Il compito del poeta è quello di darci la mano
di Gandolfo Cascio
Ολυμπία è la città che organzizzava e dove si svolgevano i giochi olimpici. Olimpia era, però, anche sede di templi e teatri, fatto che testimonia che fu anche luogo di culto e di una certa importanza culturale. Il locus è, cioè, allo stesso tempo un luogo chiuso, conclusus, ma anche aperto ad accogliere chi arriva da fuori – purché con uno scopo bene preciso –. Certo che Luigia Sorrentino è consapevole di questa realtà e pare che vi si sia avvicinata con determinazione e senza insolenza. Già da una prima lettura si nota come l’approccio sia cauto e rappresentato in forma di ‘progresso’, dell’avanzamento verso, e attraverso, degli spazi reali: ‘L’antro’; ‘L’atrio’; ‘Il giardino’; ‘Il lago’. Questi luoghi si attraversano in modo, diciamo, orizzontale, per poi superarne i confini per poi scendere (‘La discendenza’). Il percorso, così, si fa verticale nella forma della caduta, testimoniando dapprima un momento di disfacimento, di analisi (anche nella fase inconscia del sonno) e poi una nuova spinta verso l’alto in un altro, ma sempre nuovo, percorso conoscitivo raccolto nella metafora della salita al monte: una vicenda che riprende appieno un topos sperimentato sia da Dante nel monticello del Purgatorio, sia da Petrarca nel Mont Ventoux. In particolare a me pare che proprio Dante sia il riferimento più verosimilmente vicino alla sensibilità di Sorrentino. Questa mia riflessione è sostenuta dall’analisi che si può fare sui testi, dove si nota come la lingua, le scelte stilistiche, tendano a una scrittura e da scelte formali più consone a certi stilemi (ancora) aristocratici della Vita nova: «con gioia pensiamo al giorno | quando nella luce potremo | uscire per abbandonare | ciò che la nostra primavera | vincola» (p. 75). Una tale lucidità semantica, a mio parere, è data dallo scarto, dal trauma, tra i vari segni. Uso il termine come farebbe Roland Barthes, e cioè evidenziando come nei testi di Olimpia il contrasto tra lingua e parola, significante e significato e, infine tra denotazione e connotazione si risolve proprio come avvine a tutt’oggi – e ancora con tanto splendore – nel testo vitanoviano. A convincermi della mia tesi sono ancora due elementi. Il primo è la scelta di integrare nel libro dei brevi testi in prosa; e un secondo mi viene fornito da una riflessione che Milo de Angelis fa nella sua presentazione del volume, dove, giustamente, parla di rapporto Vita-Morte, e mette in evidenza il concetto, escatologico, di «Salvezza» (p. 7). Il libro, dunque, ha una sua tesi di fondo che si esprime pienamente – e in «fresca chiarezza» (p. 93) – nell’arrivo in un posto che è fisico, ma anche spirituale: «La città nuova». Questa è lo spazio della salvezza, per quanto esso sia limitato dal «confine di un orizzonte tagliato da una sorgente d’acqua» (p. 99). La città di Sorrentino, in definitiva, non è una utopia, un non-luogo. Al contrario. Essa è il luogo interiore dove tutti noi siamo destinati a percorrere chilometri, a inciampare, in un saliscendi che, in definitiva, chiamamo Vita. Al poeta, allora, spetta il compito antico e nobile, già affidato all’angelo quando accompagna Tobia: ossia, quello di prenderci per mano e di guidarci verso la città, per poi tornare a casa e salvare chi ci sta accanto.