Progetto editoriale ideato e curato da Fabrizio Fantoni con la collaborazione di Luigia Sorrentino
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L’alibi della musica nella poesia di Elsa Morante
di Siriana Sgavicchia
Elsa Morante è autrice su cui non si discute in quanto a rilevanza nel panorama del romanzo italiano del novecento. Menzogna e sortilegio (1948), L’isola di Arturo (1957), La Storia (1974), Aracoeli (1982) sono, in modo diverso, opere di straordinaria potenza espressiva. Il romanzo d’esordio inventa a partire da una clausura un intreccio articolato di immaginarie avventure, proprio come Cervantes nel capolavoro del Don Chisciotte; L’isola di Arturo inscena il mito festoso e insieme tragico dell’eden; la vicenda di Ida e Useppe riscrive la Storia all’insegna dell’utopia a partire dal microcosmo di una madre e di un figlio; Aracoeli pone in primo piano il dramma della scoperta di una accecante verità senza possibilità di catarsi. In tutti i casi la forza della scrittura di Morante è soprattutto nell’invenzione dei personaggi, i suoi sono inconfondibili e indimenticabili: Elisa, Arturo, Ida, Manuel, le loro storie, sono miti moderni. Per questo Elsa Morante è più vicina ai lettori di altri autori italiani suoi contemporanei, per i suoi personaggi.
Di Elsa Morante si conosce, invece, poco la poesia. È vero che l’autrice complessivamente si è dedicata meno alla poesia, avendo scritto e pubblicato soltanto due raccolte, Alibi nel 1958, Il mondo salvato dai ragazzini nel 1968. È anche vero che entrambe le raccolte sono laboratorio dei romanzi ai quali negli stessi anni l’autrice lavorava – Alibi include poesie scritte fra il 1941 e il 1957, dunque contemporanee alla stesura di Menzogna e sortilegio e dell’Isola di Arturo; Il mondo salvato è in stretto rapporto con La Storia. Entrambe le raccolte hanno, però, valore anche prescindendo dalla relazione con le opere narrative; ne hanno per la qualità letteraria e anche perché fanno emergere un aspetto latente della scrittura morantiana, cioè l’intimità della scrittura con la musica. Di ciò non si è molto discusso, a parte qualche eccezione (Carmelo Samonà ha scritto sull’argomento). Eppure nell’opera di Elsa Morante uno spirito della musica (e della poesia) si accompagna all’indole prevalentemente narrativa (e tragica) della scrittura.
Nella brevissima nota che, come un prologo a teatro, apre il sipario di Alibi si legge un avvertimento al lettore in cui l’autrice chiede di essere perdonata per l’«esiguo valore» delle pagine che seguono: «radi versi» – scrive – e nient’altro che «un eco, o, se si voglia, un coro» dei suoi romanzi. La tramatura metaforica intorno al suono – eco, coro – prosegue. Morante definisce, infatti, le poesie raccolte in Alibi «un divertimento, o gioco, al quale essa ama talvolta abbandonarsi senza troppo impegno, per semplice piacere della musica». Il libro si apre, quindi, indicando nel divertimento, nel gioco, e nella musica gli «alibi» dello scrivere versi.
Nel Mondo salvato dai ragazzini il legame fra poesia e musica è forse ancora più esplicito, in particolare nell’omonima serie che compone un «poema di varie canzoni unite da un unico ritornello sovversivo» e in particolare nella Canzone clandestina della Grande Opera che è stampata come una partitura musicale, alternando note sul pentagramma in una composizione dissonante: «[…]ATTENZIONE! Ci siamo! Con la nostra odierna trasmissione/domenicale del mattino vi offriamo un documento D’ECCEZIONE:/in questo preciso momento con uno speciale accorgimento e un acrobatico ardimento/siamo riusciti a collocare il nostro microfono clandestino dentro la gabbia di un canarino/che affaccia proprio verso il centro della Piazza Imperiale dov’è in pieno svolgimento lo Spettacolo teatrale!!!!!!/Come potete giudicare dal frastuono colossale, la rappresentazione in questo momento fa un effetto micidiale! Tutti s’intruppano/s’accapigliano/si sbatacchiano/si schiaffeggiano/ s’addensano/ si pèstano/ si stuprano/ si sturbano/ urlano gemono ridono stridono soffiano sbattono cascano rotolano. /A quanto pare dicono/ pare che la colpa sia tutta dei/ poveri./ Per cui mentre vi parliamo è stato emesso dal Sovrano un DECRETO UFFICIALE/ che indice la persecuzione OBBLIGATORIA E RADICALE dei POVERI! […]».
