Escono i quaderni di una dei sopravissuti a Terezin, Auschwitz e Mathausen.
Helga Weiss, Il diario di Helga (Einaudi, pp 201, euro 19).
La storia
Una bambina obbligata a portare come spilla una stella gialla, che nel 1938 a Praga non dorme per i bombardamenti e sente continuamente parlare di “trasporti” di famiglie, amici, compagni di scuola. Finché tocca a lei, Helga Weiss, e ai suoi genitori lasciare la casa in cui è cresciuta per Terezin, poi Auschwitz-Birkenau, Freiberg e Mathausen.
Per resistere scrive un diario, rimasto per anni “quasi dimenticato in fondo a un cassetto” come racconta lei stessa, e disegna quello che vede e vive. E’ “il diario di Helga” che,
superati gli ottant’anni e diventata un’affermata pittrice, la Weiss, ha deciso finalmente di pubblicare. Negli anni è tornata più volte su quei quaderni ma non ha voluto toccare la spontaneità delle impressioni di allora. Il libro esce per Einaudi, tradotto da Letizia Kostner, per il giorno della memoria. “Vogliono distruggerci, è evidente, ma noi non ci arrenderemo” scrive da Terezin Helga, nata a Praga nel 1929, lo stesso anno di Anna Frank che e’ stata meno fortunata della sua coetanea ebrea ceca che è riuscita a tornare nella sua casa a Praga, dove tutt’ora vive.
Il diario di Helga e i disegni colorati che il padre la incoraggiò a fare (“disegna ciò che vedi”) si sono salvati perché prima di andare ad Auschwitz la ragazza li consegnò allo zio che a Terezin si occupava dell’archivio e li murò nella caserma Magdeburgo.
Le code interminabili per avere il pasto, l’arrivo di un pacco nel dormitorio dei bambini, il trasporto in barella dei malati e il sogno di Helga di tornare a Praga in un autoritratto al bivio fra la direzione verso casa e Terezin segnano il suo racconto per immagini, riprodotte nel libro insieme a un’altra sezione di foto di famiglia.
Il diario, prima d’ora, è stato inserito in versione ridotta nel volume diari di bambini, pubblicato nel 1961 dalla casa editrice Nase Vojsko, e nel volume Terezin edito nel 1965 dal museo ebraico di Stato di Praga e alcune citazioni sono state utilizzate in vari documentari.
Tornata a Praga nel 1945, a 15 anni e mezzo, Helga ha completato i suoi quaderni raccontando quello che aveva vissuto nei campi di concentramento di Auschwitz, Freiberg e Mauthausen dove non aveva più potuto scrivere. Era sopravissuta con la madre, Irena Fuchsova Weiss, mentre del padre, Otto Weiss, non avevano più saputo nulla. “Finì probabilmente nella camera a gas. Ma non l’abbiamo mai saputo con certezza assoluta” racconta in un’intervista del 2011 riportata in versione riveduta nel libro.
“Scrivevo su fogli volanti, senza neanche numerare le pagine. Senza pensare a verificare le date, in alcuni punti senza verificarle affatto. Del resto in quel periodo gli storici avevano appena cominciato a elaborare gli studi” spiega la Weiss nella prefazione facendo chiaramente capire che ciò che ritiene “prioritario ed essenziale sono gli eventi e le impressioni, e quelli io li ricordo ancora oggi con assoluta precisione”.
E’ proprio l’esperienza umana nella sua autenticità a colpire in questo diario di una Anna Frank praghese. Helga non trasmette mai una disperazione assoluta e riesce anche a considerarsi fortunata nei momenti più drammatici. Come quando riesce ad avere un cappotto caldo. “Durante la distribuzione dei vestiti ho avuto una fortuna sfacciata. Ho un vestito con le maniche lunghe, scarpe alte (certo una diversa dall’altra, ma fa niente, quasi tutte ce le hanno così) e un cappotto imbottito. Mi arriva alle caviglie e si può chiudere all’altezza del collo. Niente mi ha mai reso né mai mi renderà più felice di questo cappotto” racconta mentre si trova ad Auschwitz. E così parla delle teste obbligatoriamente rasate: “la prima impressione è stata orrenda. Stentavo a riconoscere persino la mamma, solo dopo, dalla voce, ci sono riuscita. E con questo? I capelli ricresceranno, non è tutta questa gran tragedia, basta solo che sopravviviamo”. Anche se alla fine, dopo aver resistito a tante atrocità, anche Helga scrive degli uomini e donne nei campi di concentramento: “Sì, un tempo erano persone. Sane, forti, con una volontà e delle idee proprie, con una sensibilità, degli interessi e dei sentimenti d’amore. amore per la vita, per il bene e la bellezza, pieni di fiducia in un domani migliore. A rimanere sono dei fantasmi, dei corpi, scheletri senz’anima”. Eppure lei è riuscita a raccontarlo in parole e immagini.
Bella presentazione chiara e importante da divulgare ai giovani.
Interessante da divulgare ai giovani