Alessandra Frison, "Le ore della dispersione"

 
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Letture

Nota di Tommaso Di Dio
Un fermo resoconto della vita, di una vita a bassa voce è quello che ci propone il libro di esordio di Alessandra Frison. Nelle sue due ante – Gli assaggi generali e Le ore della dispersione – si raccoglie quanto questa giovane poetessa ha scritto nei suoi primi anni di maturità; ne possiamo saggiare l’avanzamento, la progressione, l’approfondimento in una scrittura che davvero poco lascia all’impensato e nulla concede a chi cerchi nella poesia un ozioso leggere. Di tempo c’è n’è poco; e la scrittura della Frison chiede che il lettore si situi nella parola al punto nevralgico dell’esistenza: ciò che vive è ciò che muore. Sensim sine sensu, gradatamente e senza che ce ne avvediamo, siamo tutti immersi in un alone di dissipamento costante, rallentato; una dilapidazione minima e continua si inscena dietro le quinte di ogni nostra azione, di ogni nostro credere, di ogni nostro sentire. Come il calore dai corpi, le ore del giorno ci lasciano attraverso un procedere sinuoso, di cui noi siamo spettatori a volte protagonisti, a volte lasciati ai margini delle nostre stesse azioni: siamo “la più incerta finestra sul mondo”, oppure “un lascito magro alla curva di un bancone”.
La poesia della Frison è tutta tesa a mimare questo lentissimo movimento minimo di scollamento di cosa da cosa, tesa ad assecondare quello che i più – e tutto il mondo da millenni – tenta con ogni mezzo di rifiutare, di allontanare da sé come resto inaccettabile del vivere, per vivere. I versi della Frison non hanno bisogno perciò della frase fulminea, dell’immagine che scardina e analogicamente illumina e illude; ciò che più colpisce di questi versi è la sintassi che mai recede dal discorso, mai rinuncia alla pronuncia chiara, precisa; un verso che rimane scandito e ritmicamente pregnante, pur cercando l’andamento del colloquio con il lettore, la complicità affabile di un ascolto comune, di un incontro di verità. I suoi versi dicono il mondo e i suoi realia con una forza rara nella poesia contemporanea, con un’insistenza consapevole (“questi non sono\ che anni piegati alla coscienza”) che saranno proprio loro, le cose, a durare più di noi: ”Le cose parleranno per me\ nel giorno dell’io senza sostegni\ nella solitudine solo ricordata”. Nel giorno senza giorni dell’”io senza sostegni”, saremo completamente resi alla diaspora, disseminati impotenti nei segni che abbiamo lasciato. La realtà delle cose quotidiane emerge con così tanta forza nella poesia della Frison proprio perché ne sente – e conduce il lettore a sentire con lei – tutta la sua carica ambigua: le cose che abbiamo toccato, le cose più vili che abbiamo stretto, i luoghi dove abbiamo abitato, la casa come la sala d’aspetto, la cucina, il lavabo, il bagno, il marciapiede dove ogni mattina andiamo camminando, saranno l’ultima sede della nostra individualità, l’ultima cornice di una solitudine soltanto ricordata dagli altri; eppure: cosa di noi quelle cose terranno? Quanto poco di noi si lasceranno imprimere?
le_ore_della_dispersione“Non siamo altro che una casa a disposizione\ una prosa senza misura nelle ore di luce\ quando la pratica come il lavoro\ ci rende alla terra più che la morte”. È nella vita di ogni giorno, nelle ore date al lavoro come alle pratiche più mansuete, più innocenti più comuni, che ci rendiamo conto di quanto si disperde di noi, di quel poco o niente che le cose terranno di noi, di quanto siamo legati a questo “unanime senso del dovere” che ci precede e che ci guida, ci lega indissolubilmente alla terra. Questa umiltà senza enfasi, questo stare adesi al bassopiano della vita sembra essere la peculiarità più profonda della scrittura della Frison, che trova in questo – come già Leopardi o Pavese – un suo pacatissimo tono di sfida contro l’illusione del “sabato sulle tracce di réclame televisive” o contro coloro che “dormono le ore” nell’abulia di una vita incosciente.
Frison riporta, in controluce nei suoi versi, un profondo chiedere su quale sia il senso della poesia oggi, in questo duemilatredici così disastrato e precario; e sembra dirci che la poesia può forse ancora essere un luogo possibile dove dire la verità: dirsi cosa sia la vita, faccia a faccia, aderendo l’uno alla mortalità dell’altro, tolte tutte le manfrine e le professioni di fede, tolte tutte le bieche retoriche. I suoi versi compongono l’area o l’alone di calore dove stringersi in colloquio “come cuori obbligatori”, per chiederci l’un l’altro la conta del tempo rimasto, per non sprecarlo altrove che nella coscienza di chi siamo, di cosa vogliamo essere. Di tutto il tempo trascorso “non vi sapremo dire nulla”, scrive in una delle poesie più belle di tutto il libro; eppure tutta la sua poesia spinge affinché si lasci da qualche parte un segno del nostro passaggio, sebbene precario perduto “come una serie di nomi\ nelle costellazioni del cielo”, oppure minimo inutile “sulle cose che saranno poi”. La vita, in tutta la sua fragilità, la si sente davvero usciti dal libro della Frison, la si sente come un cammino di dissipazione che è anche costruzione di sé e della propria coscienza.
Un giorno ti troverai in un angolo della vita a dirti: “vedi quanto manca a saperci conclusi”.