La musica del Mondo salvato e assai diversa, però, da quella di Alibi: è passata attraverso gli incendi delle nuove avanguardie, che certo non infuocarono Elsa, ma dei quali sembra essere rimasta una traccia nella trasgressione del ritmo e nello scandalo della parola che si scontra con la realtà, entrambe materia. Nel Mondo salvato dai ragazzini, il cui sperimentalismo espressivo è stato avvertito come extravagante e talvolta respingente rispetto al resto della produzione morantiana (ma vi sono stati e vi sono entusiasti estimatori da Pier Paolo Pasolini a Goffredo Fofi), si sente l’eco sonora del tumbling hallucinatory di Howl di Allen Ginsberg, autore che Morante apprezzò, probabilmente anche nel contesto delle vicende legate al tragico amore per il giovane pittore newyorkese Bill Morrow, omosessuale morto suicida nel 1962.
In Alibi c’è una musica magica, sontuosa, capricciosa, la musica di Mozart, tra le altre, e un personaggio sta al centro della narrazione in versi – anche qui come nei romanzi -: è un fanciullo visionario (di cui i ragazzini sono variante psichedelica). Il fanciullo di Alibi si inebria di irreale nell’incanto fiabesco delle vite e dell’arte e, come Rimbaud – amatissimo da Elsa -, attraversa l’inferno per tornare nel suo eden: «O flots abracadabrantesques» (si legge da Rimbaud, appunto, in epigrafe nel settimo capitolo dell’Isola di Arturo.
In Alibi, dunque, une saison en enfer. Nel Mondo salvato dai ragazzini, invece, il concerto di un limbo che dura in eterno, in cui alla magia si oppone la disarmonia e l’interruzione definitiva dell’ordine ciclico del mito, e del classico (la pièce Edipo a Colono che vi è inclusa è, infatti, una parodia). Nella dedica in versi che apre L’isola di Arturo si legge: «fuori del limbo non v’è eliso»; così alle arie d’opera di Alibi si sostituiscono contrappunti jazz e labirinti di voci dai quale non si esce a riveder le stelle.
Mozart (il mito) e il jazz (la Storia) non sono nominati per caso a proposito della poesia di Elsa Morante perché diretta testimonianza della passione musicale della scrittrice sia per l’uno che per l’altro, e anche della sua competenza in fatto di musica più in generale, si ritrova in una curiosa e preziosissima rubrica conservata assieme ad altre carte inedite e databile ai primi anni sessanta in cui sono diligentemente riportati dalla stessa i titoli e le edizioni dei dischi che possedeva – più di mille, fra i quali diversi di autori importanti della storia del jazz, assieme al repertorio pressoché completo delle opere musicali di Mozart, che nel quadernetto è segnalato dalla stella di David, cioè come una predilezione, assieme a Bach e anche a Bob Dylan. E c’è molto altro, dalla musica antica alla contemporanea e sperimentale, dall’etnica giapponese e indiana al pop, cosicché si spiega perché Pasolini chiese proprio ad Elsa consulenze musicali per Il Vangelo secondo Matteo e per Medea.
In Alibi, come si è detto, c’è Mozart, e il Mozart in Opera, e nella rubrica musicale morantiana non mancano altri importanti rappresentanti del melodramma italiano, da Rossini del Barbiere di Siviglia, a Donizetti dell’Elisir d’amore e di Lucia di Lammermoor a Verdi del Rigoletto, del Trovatore, della Traviata, di Un ballo in maschera, di Otello, di Falstaff. Ecco allora, di nuovo, i personaggi, anche nella poesia come nella narrativa. Essi sono in Alibi il centro della narrazione in musica di amori e di dolori, di immaginazioni e di colore, non senza accenti comici o, per meglio dire, parodici. Sulla scena di Alibi si esibiscono in virtuosistici assoli spesso figure femminili – Minna la gatta, Saruzza, Nerina, una madre (immancabile) e Sharazad (narratrice, appunto, che si salva dalle tenebre esercitando l’arte della parola nel canto). E ancora vi sono il gatto Alvaro, l’uccellino con il suo «Hallalì Hallalì», e Niso della leggenda e Aida e anche Amleto: «[…] E se almeno potesse questa angosciosa mente/come acqua toccare la radice, salire come il verde/alla punta più alta. Ispida linfa/e fatuo stelo! Sempre rinato a invaghirti/(con sospiro puerile e inerme)/dei cavalieri feroci che giocano alla caccia/delle angeliche belve» (Amleto).
