche precedenti si trattava del filo avvolgente del tempo e della separazione dalla nostra origine animale, ne La trappola questa necessità infrangibile attiene alla cattura della vita in una serie di dispositivi che la opprimono. Essi – «tagliole», «ordigni», «arnesi» e appunto «trappole» – sono costrizioni di ordine vario, di tipo sociale, tecnico, psicologico, che impediscono di aderire liberamente al flusso dell’esperienza naturale. Come animali finiti in trappola, anche noi siamo preda di convenzioni, abitudini, nevrosi da cui non riusciamo ad emanciparci perché da noi stessi attivate in un’insensata corsa verso qualcosa che insieme ci attira e ci sfugge – sesso, denaro, notorietà, per i quali lottiamo, finendo regolarmente sconfitti, come non può non accadere quando il nemico è dentro di noi. Nella resa espressiva di questo eterno rimbalzo all’indietro, di un andirivieni convulso come quello di chi è prigioniero di se stesso, la poesia di Marcoaldi trova il suo timbro più proprio un tono basso, autoironico, intercalato da scatti verso un’emozione improvvisa, in cui il quotidiano incontra, per un attimo, lo straordinario, per poi subito ripiegare su di sé. Un andamento incalzante ed ossessivo, segnato dal gioco sapiente delle simmetrie e delle pause, ma anche esposto alla possibilità, improbabile, della metamorfosi.
Roberto Esposito, la Repubblica
DA LA TRAPPOLA (2012)
Lo so sin d’ora che arriverà
quel maledetto giorno in cui
dovrò pentirmi di quanto
non ti ho detto, di quanto
non ti ho dato. In cui la mia avarizia
assumerà le penose fattezze del peccato –
mortale e non veniale: sarà la tua
scomparsa a definirlo tale.
Lo so, eppure non c’è verso di impedire
il prolungarsi di questa costitutiva
inadempienza: una distratta
frenesia continua a trascinarci via –
inutile, domani, battersi
il petto e chiedere clemenza.
–
Da AMORE NON AMORE (1997)
Ti ho attesa per anni
perseguendo un disegno
che mentendo a me stesso
ho chiamato bisogno.
Ma quando inattesa finalmente
hai ceduto – una gonna sbagliata,
una frase di troppo – e la vampa
d’Amore s’è fatta sternuto.
***
Volesse Dio lasciarci qui,
muti per sempre in questo stato
germinale perennemente mosso
da un’onda tumultuosa
di amorose attese che ignorano
– al ritrarsi di marea – i detriti
di successive, lugubri pretese.
Volesse Dio.
Ma ad altro ci sospinge
quel demiurgo folle. A mordere
afferrare stringere
sottomettere ingoiare.
Che perfido disegno:
invitarci al volo, solo
per farci precipitare al suolo.
—
Franco Marcoaldi è nato a Guidonia nel 1955 e vive e lavora a Roma. Giornalista, collabora alla Repubblica. Ha pubblicato i libri di poesia: “A mosca cieca” (Einaudi 1992, premio Viareggio), “Celibi al limbo” (Einaudi 1995), “Amore non Amore” (Bompiani 1997), “L’isola celeste” (Einaudi, 2000), “Animali in versi” (Einaudi, 2006), “Il tempo ormai breve” (Einaudi, 2008), “Baldo – I cani ci guardano”, (Einaudi, 2011),”La trappola” (Einaudi, 2012) .
È inoltre autore di Voci rubate (Einaudi 1993), Benjaminowo: padre e figlio (Bompiani, 2004), Viaggio al centro della provincia (Einaudi, 2009), Sconcerto (Bompiani, 2010).