Michael Schmidt, The Stories of My Life

 

cover_Stories
Anteprime, Contemporary Mexican Poetry, Poesia messicana contemporanea


E’ in  uscita per le Edizioni Kolibris, Michael Schmidt, da: The Stories of My Life, Smith / Doorstop  2013,  Edizione Bilingue, Traduzione di Chiara De Luca.
Breve biobliografia di Michael Schmidt
E’ nato in Messico nel 1947. Ha studiato al Wadham College di Oxford. È Professore di Poesia alla Glasgow University, dove è Responsabile del Programma di Scrittura Creativa. Nel 1969 è unodei fondatori della casa editrice Carcanet Press Limited, di cui è direttore editoriale. Nel 1972 ha fondato la “PN Review”, una delle più importanti e autorevoli riviste letterarie nel panorama della letteratura di lingua inglese. Poeta, narrtore, curatore di antologie, traduttore, critico e storico letterario, è membro della Royal Society of Literature. Nel 2006 gli è stato assegnato un O.B.E. (Officer of the Order of the British Empire) per il servizio reso alla poesia.

Schmidt[1]

da: The Stories of My Life, Michael Schmidt, Smith/Doorstop 2013

Agatha
What is it like in heaven, Agatha?
I see you in those tight scuffed shoes, now dangling
Not over the playground wall (and your sharp knees
And the frayed serge skirt of your school uniform)
But off a black cloud hard against the blue.
They swing to and fro, to and fro, what can you see
So high above my head, and the tree and the hill?
Am I down here, is your house, is your lame cat Dorcas
With whiskers on the left side of her face
And a broken tail? Can you see us, do you want to now,
Recalled by the school alarm, the smell of asphalt
Softening in the sun, and the effulgent haze,
Or is all this fading, faded, faded out? If so, if your
Eyes have been able to uproot themselves from us,
Do they feed on the entire firmament, is it blue,
And is this as though it never had been at all,
Where I stand, where you used to sit on the wall?
What is it like, dear skinny Agatha,
With your sharp ribs under a stained singlet, your flat
Chest with nipples stuck on like round plasters,
Like valves, like coppers tipped slightly on smooth sand?
(We walked on the level shore at Capistrano
Gathering dark sand dollars and coolie-hat shells;
First we were five and six, then six and seven.)
What is it like, your straight lips pursed, your grey eyes, Agatha,
Gazing at a sky you’re new in and new to?
And what is it like, dear Agatha, without me?
What colour is your hair now, how do you wear it?
Still in braids, or piled up high, in a bun or pony-tail?
I stand beneath your cloud and ask and ask.
***
Agatha
Com’è in cielo, Agatha?
Ti vedo in quelle strette scarpe lise che non dondolano
più dal muretto del parco giochi (e le ginocchia aguzze
e la logora gonna in saia dell’uniforme della scuola)
ma da una nuvola nera impressa sull’azzurro.
Oscillano a destra e a sinistra, a destra e a sinistra, che vedi
da tanto in alto sopra la mia testa, e gli alberi e la collina?
Ci sono io quaggiù, c’è la tua casa, e il gatto zoppo
che ha vibrisse sul lato sinistro del muso soltanto
e la coda tagliata? Puoi vederci, vuoi forse sapere,
rievocato dalla campanella della scuola, l’odore dell’asfalto
che si scioglie al sole, e la fulgida foschia, o tutto questo
è sbiadito, dissolto, svanito? Se così è se
è riuscito ai tuoi occhi di svellersi da noi,
si nutrono di tutto il firmamento, è azzurro,
ed è come se non fosse mai avvenuto affatto,
dove stavo in piedi, dove tu sedevi sul muretto?
Com’è, Agatha, scricciolo mio,
con le costole affilate sotto la canotta macchiata, il petto
piatto coi capezzoli attaccati come tondi cerotti, valvole,
monete premute sulla liscia sabbia piano piano?
Raccogliendo scuri dollari di sabbia e coolie di conchiglie;
(d’appriva avevamo cinque e sei anni, poi sei e sette.)
Com’è, cara Agatha, sporgi le tue labbra dritte, gli occhi grigi, Agatha,
guardando il cielo che ti è sconosciuto e che non ti conosce?
E com’è, cara Agatha, senza di me?
Di che colore hai i capelli ora, come li porti?
Ancora in trecce, o raccolti in alto in una coda o un concio?
Sto sotto la tua nube e chiedo e faccio domande su domande..
***
She Said
He went that way, quite fast, under the yellow tree