Ma il personaggio protagonista della trama preziosa e autentica di questo libro è Narciso, che vi compare però sotto mentite spoglie. L’autrice decise, infatti, di non presentare direttamente il protagonista con il suo nome quando per l’edizione delle poesie del 1958 escluse un componimento intitolato proprio Narciso il cui abbozzo è stato pubblicato postumo da Garboli nell’edizione 2004 di Alibi. Si tratta di un testo originariamente compreso nell’omonimo e inedito Quaderno di poesie e d’altro risalente al 1943-‘45 che contiene il primo progetto di Alibi. Nello stesso quaderno si legge con varianti anche il componimento dedicato proprio ai personaggi che apre, come è noto, Menzogna e sortilegio; il quale, invece, l’autrice decise di includere nella raccolta edita da Longanesi portandovi proprio l’accento di un’aria d‘Opera: «Voi, Morti, magnifici ospiti m’accogliete/nelle vostre magioni regali/i vostri miniati volumi/sfogliate graziosamente per me […]».
Ecco allora che Alibi appare come un poema di Narciso, di un Narciso in musica: il poeta si immerge in uno specchio d’acque in cui sono presenti tutti i tempi, tutti i luoghi, e insieme persone e personaggi. Cesare Garboli di Alibi ha scritto che tutte le poesie della raccolta «sono poesie d’amore» e non importa che «l’amore sia immaginario o reale», quest’ultimo è il caso della passione per Luchino Visconti – «ultimo amore impossibile, doloroso, pazzo» raccontato e inventato nella poesia Avventura. A maggior ragione quando l’amore è immaginario esso è «forza mistica, nemica e divina» – scrive Garboli, a proposito di Elsa Morante –, è forza «che non appartiene all’umano ma a un regno più tenebroso, a un’esperienza misteriosa e animale». Proprio l’animalizzazione nella poesia di Alibi è in stretto contatto con lo spirito della musica, con l’invasione di un culto barbaro dell’amore – il lemma barbaro è ricorrente: «Lo so: io, donna sciocca e barbara» (Ai personaggi); «E t’ero uguale!/Uguale! Ricordi, tu, arrogante mestizia? Di foglie/tetro e sfolgorante, un giardino/abitammo insieme, fra il popolo/barbaro del Paradiso» (Canto per il gatto Alvaro). L’animale è oltre l’umano, è dunque anche divino, e il poeta vi si specchia, appunto, come il narciso nero d’amore del Pasolini friulano che danza tra le viole scoprendo il proprio volto deformato (Dansa di Narcis). Non è forse casuale che Elsa Morante si dedichi alla poesia progettando una raccolta documentata dall’inedito Quaderno di Narciso proprio a ridosso della pubblicazione della raccolta friulana di Pasolini uscita nel 1942 e in cui campeggia, straordinario, il personaggio autobiografico di Narciso; così che la questione della ricorrenza di questo mito nell’opera di Elsa Morante, su cui si è soffermato giustamente Alfonso Berardinelli (si veda anche il saggio morantiano I tre narcisi in Pro e contro la bomba atomica), è questione eminentemente stilistica, e non solo psicoanalitica come ritiene chi continua ad appiattire il profilo dell’opera della scrittrice su quello della vita.