Da “Le ore della dispersione” di Alessandra Frison, Lietocolle, 2013
La pioggia svuota ogni sospetto di vita
dalle lenzuola tirate fino al limite
non ti fa vedere
il carico delle ore la mattina
presto tutti sono svegli
già alla loro corda
e ti dovresti impegnare fino a quel punto
fino ad asciugare il sonno
molle e refrattario termine di
chi esiste l’indispensabile
in tempo appena per sfollarsi di casa
così mi dico,
dopo una giornata che squadra
i centesimi di ogni dignità,
dopo l’onda scarica
meccanica disillusa dei semafori alla stazione
tra il medioevo delle strade, sono
la più incerta finestra del mondo.
*
La penombra di una stanza divide
quanto speravi da quanto rimane.
L’indifferenza di queste ore nei richiami della casa
nei fogli di carta lasciati a macerare
in una mancanza d’attenzione
in un’attenzione fuori dal mondo.
Ne contavi a milioni di vite, in qualche chiuso progetto
rocce che affondano rocce
affiorano come cadaveri vuoti, poco per volta
sottopelle, sotto gli occhi
in uno sconforto sguaiato.
Non avere più corpi, averne centinaia di migliaia
ogni segno che passa sul viso
è un fiore di memoria mai nato.
E così alcuni lasceranno cervelli popolati e doni
parlanti ad ogni costo, per quanti ne chiederanno
si apriranno file di pianti e sorrisi.
Guarda invece questi lampi
senza sostanza
otre piccole case e grigie colonie
di figli. Non ci saranno voci da scrivere,
parola dopo parola come ombre
solo indizi di un passaggio.
*
In questi giorni di quasi inverno
dovresti sapere. L’occhio ci vede sprofondare
come la zampa dell’animale
sotto la neve.
                     Capiranno in pochi
i più, in disparte, dormono le ore
raccontano miserie poco per volta
i loro morti nelle cornici
le case vuote del mezzogiorno,
ascoltali.
Ci saranno discorsi, ancora, silenzi ripetuti
nella sola ostentazione di noi
nel ricordare sensi, vestiti, vocabolari del nulla.
Credi che basti farsi da parte
nessuno a far ricordare
nessuno a custodire
nessuno alla fine del viaggio.
Dovresti sapere in questa categoria
dell’invisibile, solo il respiro conta
e quelli che rimangono
come cuori obbligatori, tutto il resto
non sarà mai nostro.

Alessandra Frison è nata in provincia di Verona nel 1985 e vive a Milano. Sue poesie sono comparse nell’Almanacco dello Specchio 2008 (Mondadori) e in alcuni blog e riviste.
Un suo racconto fa parte dell’antologia “Bloggirls, voci femminili dalla rete” (Mondadori 2009). Nel 2013 è uscito il suo primo libro di poesie, Le ore della dispersione, edito da LietoColle.

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