With a face red as a smacked behind, tears in his eyes,
Wearing again, she said, the moleskin trousers and tartan waistcoat
He wore to her wedding, the first, when the slut first said yes
Meaning the no it took her years to utter.
Oh, she remembered the waistcoat well enough, and she saw
How it became him despite the wake of years.
He was twenty-two again for a moment, she nineteen,
Her hair pulled back tight in a jet-black bun
And they stood there face to face with his hand on her breast.
How much she loved him still, how much she loved him!
It was easier to say no this second time,
Much easier, thanks to the practice she had had,
Thanks to the afternoon, and autumn, and he was old
And her heart had never healed so it didn’t break again
When she felt his breath on her nape as he asked her.
That way, under the yellow tree, he went, she said,
In his tartan waistcoat, this time he was really gone
For good, she said, as though it mattered to her.
***
Lei disse
Se ne andò da quella parte, piuttosto in fretta, sotto l’albero giallo
col volto arrossato di chi è colto in fragrante, le lacrime agli occhi,
indossando di nuovo, lei disse, i calzoni in cotone e il gilet scozzese
che portava al suo matrimonio, il primo, quando la puttana disse sì
la prima volta, intendendo il no che impiegò degli anni a pronunciare.
Oh, lei fin troppo bene ricordava quel gilet, e lo vide
trasformarsi in lui a dispetto degli effetti degli anni.
Per un istante lui tornò ventiduenne, diciannovenne lei,
coi capelli raccolti tirati all’indietro in un nerissimo chignon
e rimasero là faccia faccia con la mano di lui sul seno di lei.
E quanto ancora lo amava, quanto lo amava!
Pronunciare quel no fu più semplice stavolta,
molto più semplice, grazie alla pratica che aveva alle spalle,
grazie al pomeriggio, e all’autunno, e al fatto che lui era vecchio
e il cuore di lei non era mai guarito perciò non s’infranse di nuovo
sentendo il suo fiato sulla nuca mentre lui glielo chiedeva.
Da quella parte, sotto l’albero giallo, se ne andò, lei disse,
nel suo gilet di cotone, stavolta era partito davvero
per sempre, lei disse, come se le importasse.
***
In the Woodcutter’s Hut
In the woodcutter’s hut the mattresses were stuffed
With beech-leaves and their scent. The drifting snow
Blacked out the window, sealed the door, we breathed
Thanks to the stone chimney. In fact,
It wasn’t really cold, we had the cask,
Salt beef, the crate and loaves.
                                            How the hours,
The hours slowed down, the nights, then the week also,
How they slowed
To breathing in the dark, the rise and fall,
And the pulse hardly ticking wrist and temple.
It seemed like days and days, we couldn’t count,
We didn’t talk in the dark, we didn’t touch.
The beech trees told their season rosary,
From spring through autumn, over and over.
                                                                Cut
Before the sap was out of them, they stayed
Alive and in the blackout
We hibernated and were unafraid
Because the beech leaves kept telling their story
And when we dozed they lived again on our boughs,
In the good air we swayed, the beech leaves turning
First red, then green, then copper, and bright birds
Swam among them, perched, whetted their bills on our knuckles.
We were the beech boughs, tree skeletons, the gracious copse.
How long we slept! How they made use of us!
Without those mattresses we wouldn’t have survived.
Now we’re mast and nut and foliage, their bough, their tree.
***
Nella baracca del taglialegna
Nella baracca del taglialegna i materassi erano imbottiti
di foglie di faggio e del loro effluvio. Neve accumulata
oscurava la finestra, sigillava la porta, respiravamo
grazie al comignolo in mattoni. In realtà non era
freddo per davvero, avevamo la botte,
carne salata, cesta e pagnotte.
                                            E come le ore
rallentavano le ore, le notti, poi la settimana,
come rallentavano
per respirare nel buio, l’innalzarsi e il cadere,
e il battito che a stento ticchettava nei polsi e nelle tempie.
Giorni e giorni parevano passare, ne perdevamo il conto,
non parlavamo nel buio, non toccavamo.
I faggi recitavano il rosario delle stagioni,
dalla primavera passando per l’autunno, all’infinito.