Il nodo di Narciso è questione di stile e per questo Elsa decide di escludere il componimento Narciso, che avrebbe forse potuto semplicisticamente ricondurre a Pasolini, laddove il processo di rispecchiamento fra i due poeti deve essere stato assai articolato e ricco di implicazioni creative. Narciso, poi, avrebbe ricondotto non solo alla poesia friulana ma avrebbe stabilito una liaison esplicita proprio con l’Usignolo della chiesa cattolica, raccolta uscita assieme a Croce e delizia di Sandro Penna nello stesso 1958 e nella stessa collana di Longanesi diretta da Nico Naldini in cui uscì anche Alibi. Narciso pasoliniano è una ispirazione forte, non c’è dubbio, per Elsa Morante, è l’altro personaggio della poesia (e della musica) accanto ai personaggi delle sue narrazioni. Narciso che si nutre di volta in volta di impossibili amori, reali e immaginati, sta accanto a Elisa, ad Arturo, a Ida e a Useppe, a Manuel, e anzi tutti li contiene e in certo modo li riassume, in quanto rappresenta nelle varianti del mito classico e biblico e del mito autobiografico proprio il nucleo della scrittura di Morante, ciò che si cela dietro in numerosi suoi alibi e le successive metamorfosi, gaie e favolose e infere, dei suoi personaggi. E i versi di Pasolini sembrano proprio descrivere l’onda tragica delle trasformazioni espressive della poesia morantiana: «Sarò il Narciso fiore che si specchia/amante senza amore, con l’orecchia/ distratta dalle voci che l’amore/senza parole inventa per il fiore» (Lingua in L’usignolo della chiesa cattolica).
Alibi è una danza di Narciso, una danza dionisiaca, barbara, in cui per amore si esce fuori da sé per andare verso i personaggi e raccontarne le storie di tutti i tempi. L’incipit del componimento che intitola la raccolta è un manifesto: «Solo chi ama conosce. Povero chi non ama!/Come a sguardi inconsacrati le ostie sante,/comuni e spoglie sono per lui le mille vite./Solo a chi ama il Diverso accende i suoi splendori/e gli si apre la casa dei due misteri: il mistero doloroso e il mistero gaudioso./ Io t’amo. Beato istante/che mi sono innamorata di te.» E la benedizione dell’istante dell’innamoramento – giorno mese anno stagione tempo punto paese luogo – è il segno dell’inizio dell’invenzione poetica che assume proprio Narciso come figura della metamorfosi e alibi dell’invenzione: «[…]Tu eri il paggio favorito della corte d’Oriente,/tu eri l’astro gemello figlio di Leda,/eri il più bel marinaio sulla nave fenicia,/eri Alessandro il glorioso nella sua tenda regale./Tu eri l’incarcerato a cui si fan servi gli sbirri./Eri il compagno prode, la grazia del campo,/su cui piange come una madre/il nemico che gli chiude gli occhi,/ Tu eri la dogaressa che scioglie al sole i capelli/purpurei, sull’alto terrazzo, fra duomi e stendardi./Eri la prima ballerina del lago dei cigni,/eri Briseide, la schiava dal volto di rose./Tu eri la santa che cantava, nascosta nel coro, con una dolce voce di contralto./Eri la principessa cinese dal piede infantile:/il Figlio del cielo la vide, e s’innamorò […]» (Alibi).
Narciso di Morante è insieme madre e figlio: l’uno si specchia nell’altra e viceversa – come l’amante nell’amato, il poeta nei suoi fanciulli, il narratore nei suoi personaggi, compresi gli animali, anche, se si vuole, come l’autrice nei suoi amori. E la «fiaba estrema» di Alibi è racconto di un viaggio delle meraviglie e nòstos, in cui, come nella grande poesia di tutti i tempi, amore e morte sono uno accanto all’altra: «[…]Quando mi sei vicino, non più di un fanciullo m’appari/Le mie braccia rinchiuse bastano a farti nido/e per dormire un lettuccio ti basta./ Ma quando sei lontano, immane diventi./Il tuo corpo è grande come l’Asia, il tuo respiro/è grande come le maree./Sperdi i miei neri futili giorni/come l’uragano la sabbia nera./Corro gridando i tuoi diversi nomi lungo il sordo golfo della morte.//[…] Dormi./La notte che all’infanzia ci riporta/e come belva difende i suoi diletti/dalle offese del giorno, distende su noi/la sua tenda istoriata./I tuoi colori, o fanciullesco mattino,/tu ripiegasti./Nella funerea dimora, anche di te mi scordo.//Il tuo cuore che batte è tutto il tempo./Tu sei la notte nera./ Il tuo corpo materno è il mio riposo» (Alibi).