                                                                     Recise
prima che ne uscisse la linfa, restavano
in vita e nel blackout noi
eravamo ibernati e senza paura perché le foglie
dei faggi continuavano a narrare la propria storia
e quando ci assopivamo resuscitavano sui nostri rami,
nell’aria buona oscillavamo, le foglie di faggio diventavano
rosse, poi verdi, poi ramate, e allegri uccelli ci sciamavano
intorno, posandosi, si arrotavano i becchi sulle nostre nocche.
Eravamo i rami dei faggi, tre scheletri, la macchia accogliente.
Quanto dormivamo! Come ci hanno sfruttati!
Senza quei materassi non saremmo sopravvissuti.
Ora siamo tronco e chioma e fogliame, il ramo che le accoglie, l’albero intero.
***
Towards Monte Alban
High on the hill shanties catch
The day’s first rays, not hot at all,
That dazzle, the ignition
Of white things, blades of glass, of tin
And clothes hung out (the poor are
The cleanest people, always). Eyes
Open pearl white, the iris
Sapphire. Eyes open pearl white on
The day’s one good minute.
                                         Sun
Goes downhill after that to a
Descending chorus of cocks.
Caws, little birds jump from their nests.
The near hills shift to distance.
What is close and is not clean and
Cannot dazzle clarifies.
Light dulls to haze. It’s eight o’clock,
The shrill knife grinder rides by.
Heads down, the cocks are plucking dust.
***
Verso Monte Alban
In cima alla collina le casupole catturano
i primi raggi del giorno, per nulla caldi,
quel bagliore, l’accensione
di cose bianche, lame di vetro, di stagno
e abiti appesi ad asciugare (i poveri sono
la gente più pulita, sempre). Occhi
si aprono bianco perla, l’iris
zaffiro. Occhi si aprono bianco perla
sul solo istante buono del giorno.
                                                Il sole
lo insegue lungo la collina verso
un coro discendente di galli.
Mucche, uccellini saltano fuori dai nidi.
Le colline vicine recedono in distanza.
Quel che è prossimo e non chiaro e
e non può abbagliare si schiarisce.
Le luci si smorzano in foschia. Sono le otto,
strillando passa l’arrotino di coltelli.
A testa china, i galli beccano la polvere.
***
Death of the Novel
At Preston Station Yevgeny Bazarov
Gave up the ghost. Having found his Russian heart,
A medical vocation, just starting out
For real, becoming good against his nature,
He died. My train was late again and the snow
Drifted across the platform. Closing the book,
I brushed the ice off of my cheeks, blew my nose.
I stamped my boots to get the circulation
Going, and so returned to the present tense.
Thomas Buddenbrook – at the height of summer,
Arriving at St Pancras, the evening light
In prisms playing on steel, slate and brickwork –
Clamped his rotting teeth. His heart stopped and he slumped
Beside me. I folded him away. I lost
Anna Karenina under the station
Clock in Baltimore. Speeding to Paris, Swann,
I abandoned you. The train had broken down
Just outside Turin when Gerald Crich arrived
At the hollow basin of snow, slipped, and fell,
‘And as he fell something broke in his soul, and
Immediately he went to sleep.’ I have lost
On trains, at stations, so many characters,
Don Quixote, Mrs Ramsay, Nepomuk
A mere child, Little Dombey counting the waves,
Nell, and Mesdames Bovary first and second,
Sweet Madame de Renal and her luminous
Glow worm. And worse, the very worst, Hurstwood, who,
Ragged and spent, in his small cold room, began
To take off his clothes, but stopped first with his coat,
And tucked it along the crack under the door…
After a few moments, in which he reviewed
Nothing, but merely hesitated, he turned
The gas on again, but he applied no match.’
On his tombstone Norman Douglas had them carve,
Omnes eodem cogimur, we all reach
The same bourn. His final words, in character:
‘Get these fucking nuns away from me.’
They die
             Also, the authors, turning not into ghosts
Like ordinary pilgrims, but into stories
As real, if they wrote truly, as what they wrote.
Stevenson, for instance, still young when he died,
Is told and retold. Henry James adored him,
Man and boy, savouring him in his own words,
Reshaping him as his song, ‘a child of air
That lingers in the garden there…’ Samoa
Made him Tusitala, Teller. There he died,
Decanting a good bottle of Burgundy.
Omnes eodem. Conrad called on his friend
Stephen Crane at Dover. It was Crane’s last day
In England. He lay in a hotel bedroom
‘With a large window looking on to the sea.
He had been very ill and Mrs Crane was
Taking him to some place in Germany.
But one glance at that wasted face was enough
To tell me it was the most forlorn of hopes.’
Crane said, ‘I am tired.’ Then he said, ‘Give my love
To your wife and child.’ Looking back from the door,
‘I saw he had turned his head on the pillow.’
Conrad watched from the threshold, noting how ‘he
Was staring out of the window at the sails
Of a cutter yacht that glided slowly like
A dim shadow against the grey sky.’ He pulled
The sea around him, tight around his shoulders.
It was cold.
                 I stamp my boots. The train arrives.
***
Morte del romanzo
Alla stazione di Preston Yevgeny Bazarov restituì
l’anima a Dio. Dopo aver trovato un amore russo,
una vocazione alla medicina, appena partito
per davvero, diventando buono contronatura,
morì. Il mio treno era in ritardo di nuovo e la neve
si stava ammucchiando sul binario. Chiusi il libro,
mi strofinai via il ghiaccio dalle guance, mi soffiai il naso.
Premetti al suolo gli stivali per rimettere in moto
la circolazione, tornai così facendo al presente.
Thomas Buddenbrook – al culmine dell’estate,
in arrivo a St Pancras, la luce della sera giocava
in prismi sull’acciaio, l’ardesia e i mattoni –
Strinse i denti marci. Gli si fermò il cuore e mi crollò
accanto. Lo ripiegai e riposi. Ho perduto
Anna Karenina sotto l’orologio alla stazione,
a Baltimora. È sfrecciando verso Parigi, Swann,
che ti ho abbandonato. Il treno si era guastato
appena fuori da Torino quando Gerald Crich arrivò
alla fossa colma di neve, scivolò e vi cadde dentro.
“E cadendo qualcosa gli si ruppe nell’anima, e
subito dopo andò a dormire.” Ho perduto
sui treni, nelle stazioni, così tanti personaggi,
Don Quixote, Mrs Ramsay, Nepomuk soltanto
un bambino, Little Dombey che contava le onde,
Nell, e Mesdames Bovary prima e seconda,
la dolce Madame de Rênal e la sua luminosa
lucciola. E peggio del peggio, Hurstwood, esausto
e cencioso nella sua piccola stanza gelata, iniziò
“a svestirsi, ma d’apprima si fermò col cappotto,
per infilarlo nella fessura ai piedi della porta…
Dopo qualche istante, in cui non ripercorse
niente, ma esitò semplicemente, aprì di nuovo
il gas, ma senza avvicinarvi alcun fiammifero.”
Sulla sua lapide Norman Douglas volle fosse inciso,
Omnes eodem cogimur, noi tutti infine raggiungiamo
Il medesimo ruscello. Le sue ultime parole, nel suo stile:
‘Tenetemi lontane queste maledette suore.’
                                                       Anche loro
muoiono, gli autori, non divengono fantasmi
come comuni pellegrini, bensì storie
reali, se erano sinceri, quanto quello che hanno scritto.
Stevenson, ad esempio, ancora giovane quando morì,
lo si è detto e si è ridetto. Henry James lo adorava,
il bambino e l’uomo, gustandolo nelle sue parole,
ridandogli forma nella canzone, “un bimbo d’aria
che indugia nel giardino laggiù…” Samoa
ne fece Tusitala, Teller. Là lui morì,
travasando una bella bottiglia di Burgundy.
Omnes eodem. Conrad chiamò il suo amico
Stephen Crane a Dover. Era l’ultimo giorno di Crane
in Inghilterra. Era disteso in una stanza d’albergo
“Con un’ampia finestra che dava sul mare.
Era stato molto malato e Mrs Crane lo stava
portando in non so quale posto in Germania.
Ma uno sguardo a quel volto distrutto mi fu sufficiente
a capire come fosse la più vana delle speranze.”
Crane disse, “Sono stanco.” Poi disse, “Dai un bacio per me
a tua moglie e a tuo figlio.” Voltandomi proprio sulla porta,
“vidi che aveva girato la testa sul cuscino.”
Conrad guardò dalla soglia, notando come “stesse
osservando attraverso la finestra le vele
di un cutter che lento scivolava contro
il grigio del cielo come un’ombra scura.” Lui gli rimboccò
il mare fino al collo, glielo strinse attorno alle spalle.
Era freddo.
               Premo al suolo gli stivali. Arriva il treno.
 

3 pensieri su “Michael Schmidt, The Stories of My Life

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